venerdì 7 dicembre 2012

La Costituzione che divide l'Egitto

La Primavera araba torna rovente. Gli eventi del Cairo influenzeranno la Tunisia, prigioniera di un inquietante risveglio. La Rivoluzione contesa tra laici e Fratelli musulmani. E l'incognita resta l'esercito di BERNARDO VALLI Nelle rivoluzioni il compromesso, soluzione principe della politica, tarda ad arrivare. È quel che accade in queste ore in Egitto dove due forze si contendono in aperta tenzone, a muso duro, la "primavera" cominciata nel gennaio dell'anno scorso in piazza Tahrir, nel cuore del Cairo. Entrambe rivendicano di fatto, separatamente, il diritto di esercitare il potere, poiché ciascuna si considera appunto l'unica autentica rappresentante della rivoluzione da cui quel potere deriva. Da un lato i laici, i liberali, i cristiani, raccolti in un Fronte nazionale di salvezza dai confini incerti, accusano il presidente Mohammed Morsi, espressione di un vago, ampio fronte islamico, di essere un usurpatore; dall'altro i Fratelli musulmani difendono la legittimità di Morsi e delle prerogative che si attribuisce, in quanto capo dello Stato eletto al suffragio universale. L'esercito avrebbe gli strumenti per decidere la sorte della rivoluzione contesa. Ma a parte l'inevitabile impegno di alcune unità d'élite, incaricate della protezione del capo dello Stato, rafforzate per l'occasione da qualche carro armato parcheggiato davanti alla presidenza, nel quartiere di Heliopolis, al fine di tenere a distanza i manifestanti, a parte queste essenziali precauzioni, i militari sono rimasti fuori dalla mischia. Si sono ben guardati dall'intervenire in appoggio di una delle parti a confronto. In agosto i generali più giovani hanno esautorato i loro colleghi anziani, compromessi col vecchio regime, hanno concluso un'alleanza con i Fratelli musulmani, e quindi hanno appoggiato Mohammed Morsi appena eletto alla presidenza della Repubblica. In cambio hanno conservato, e conserveranno, i privilegi riservati da più di sessant'anni alla società militare. Ma non hanno venduto del tutto la loro anima. Un'anima tutt'altro che omogenea, poiché nel corpo ufficiali prevale un tradizionale spirito laico, risalente ai primi anni Cinquanta, quando fu proclamata la repubblica; mentre la truppa, in cui sono in maggioranza i coscritti provenienti dalle diseredate periferie urbane, e dalle province ancora rurali, è sotto una forte, altrettanto tradizionale influenza religiosa. Quindi i soldati sono tendenzialmente per i Fratelli Musulmani, o per i salafiti, più estremisti. Insomma l'esercito, per ora, resta un enigma. E' invece evidente che la "primavera araba" data per morta, sommersa dall'ondata islamica, è ancora rovente, e non solo nella sua versione egiziana. La Tunisia, che ha conosciuto la prima rivolta contro i raìs, e che poi è rimasta prigioniera di un prepotente, inquietante risveglio islamico, sarà influenzata, come altre società arabe, dagli avvenimenti del Cairo, principale capitale mediorientale. Dove i laici, i liberali, i progressisti, all'origine della insurrezione di piazza Tahrir, dopo essere stati emarginati dalla tardiva ma incontenibile irruzione sulle sponde del Nilo dei Fratelli musulmani, sono adesso riemersi in forza per far valere le loro esigenze democratiche. E contrastare la svolta autoritaria di Mohammed Morsi. Il quale, in attesa di una Costituzione, si è aggiudicato poteri definiti dai laici "uguali o superiori a quelli che aveva Mubarak", il raìs destituito. Adesso i promotori della "primavera araba" vorrebbero ridarle i colori iniziali. Il loro programma è vasto e di difficile applicazione. E' tuttavia la prova che la rivoluzione continua. La posta in gioco è la futura Costituzione. Vale a dire la natura politica dell'Egitto di domani. I due fronti, il laico e l'islamico, non usano le stesse armi. I primi, i laici, all'inizio chiedevano libere elezioni, ma si sono accorti molto presto che essendo frantumati in numerosi movimenti sarebbero stati facilmente sopraffatti nelle urne dai Fratelli musulmani, dotati di un partito ben organizzato (Libertà e giustizia), e di una rete sociale che abbraccia l'intero Egitto. Sono stati dunque gli islamici, non per vocazione democratica ma per motivi tattici, ad adottare le elezioni come armi politiche. Ed infatti hanno vinto tutte le consultazioni, quelle parlamentari annullate, come quelle presidenziali che hanno portato Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato. Morsi è tuttavia un presidente senza Costituzione, poiché quella del vecchio regime è stata annullata, e quella nuova dovrebbe essere sottoposta il 15 dicembre a un referendum. Al quale il fronte laico si oppone; e sul quale i giudici, indignati dai poteri giudiziari che il presidente si è attribuito, non vogliono soprintendere come la legge esigerebbe. Non è dunque sicuro che lo si possa tenere. Il testo costituzionale preparato dai Fratelli musulmani, nel caso si dovesse votare tra una settimana, non correrebbe comunque troppi rischi, perché sul terreno elettorale i Fratelli musulmani sono imbattibili. I numeri sono per loro. Per questo i laici, i progressisti, i cristiani si oppongono a un voto che renderebbe legittima la svolta islamica del paese attraverso la nuova Costituzione. Secondo Human Rights Watch il progetto di magna charta presentato da Morsi è difettoso e contraddittorio, ma non catastrofico. È ambiguo. Si presta a varie letture. La nuova Costituzione non disegna uno Stato teocratico, ma lascia aperte molte porte a un'evoluzione conservatrice rigorosa. Le libertà individuali sono garantite, ma al tempo stesso si affida a un'autorità religiosa, l'università islamica di Al Azhar, le decisione di interpretare, senza appello, i principi della sharia (le leggi coraniche) da applicare. Viene così esclusa curiosamente da questo compito qualsiasi altra autorità, giuridica o legislativa. E abbandonata alle variabili tendenze teologiche, agli umori religiosi, la facoltà di regolare le libertà dei cittadini. Per il capitolo essenziale delle donne è stata abbandonata una prima versione salafita, che puntava sulla lettura più intransigente del Corano. Ed è stata adottata la generica formula che riconosce "l'uguaglianza tra tutti gli egiziani". Anche se poi si esplicita che la donna "deve trovare un equilibrio tra i suoi doveri familiari e professionali". La libertà di culto è assicurata alle tre religioni monoteistiche, ma non è estesa a tutte le religioni. Mohammed Morsi non può agire come i vecchi raìs. Lui è condizionato dai salafiti, ala radicale dell'islamismo e concorrenti dei Fratelli musulmani. Non può disporre liberamente, almeno per ora, dell'esercito che vuole tenersi fuori dalla mischia. Non può usare con spregiudicatezza la polizia e annessi per reprimere le manifestazioni perché è sotto sorveglianza del Fondo Monetario internazionale dal quale aspetta quattro miliardi e mezzo di dollari, che dovrebbero impedire il fallimento economico del paese. E deve tener conto dello sguardo, sia pur non troppo severo degli americani, che danno un miliardo e mezzo all'anno alle forze armate. Il 22 novembre Mohammed Morsi ha tuttavia compiuto quel che può essere considerato un colpo di Stato. Ha proibito qualsiasi tipo di ricorso contro le sue decisioni e contro la Costituente, assumendosi così tutti i poteri. Compreso quello di scrivere una Costituzione su misura. Si è messo al di sopra delle leggi e ha eliminato via via tutti gli ostacoli alla conquista del potere da parte dei Fratelli musulmani. L'operazione ha colpito anche numerosi uomini del vecchio regime, in particolare nell'amministrazione della giustizia, spingendo verso l'opposizione funzionari epurati perché un tempo al servizio del deposto raìs. Questo non favorisce l'immagine del movimento laico e liberale. (07 dicembre 2012)

venerdì 16 novembre 2012

Netanyahu: «Israele non intende tollerare attacchi di razzi su un quinto della sua popolazione»

“Nelle settimane e nei giorni scorsi Hamas e le altre organizzazioni terroristiche della striscia di Gaza avevano reso impossibile la vita di più di un milione di cittadini israeliani nel sud del paese. Nessun governo tollererebbe una situazione che vede un quinto della propria popolazione vivere sotto un incessante fuoco di fila di razzi e missili. E Israele non intende tollerarla”. Inizia con queste parole una dichiarazione che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rilasciato giovedì pomeriggio alla stampa estera. “Questo è il motivo per cui il mio governo – ha proseguito Netanyahu – ha dato istruzione alle Forze di Difesa israeliane di condurre raid chirurgici mirati contro le strutture terroristiche a Gaza. Per lo stesso motivo Israele continuerà a intraprendere tutte le iniziative necessarie per difendere la propria popolazione. Voglio ricordare che sette anni fa Israele si è ritirato da Gaza fino all'ultimo centimetro quadrato. Poi Hamas ha preso il controllo delle aree sgomberate. E che cosa ha fatto? Anziché costruire un futuro migliore per gli abitanti di Gaza, i capi di Hamas, sostenuti dall'Iran, hanno trasformato Gaza in una roccaforte del terrorismo. Hanno sparato migliaia di razzi sulle nostre città e cittadine, sui nostri civili, sui nostri bambini. Hanno introdotto clandestinamente a Gaza migliaia di razzi e missili, li hanno piazzati deliberatamente nelle aree civili: nelle case, nelle scuole, a ridosso degli ospedali. Solo dall'inizio di quest’anno hanno sparato più di mille razzi e missili contro Israele, compresi i duecento lanciati in queste ultime ventiquattro ore. Sottolineo tutto questo perché è importante capire un punto molto semplice: non c’è alcuna simmetria morale, non c’è alcuna equivalenza morale fra Israele e le organizzazioni terroristiche della striscia di Gaza. I terroristi commettono un doppio crimine di guerra: sparano sui civili israeliani e si nascondo dietro ai civili palestinesi. Israele, al contrario, adotta ogni misura possibile per cercare di evitare vittime civili. Ho visto oggi la foto di un bambino sanguinante. È un’immagine che dice tutto: Hamas prende deliberatamente di mira i nostri bambini e piazza deliberatamente i suoi razzi in mezzo ai loro bambini. Nonostante questa realtà di fatto, ed è una realtà di fatto estremamente difficile, Israele continuerà a fare tutto quanto in suo potere per evitare vittime civili". "Devo dire – ha concluso il primo ministro israeliano – che dai miei colloqui coi leader del mondo traggo la convinzione che capiscono bene questo stato di cose. Ieri ho parlato col presidente Obama e l’ho informato sulle operazioni di Israele. Voglio esprimere ancora una volta apprezzamento al presidente Obama per il suo inequivocabile sostegno al diritto di Israele di difendersi. Così come voglio esprimere apprezzamento agli altri leader con cui ho avuto occasione di parlare nelle ultime ventiquattro ore: il presidente francese Hollande, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, il ministro degli esteri dell’Unione Europea Catherine Ashton, il rappresentante del Quartetto Tony Blair. Desidero ringraziarli per la loro comprensione della necessità e del diritto che ha Israele di difendersi. Nelle ultime ventiquattro ore Israele ha messo in chiaro che non intende tollerare attacchi di razzi e missili sui suoi civili. Mi auguro che Hamas e le altre organizzazioni terroristiche di Gaza abbiano recepito il messaggio. In caso contrario, Israele è pronto a prendere ogni iniziativa necessaria per difendere la propria popolazione”. (Da: MFA, 15.11.12)

sabato 20 ottobre 2012

Beirut sconvolta dall'ennesimo attentato

di Salvatore Falzone Attentato terroristico ieri nel cuore di Beirut. Un’autobomba imbottita di esplosivo nel cuore cristiano della capitale ha falciato la vita di 8 persone provocando almeno 80 feriti. L’obiettivo dell’attentato era Wassim al Hassan, capo dei servizi di intelligence libanesi. Hassan, amico dell’ex Premier Hariri, aveva indagato all’indomani della strage di San Valentino del 2005 sui mandanti dell’eccidio raccogliendo prove nei confronti degli Hezbollah- tra i quali spicca il nome assai noto alle intelligence internazionali di Mustafa Badreddin- e del regime di Damasco. Inoltre, poco tempo fa, aveva fatto arrestare il deputato libanese Michel Samaha, filo siriano, accusato di aver trasportato materiale dinamitardo per compiere attentati nel Paese sotto le direttive del regime pro Assad. Arresto che aveva fatto infuriare gli Hezbollah i quali accusavano Hassan di essere al soldo dell’Esercito libero siriano e di rifornirli di armi attraverso il territorio libanese. L’attentato ha il duplice scopo di mandare il messaggio al Tribunale Penale internazionale, che si occupa dell’uccisione di Rafik Hariri, e di internazionalizzare il conflitto siriano, sebbene già da tempo gli schieramenti parlano chiaro: Turchia, Usa, Arabia Saudita da un lato e Iran, Russia dall’altro. Il Libano, come al solito, si trova al centro dove ognuno dei vari attori gioca la sua partita sul territorio del Paese dei Cedri. Intanto ieri, dopo la strage, la tensione è arrivata alle stelle riaccendendo gli scontri intercomunitari specie tra sunniti e sciiti. La mai sopita guerra civile libanese rischia di riesplodere portando l’intera regione verso una nuova guerra allargata.

sabato 6 ottobre 2012

Giordania, l'ultimo tassello della triste favola della "primavera araba"

I fratelli musulmani in piazza contro Re Abdullah II, ultimo baluardo di stabilità in un Medio Oriente sempre più in fiamme In Giordania regna una monarchia illuminata, profondamente religiosa e tollerante, ispirata a un’idea laica di governo e al modello di un Islam moderato che è stato ed è un elemento di pace e stabilità in una regione, quella mediorientale, attraversata da conflitti sotterranei e, ciclicamente, da guerre conclamate. Allora smettiamola di raccontarci la favola della primavera araba nel momento in cui vediamo ripetersi il film della piazza che si solleva contro la “dittatura”. Re Abdullah II di Giordania ha sciolto il parlamento in piena sintonia con le scelte che ha fatto prima di lui il Re del Marocco, un’altra monarchia “illuminata” e lungimirante, che per il momento sembra riuscita a arginare le rivendicazioni del fondamentalismo islamico. Ci riusciranno Abdhullah II e la Regina Rania, tanto amata in Occidente? Dobbiamo augurarci di sì, ma il clima è rovente e non è detto che la dirigenza giordana, dimostratasi finora tanto saggia e abile da resistere con dignità al contagio delle guerre del confinante Iraq di Saddam Hussein, rischia per la prima volta, davvero, di soccombere a un movimento che appartiene alle grandi correnti della Storia. Un movimento che spazia da un capo all’altro del Califfato ideale sognato da Osama bin Laden e dai suoi emuli e nipoti, un progetto che affonda nell’ideologia e teologia dei Fratelli Musulmani che hanno appena conquistato, sull’onda della sedicente “primavera araba”, la loro culla, la loro patria, l’Egitto. Il sovrano hashemita dovrà adesso calibrare le riforme per venire incontro a richieste che non hanno però come fine la democrazia, ma il potere. Un potere improntato alla fratellanza nella sharia. Già oggi l’opposizione e i Fratelli Musulmani sono riusciti a portare in piazza ad Amman migliaia, forse decine di migliaia di persone (50 mila secondo gli organizzatori). La sinistra laica chiede riforme e lotta alla corruzione. Lo stesso chiedono, con uno spirito conservatore, retrogrado e potenzialmente violento, le masse galvanizzate dalla risorgenza estremista in tutto il mondo arabo. Bisogna sperare che da un lato Re Abdullah II possa contare ancora sul proprio prestigio personale, poi sulla tenuta del proprio clan e del proprio sistema di potere “illuminato”, e in ultimo sulla fedeltà dell’esercito. C’è poco da tifare per la piazza a ogni costo, proprio come fu un errore tifare per la caduta dello Scià in Persia/Iran. È arrivato il momento di risvegliarsi dall’illusione tutta occidentale che nel Nord Africa e in Medio Oriente si possa credere nella rivoluzione liberale, quando la realtà è una esplosiva coincidenza tra frustrazione popolare e propaganda integralista, opportunamente alimentate da anni e anni di duro lavoro dei “fratelli musulmani” e loro affini tra la gente. La propaganda religiosa, la beneficienza e il volontariato sono serviti solo a gettare basi solide per una nuova e più insidiosa forma di regime basato insieme sul consenso e sulla mancanza di libertà. Dietro il paravento della democrazia e solidarietà, spuntano le fiamme di un incendio che prelude a un lungo “inverno arabo”. La Giordania e Amman sono solo l’ultimo tassello. http://mondo.panorama.it/marco-ventura-profeta-di-ventura/Giordania-l-ultimo-tassello-della-triste-favola-della-primavera-araba

sabato 29 settembre 2012

Un agente francese dietro la morte di Gheddafi

Il merito della cattura del rais sarebbe stato dei servizi di Parigi. Il Colonnello «venduto» all’Occidente da Assad] l merito della cattura del rais sarebbe stato dei servizi di Parigi. Il Colonnello «venduto» all'Occidente da Assad TRIPOLI - Sarebbe stato un «agente straniero», e non le brigate rivoluzionarie libiche, a sparare il colpo di pistola alla testa che avrebbe ucciso Moammar Gheddafi il 20 ottobre dell’anno scorso alla periferia di Sirte. Non è la prima volta che in Libia viene messa in dubbio la versione ufficiale e più diffusa sulla fine del Colonnello. Ma ora è lo stesso Mahmoud Jibril, ex premier del governo transitorio e al momento in lizza per la guida del Paese dopo le elezioni parlamentari del 7 luglio, a rilanciare la versione del complotto ordito da un servizio segreto estero. «Fu un agente straniero mischiato alle brigate rivoluzionarie a uccidere Gheddafi», ha dichiarato due giorni fa durante un’intervista con l’emittente egiziana «Sogno Tv» al Cairo, dove si trova per partecipare ad un dibattito sulle Primavere arabe. PISTA FRANCESE - Tra gli ambienti diplomatici occidentali nella capitale libica il commento ufficioso più diffuso è che, se davvero ci fu la mano di un sicario al servizio degli 007 stranieri, questa «quasi certamente era francese». Il ragionamento è noto. Fin dall’inizio del sostegno Nato alla rivoluzione, fortemente voluto dal governo di Nicolas Sarkozy, Gheddafi minacciò apertamente di rivelare i dettagli dei suoi rapporti con l’ex presidente francese, compresi i milioni di dollari versati per finanziare la sua candidatura e la campagna alle elezioni del 2007. «Sarkozy aveva tutti i motivi per cercare di far tacere il Colonnello e il più rapidamente possibile», ci hanno ripetuto ieri fonti diplomatiche europee a Tripoli. RIVELAZIONI - Questa tesi è rafforzata dalle rivelazioni raccolte dal «Corriere» tre giorni fa a Bengasi. Qui Rami El Obeidi, ex responsabile per i rapporti con le agenzie di informazioni straniere per conto del Consiglio Nazionale Transitorio (l’ex organismo di autogoverno dei rivoluzionari libici) sino alle metà del 2011, ci ha raccontato le sue conoscenze sulle modalità che permisero alla Nato di individuare il luogo dove si era nascosto il Colonnello dopo la liberazione di Tripoli per mano dei rivoluzionari tra il 20 e 23 agosto 2011. «Allora si riteneva che Gheddafi fosse fuggito nel deserto e verso il confine meridionale della Libia assieme ad un manipolo di seguaci con l’intenzione di riorganizzare la resistenza», spiega El Obeidi. La notizia era ripetuta di continuo dagli stessi rivoluzionari, che avevano intensificato gli attacchi sulla regione a sud di Bani Walid e verso le oasi meridionali. In realtà Gheddafi aveva trovato rifugio nella città lealista di Sirte. Aggiunge El Obeidi: «Qui il rais cercò di comunicare tramite il suo satellitare Iridium con una serie di fedelissimi fuggiti in Siria sotto la protezione di Bashar Assad. Tra loro c’era anche il suo delfino per la propaganda televisiva, Yusuf Shakir (oggi sarebbe sano e salvo in incognito a Praga). E fu proprio il presidente siriano a passare il numero del satellitare di Gheddafi agli 007 francesi. In cambio Assad avrebbe ottenuto da Parigi la promessa di limitare le pressioni internazionali sulla Siria per cessare la repressione contro la popolazione in rivolta». Localizzare l’Iridium del dittatore con i gps sarebbe poi stato un gioco da ragazzi per gli esperti della Nato. Se fosse confermato, fu quello il primo passo che portò alla tragica fine di Gheddafi poche settimane dopo. http://www.corriere.it/esteri/12_settembre_29/gheddafi-morte-servizi-segreti-francesi-libia_155ed6f2-0a07-11e2-a442-48fbd27c0e44.s

domenica 16 settembre 2012

Most U.S. government workers, families evacuated from Tunisia, Sudan

By Michael Birnbaum and Karen DeYoung, Published: September 15 CAIRO — The Obama administration ordered the evacuation of all but emergency U.S. government personnel, and all family members, from diplomatic missions in Tunisia and Sudan on Saturday and warned Americans not to travel to those countries. The action came as leaders across the Muslim world took stock of their relationship with the United States, a major provider of aid and investment, and struggled to balance it with the will of their populations. In Sudan, the State Department order came after the government in Khartoum rejected a U.S. request to send a Marine anti-terrorism unit to protect the embassy there, which came under attack by protesters Friday. In Yemen, al-Qaeda in the Arabian Peninsula issued a statement urging more killings of U.S. diplomats, and the Yemeni parliament demanded that all foreign troops in the country be sent home, including roughly 50 U.S. Marines deployed to protect the embassy there. The U.S. military and CIA have been in Yemen for some time, in cooperation with the Yemeni government, as part of counterterrorism operations. The decision to evacuate was the latest consequence of a week of anti-American rage across more than 20 countries in the Muslim world, although most were quiet Saturday. U.S. officials said they ordered the evacuations out of caution rather than knowledge of any specific threats. The United States does not currently have an ambassador assigned to Sudan but maintains a diplomatic presence there. The order leaves a significantly reduced diplomatic presence in Tunisia, the country that sparked the Arab Spring last year, where additional security was also deployed to the embassy last week. A travel warning issued for Tunisia noted that the international airport was open in Tunis, the capital, “and U.S. citizens are encouraged to depart by commercial air.” Saturday’s pullback follows the evacuation of 50 U.S. diplomatic personnel from Libya, where Ambassador J. Christopher Stevens and three other State Department employees were killed Tuesday in an assault on the consulate in Benghazi. As the administration continued to reach out aggressively to its allies and partners in the region and beyond, Secretary of State Hillary Rodham Clinton spoke by telephone Saturday with the leaders or foreign ministers of Britain, Libya, Egypt, France, Saudi Arabia, Turkey and Somalia, the State Department said. In Egypt, after days of pressure from the United States, President Mohamed Morsi took decisive action Saturday against lingering protests near the U.S. Embassy, with police making arrests and clearing Tahrir Square of demonstrations whose cause Morsi had only days earlier endorsed. But he had to contend with continued pressure from ultraconservative Muslims and disaffected young people who had fought for days near the embassy. Morsi had been in the middle of negotiating more than $1 billion in aid, debt forgiveness and U.S. investments when protesters, prodded by rage over an obscure anti-Islam video that was made in the United States, stormed the embassy walls and pulled down and destroyed the American flag. The assistance talks have been subsumed by the days of protests near the embassy – some of which were called for by Morsi’s own Muslim Brotherhood party. http://www.washingtonpost.com/world/anti-us-fury-widens-in-muslim-world-as-protests-rage-in-many-countries/2012/09/15/894e2cbc-ff2f-11e1-b153-218509a954e1_story.html

sabato 15 settembre 2012

Libia, ucciso l'ambasciatore Usa "Attacco pianificato da Al Qaeda" Obama manda i marines e i droni

L'assalto alla sede diplomatica di Bengasi per un film blasfemo: quattro morti e decine di feriti. Evacuato il personale americano L’ombra di Al Qaeda si allunga sulla morte dell’ambasciatore Usa in Libia Chris Stevens, ucciso ieri notte nell’assalto alla sede di rappresentanza statunitense a Bengasi. Con lui hanno perso la vita altri tre americani, un funzionario e due marines. Nell’attacco sono rimasti feriti altri cinque civili statunitensi e sono morti una decina di agenti di sicurezza libici. La reazione di Washington è durissima. Gli Stati Uniti hanno deciso di evacuare tutto il personale diplomatico e non presente in Libia. All’ambasciata di Tripoli resterà solo una unità di emergenza. L’amministrazione Obama parla di atto «oltraggioso». Droni e almeno 200 marines che sono in viaggio per la Libia, come altre unità di elite, chiamate ad assicurare la sicurezza a Tripoli e Bengasi, come in Afghanistan ed Egitto. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che appena ieri aveva ricordato le vittime delle Torri Gemelle, ha promesso che «sarà fatta giustizia» ma che i legami fra gli Stati Uniti e la Libia «non si romperanno». LA PROTESTA Tutto è iniziato con la protesta per un film anti-Maometto che già ieri aveva scatenato le proteste al Cairo, con dimostrazioni violente sfociate nell’assalto all’ambasciata nella capitale egiziana, condito con scritte come «Osama bin Laden riposi in pace». Ma la concomitanza con l’anniversario dell’11 settembre non può rimanere una semplice coincidenza, nè tantomeno l’annuncio "ufficiale" della morte di Abu al-Libi, il numero due di Al Qaeda ucciso in giugno che proprio ieri Ayman al Zawahiri, il successore di Bin Laden, ha deciso di confermare. IL FILM "BLASFEMO" La dinamica degli eventi di Bengasi è ancora difficile da chiarire: secondo numerose testimonianze, una dimostrazione "pacifica" contro il film su Maometto è stata l’occasione per dar vita a un vero e proprio assalto, a colpi di armi automatiche, Rpg e mitragliatrici pesanti. I miliziani di Ansar al-Sharia, i ’partigiani della legge islamicà, protagonisti negli ultimi mesi di numerosi episodi di intimidazione e violenza «hanno bloccato tutte le strade di accesso alla sede Usa, e dicevano di voler uccidere tutti quelli che si trovavano dentro», ha raccontato un testimone, appartenente a una brigata dei ribelli incaricata di mantenere l’ordine a Bengasi. Il console italiano, Guido De Sanctis, che si trovava a poca distanza - e che stamani avrebbe dovuto incontrare proprio Stevens per «fare il punto sulla situazione» in vista dell’elezioni da parte del neonato Parlamento libico del nuovo premier - ha riferito di «un gran botto, il caos» e di una sparatoria intensa. LA BATTAGLIA DI BENGASI E' stato un confronto «feroce», andato avanti per ore e che, secondo le autorità libiche, ha lasciato sul campo almeno 10 ribelli incaricati della sicurezza. Ansar al-Sharia ha negato un coinvolgimento «ufficiale» nell’attacco, ma si è congratulata con coloro che hanno portato a compimento l’attacco «per difendere il profeta Maometto». Funzionari dell’amministrazione Usa, citate dalla Cnn, hanno parlato di un «attacco pianificato da al Qaida», nel quale la vicenda del film ’blasfemò ha svolto solo un ruolo «diversivo». Gli esperti anti-terrorismo collegano l’episodio all’uccisione di al-Libi, e a una vendetta di al Qaida: «Gli estremisti sapevano che l’ambasciatore era nell’edificio», spiegano alcune fonti. Altri due americani, del corpo dei Marines, sarebbero stati uccisi invece in una «casa» dove alcuni impiegati della sede diplomatica erano stati «messi al sicuro» dopo il primo assalto al consolato. Stevens è il primo ambasciatore americano assassinato dal 1979, l’ultimo aveva perso la vita in Afghanistan. E Washington non esclude neppure l’uso dei droni per dare la caccia ai responsabili. I medici hanno provato a rianimarlo per oltre un’ora e mezza senza successo. È morto per asfissia e i video e le foto che circolano sui suoi ultimi momenti sono atroci. IL MONDO CONDANNA La condanna dell’assalto a Bengasi è unanime: si sollevano i musulmani, la comunità internazionale, a partire dalla stessa Tripoli. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano parla di «vile atto terroristico», il premier Mario Monti, come l’Onu, sottolinea la «ferma condanna». «Orrore e sdegno per un gesto infame», sono invece le parole di Giulio Terzi. Ma il film su Maometto e l’arrivo dei Marines in Libia rischiano di creare nuove tensioni e violenze con i ribelli libici, anche quelli non legati all’Islam, che già parlano di «invasione Usa». http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/468286/

Film su Maometto, rabbia islamica L'Onu condanna attacchi e violenze Al Qaeda: colpite le ambasciate Usa

Rimane alta tensione in tutto il Medioriente dopo gli attacchi. Obama: proteggete i cittadini Continuate le manifestazioni contro il film anti-Islam. E attaccate quante più ambasciate Usa potete, in Medio oriente, Africa e Occidente. Questo a grandi linee il messaggio che Aqma, la cellula di al Qaida nella penisola araba ha lanciato a tutti i musulmani, come rende noto Site, il sito di base negli Usa che monitora le attività dei gruppi jihadisti sul web. Tutto questo mentre dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu arriva la condanna più ferma della serie di attacchi e violenze contro i consolati a stelle e strisce e degli altri Paesi occidentali avvenuti non solo nel nord Africa, ma anche in Asia e Australia. «Atti ingiustificabili qualsiasi siano le loro motivazioni», si legge nella nota, con riferimento alla pellicola che ha scatenato l’ira degli islamici, in cui si ricorda anche i principi fondamentali che tutelano l'inviolabilità delle sedi diplomatiche. La pellicola "blasfema" Al centro della disputa il film prodotto negli Stati Uniti, giudicato blasfemo perché insulterebbe Maometto, contro cui il mondo arabo fondamentalista ha indetto una «crociata». L’intenzione è quella di colpire obiettivi-chiave: funzionari e delegati delle ambasciate in primo luogo. Per questo migliaia di persone negli ultimi giorni sono scesi in piazza Nord Africa al Sud-Est asiatico, nel primo venerdì di preghiera dopo la messa in rete su Youtube della pellicola che è costata la vita all’ambasciatore americano in Libia, morto martedì notte insieme a tre connazionali. Perfino a Sidney hanno sfilato in oltre cinquecento al grido di «Decapitazione per tutti quelli che insultano il Profeta». In Sudan Epicentro degli scontri di ieri è stato Khartoum, in Sudan, dove sono finite nel mirino le sedi diplomatiche di Germania e Regno Unito. Proprio qui ci sono stati tre dei 10 morti rimasti sul terreno negli scontri - in alcuni casi violentissimi, in altri più blandi - con le forze di sicurezza intervenute a impedire saccheggi e vandalismi e a fermare gli assalti con ampio uso di gas lacrimogeni e idranti, ma anche sparando ad altezza d’uomo. E se i militari britannici sono riusciti a difendere i loro edifici, i tedeschi non sono riusciti ad arginare la furia dei manifestanti che premevano per entrare nel compound, mentre agitavano i vessilli neri dell’integralismo. Le vittime Intanto, riparte la conta delle vittime. Secondo il sito Tunisie Numerique, che cita fonti ospedaliere, è salito a quattro quello dei morti nella capitale, mentre in Libano un uomo è rimasto ucciso dalle forze di sicurezza dopo aver dato l’assalto a un fast food americano a Tripoli, seconda città del Paese. Difficile anche la situazione al Cairo, benchè i Fratelli musulmani del presidente Mohamed Morsi avessero ritirato un loro precedente appello a scendere in piazza in tutto l'Egitto. Centinaia di persone hanno continuato per tutta la giornata a fronteggiare la polizia, schierata massicciamente a protezione dell’ambasciata americana. E in serata è stato trovato nei pressi di una moschea il cadavere di un giovane. L'ira del mondo arabo Washington non perde tempo e, dopo aver inviato marines e droni a Bengasi in Libia, ha comunicato la spedizione di altri militari a protezione delle installazioni occidentali nella capitale yemenita Sanaa, dove le autorità sono nuovamente intervenute in forze con lacrimogeni e idranti. Ma le dimostrazioni di massa "globali" sono stati veramente molte, dal’Iran all’Iraq, dal Marocco alla Nigeria passando per Mauritania e Kenya, ma anche all'Algeria, dove il governo ha tagliato alla radice il problema, vietando e impedendo qualunque tipo di assembramento. In Asia, dopo l'Iran, la protesta più imponente ha visto diecimila persone in piazza a Dacca, in Bangladesh: anche qui bandiere americane e israeliane bruciate oltre a slogan rabbiosi contro «gli insulti al nostro grande profeta». Come in numerose città del Pakistan o dell’Afghanistan, a Giakarta in Indonesia o in India, a Madras, dove 86 persone sono state arrestate mentre marciavano verso il consolato Usa. http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/468680/

domenica 24 giugno 2012

La Nato, su richiesta di Ankara, ha convocato per martedi un incontro a Bruxelles per discutere dell'abbattimento di un caccia turco da parte della contraerea siriana e delle possibili reazioni del Patto Atlantico. La richiesta turca e' stata inoltrata invocando l'articolo 4 del Patto Atlantico, secondo cui un attacco contro un paese membro dell'alleanza e' un attacco contro tutti. Polveriera mediorentale a rischio di esplodere, dunque? Sulla carta - e nel contesto delle tensioni per i massacri siriani - la notizie potrebbe dare l'idea di un attacco contro Damasco. Autorevoli fonti diplomatiche raccolte da il Sole 24 Ore tuttavia escludono un'azione militare - "immediata o imminente" - e suggeriscono invece un coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza dell'Onu per considerare nuove sanzioni contro Damasco, quelle si' il possibile preambolo di un intervento esterno per "prevenire gli eccidi di una guerra civile in Siria". La Francia e gli Stati Uniti avevano chiesto un incontro del consiglio di Sicurezza contro la Siria dopo i piu' recenti eccidi per mano dal governo di Bashar Assad gia' un paio di settimana fa. Ieri si e' aggiuntoil ministro degli esteri britannico Hague, questa volta aggiungendo il dossier attacco contro la Turchia. La Siria ha a sua volta reagito denunciando ieri che "terroristi" si inflrtano nel suo territorio in arrivo dalla Turchia. Siamo tuttavia ancora nel mezzo di una partita diplomatica a tutto campo, difficile, certamente pericolosa. Una partita che va molto oltre Siria e il recente attacco contro il caccia turco. Una partita che che mette in gioco lo scudo antimissile formalizzato durante il recente vertice Nato di Chicago, l'intero scacchiere mediorentale, la Russia, strenuo difensore di Damasco e l'Iran, alleato siriano, a sua volta controparte di un inconcludente negoziato per le sue palesi violazioni degli accordi contro la proliferazione nucleare. Cominciamo dai fatti piu' recenti. La Turchia ha chiesto oggi la convocazione di una consultazione della Nato in base all'Art. 4 dopo l'abbattimento di un suo caccia Phantom F-4 da parte della contraere siriana. La richiesta e' stata accolta. In preparazione degli incontro di martedi', Il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu ha ammesso, sempre oggi, che il caccia ha in effetti violato le acque territoriali siriane, ma solo brevemente e certamente non in profondita'. Il ministro turco ha anche sottolineato che quando e' stato abbattuto il caccia turco era in acque internazionali e non e' mai stato avvertito. La Siria sostiene che il caccia era in acque territoriali siriane e che la contraeare ha agito senza conoscere l'identita' dell'aereo. Ma per dare un quadro completo della complessita' della situazione, occorre rilevare che il caccia era decollato dalla base turca Malatya-Erhac la sede del nuovo sistema radar anti-missile che dovrebbe proteggere l'Europa da possibili attacchi nucleari iraniaiani. I nuovi sistemi antimissile sono stati formalmente approvati durante il vertice della Nato di Chicago del 20 /21 maggio scorso. In quell'incontro si e' formalizzato che quattro paesi membri, Turchia, Polonia, Spagna e Romania ospiteranno basi radar per intercettare i possibili attacchi dei missili e piattaforme di lancio per missili antimissile. Il sistema tuttavia non sara' pronto nella sua forma completa prima del 2018. A Chicago, quando ho seguito il vertice Nato, ho percepito la forte tensione attorno alla vicenda antimissile anche perche' due giorni prima, con un plateale gesto di freddezza/protesta (proprio in contestazione del successivo vertice Nato) il leader russo Vladimir Putin aveva disertato il vertice del G8 a Camp David e aveva inviato in sua vece il primo ministro Dimitri Medvedev. La questione dello scudo antimissile e' uno dei grandi contenziosi Est/Ovest, ha riacceso polemiche, minacce di ritorsioni recproche e venti di guerra Fredda fra Washington e Mosca. La Russia protesta. Sostiene che il rischio di attacchi nucleari iraniani, molto lontani nel tempo, siano una scusa e afferma che non solo il sistema altera gli equilibri centrali della deterrrenza, ma puo' essere puntato contro gli arsenali nucleari russi. di Mario Platero Vladimir Putin sta per arrivare in Medio Oriente dove avra' incontri storici anche in Israele. Il leader russo si rende conto che con gli sviluppi recenti su Siria e Iran, rischia di perdere due alleati chiave nel contesto del calderone mediorentale. Vuole dare un forte messaggio non solo di presenza, ma anche di inevitabilita' di un ruolo centrale di Mosca nella regione, sia adesso in fase negoziale, che dopo se e quando la questione Siria/Iran si sara' stabilizzata. Possibile che l'attacco contro il caccia turco sia stato deciso dalla Siria dopo una consultazione con Mosca, suo grande alleato, che mantiene nel paese mediorentale una base navale? E l'Iran ? Di sicuro continua a svolgere un ruolo centrale in questa partita. Ora la Russia suggerisce un gruppo di contatto con la Siria e chiede, con una provocazione inaccettabile per Washington, che Theran faccia parte dei negozati. Sul fronte atomico poi, Theran procede rapidamente nel processo di arricchimento dell'uranio per poter armare testate nucleari. Lo sviluppo preoccupa Israele, che minaccia un attacco contro i centri nucleari iraniani. L'America e' riuscita ad ottenere sanzioni contro l'Iran dal consiglio di Sicurezza dell'Onu, ha convinto Israele ad attendere. Le sanzioni partiranno ai primi di luglio. Nel frattempo il gruppo 5+1 sta negoziando senza successo con Theran un accordo per consentire agli ispettori della Iaea di avere accesso agli impianti iraniani e verificare quel che sostiene Theran e cioe' che gli impianti nucleari hanno unicamente uno scopo pacifico. L'ultimo incontro a Mosca, in coincidenza con il G20 di Los Cabos, si e' chiuso con un nulla di fatto. E le sanzioni contro Theran partiranno fra una settimana circa. Avranno davvero conseguene? Serviranno a bloccare lo sviluppo di armi atomiche? La risposta, ovvia e' no. L'Iran e' ormai vicinissimo a poter armare una bomba atomica. Che cosa fara' Israele in questo contesto se i negoziati del 5+1 (le grandi potenze piu' la Germania) con l'Iran falliranno del tutto. E' questa la seconda polveriera mediorenatale che potrebbe esplodere. Con quali conseguneze sulla fragilita' psicologica dei mercati, gia' messa a dura prova dalla crisi finanziaria? http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-06-24/dopo-attacco-siriano-turchia-144703.shtml?uuid=AberfSxF

domenica 17 giugno 2012

L'Egitto al bivio tra Islam e regime

Ugo Tramballi IL CAIRO. Dal nostro inviato «Abbasso il prossimo presidente». Forse è il grido orgoglioso di una rivoluzione permanente ma è probabile sia un'ammissione: quella di essere finiti in un vicolo cieco. Ieri era venerdì, giorno di manifestazioni per eccellenza in piazza Tahrir; oggi si vota per scegliere il primo presidente eletto democraticamente. Così almeno si presume. Ma la piazza che un tempo sembrava troppo piccola per contenere la Primavera egiziana, oggi è troppo grande per accoglierne i resti. I seggi si aprono tutti alla stessa ora questa mattina e chiuderanno domani sera. Al primo turno e alle legislative di gennaio l'orario era stato allungato di un paio d'ore. Questa volta tutto dovrebbe finire entro le 20 perché si attende un forte astensionismo. La scelta uscita dal primo turno di tre settimane fa è tra due estreme: l'ex generale di Mubarak Ahmed Shafik e il fratello musulmano Mohamed Morsi. Il vecchio contro un nuovo pieno d'incognite. Il favorito sembra Shafik. Il suo messaggio, ordine e sicurezza, ha avuto un particolare successo dopo 16 mesi di disordini e incertezze. Lo Scaf, la giunta militare che guida la transizione punta su di lui. Morsi, una seconda scelta del movimento islamico che aveva in mente un leader diverso, sembra in calo. Ma la fratellanza ha un apparato organizzativo senza uguali in Egitto (a parte i militari). E soprattutto il golpe bianco fatto giovedì dai militari potrebbe cambiare alcune cose. Le opposizioni detestano e temono i Fratelli musulmani quanto il vecchio regime, ma la chiusura del Parlamento ordinata dalla Corte costituzionale preoccupa di più. Salafiti estremisti, islamisti più moderati e ora anche il 6 Aprile, il movimento originario di piazza Tahrir, dicono ai loro di votare Morsi. Ma non è così certo che siano ascoltati. Accettando le decisioni della Corte, ieri Morsi prometteva che se il voto non sarà trasparente, la fratellanza «potrebbe incominciare una seconda rivoluzione». Tutti ricordano che nella prima, quella iniziata nel gennaio 2011, gli islamisti non c'erano. Per essere più credibile, Morsi ha promesso che in caso di vittoria distribuirà posti e incarichi ai non islamisti. Ma il profumo della vittoria sembra si respiri nel campo di Ahmed Shafik, cioè di un vecchio regime ripulitosi dalle tossine del recente passato. Ieri sera in piazza Tahrir, quell'"abbasso" a chiunque domani sera sarà presidente era il segno del nichilismo dei perdenti. «In Egitto abbiamo vissuto un periodo rivoluzionario governato dalle forze anti-rivoluzionarie, cioè dallo stesso regime contro il quale la gente si era ribellata», diceva con disarmante stupore un manifestante in piazza. La sera prima a poche centinaia di metri, nel salone delle feste di un grande albergo sul Nilo, Ahmed Shafik incontrava la sua gente. Niente slogan né bandiere. La borghesia, gli uomini d'affari, i dirigenti di Stato, non gridano né si agitano. C'erano anche una rappresentanza dei contadini del Delta e dei beduini del Sinai, per dare un'idea d'Egitto nel suo insieme. Ma soprattutto in sala c'era la maggioranza silenziosa, composta ed elegante. E c'era l'argenteria del regime militare che ha governato l'Egitto negli ultimi 60 anni: Jehan, la vedova di Anwar Sadat, la figlia più giovane di Gamal Nasser, nipoti dell'uno e dell'altro. Sul palco hanno parlato in tanti, prima dell'ospite d'onore della serata organizzata dalla Camera di commercio egitto-canadese. Solo Jehan ha ricordato il coraggio dei giovani di piazza Tahrir: per tutti gli altri la rivoluzione era ormai archiviata. Una certezza di vittoria, riempiva la sala. Ma nessuno ha citato Hosni Mubarak al quale avevano tutti obbedito per 30 anni. Come se il successore di Nasser e Sadat non avesse mai fatto parte di quell'argenteria nazionale. Sta per nascere uno strano Egitto: non proprio come quello vecchio ma nemmeno nuovo. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-06-16/legitto-bivio-islam-regime-081400.shtml?uuid=Ab3xL8sF

lunedì 4 giugno 2012

Siria, Assad va all'attacco: «La guerra è orchestrata dall'estero»

ROMA - A quasi cinque mesi dal suo ultimo discorso e dopo 15 mesi di rivolte e repressione, il presidente siriano Bashar al Assad è tornato oggi a far sentire la sua voce. Per un'ora, in Parlamento, ha affrontato le questioni legate alla crisi del suo Paese, ha negato qualunque coinvolgimento nel massacro di Hula (25 maggio, 108 uccisi), ha accusato «forze straniere» e «terroristi» di essere all'origine dell'attuale situazione. E ha affermato di essere deciso a porvi fine. Un discorso ai suoi parlamentari ma, anche, una risposta a Kofi Annan, inviato dell'Onu e della Lega Araba, che proprio ieri aveva denunciato il rischio «di una guerra civile a tutto campo», affermando che il mondo ha bisogno di vedere azioni e non solo di sentire parole da parte del presidente. Assad ha definito «abominevole» e «mostruosa» la carneficina di Hula e ha reso omaggio «a tutti i martiri, civili e militari». Poi l'attacco agli stranieri con l'affermazione che il suo Paese sta fronteggiando un «piano di distruzione», «una vera guerra orchestrata dall'estero». E l'assicurazione che non ci sarà resa: «Il terrorismo - ha detto - verrà fermato». «Abbiamo cercato di usare ogni mezzo politico per uscire dalla crisi», ha continuato Assad, aggiungendo che però chi sta dietro al «terrorismo ha una missione da compiere e non si fermerà fino a quando non l'avrà compiuta. O quando noi riusciremo a fermarli... Non ci saranno compromessi». Parole decise, pronunciate con calma e poi ulteriormente spiegate. Non ci sarà alcun dialogo con gli oppositori «legati con l'estero». Allusione al Consiglio nazionale siriano (Cns), principale componente dell'opposizione che peraltro a sua volta rifiuta di avviare qualunque dialogo se Assad non si ritirerà. Tant'è che il commento rilasciato alla France Presse è stato lapidario. Il discorso di Assad, secondo Samir Nashar, indica la chiara volontà «di continuare la repressione nel sangue e di soffocare l'opposizione a qualunque costo». Anche oggi, un bilancio fornito dagli attivisti parla di sette persone uccise ad Aleppo, Hama e Damasco da colpi d'arma da fuoco. Inoltre decine di civili sarebbero stati feriti in bombardamenti a Duma, vicino alla capitale. Al discorso di Assad ha reagito anche la sunnita Arabia Saudita, da sempre estremamente critica nei confronti dell'alawita presidente siriano. Il ministro degli Esteri Saud al Faizal ha accusato Assad di «manovrare» per «guadagnare tempo» e ha proposto «la creazione di una zona cuscinetto in Siria». Gli ha fatto eco la Turchia, con il premier Recep Tayyip Erdogan che ha accusato il presidente siriano di comportamento «autocratico». «Finora non ho visto - ha detto - un approccio democratico alle riforme». Intanto oggi anche in Libano vi sono stati morti in nuovi scontri tra sostenitori e oppositori di Assad. Almeno 4 nei pressi di Tripoli (nord libanese) hanno fatto salire a 14 il bilancio delle vittime da ieri mattina. http://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/siria_assad_va_allattacco_la_guerra_orchestrata_dallestero/notizie/200115.shtml

martedì 29 maggio 2012

Siria, la linea dura dei Paesi europei, espulsi gli ambasciatori di Damasco

Roma, Londra, Berlino e Parigi reagiscono al massacro di Hula. L'Onu diffonde altri dettagli: civili giustiziati e donne stuprate Roma Si intensifica la pressione internazionale sul regime di Assad. L'Occidente espelle gli ambasciatori del regime siriano di Bashar al-Assad dopo l’atroce massacro di Hula, che ha causato la morte di oltre 100 persone, tra cui moltissimi bambini. Mentre l’inviato speciale dell’Onu, Kofi Annan, nel corso di un incontro a Damasco con il presidente Assad, ha chiesto con forza «passi coraggiosi, non domani ma ora, per l’attuazione del piano» di pace. «Ciò vuol dire - ha avvertito Annan - che il governo e tutte le milizie filogovernative devono fermare tutte le operazioni militari». La strage dei bambini, come ha scritto più di qualche osservatore, può davvero rappresentare il punto di svolta della crisi siriana. Moltissimi Paesi europei - tra cui Italia, Francia, Germania, Spagna e Gran Bretagna - hanno deciso oggi di espellere in modo coordinato i rappresentanti diplomatici di Damasco, dichiarandoli ’persona non gratà. Stessa cosa hanno fatto gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. In una nota diffusa a Washington, la portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Victoria Nuland, ha precisato che l’incaricato d’affari siriano (l’ambasciatore era già stato richiamato a Damasco per consultazioni) ha 72 ore di tempo per lasciare gli Stati Uniti. Mentre il presidente francese, Francois Hollande, ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatrice siriana (che di fatto non lascerà il Paese in quanto è anche ambasciatrice all’Unesco) e l’organizzazione della terza conferenza degli «Amici del popolo siriano» a inizio luglio a Parigi. «Assad‚ l’assassino del suo popolo. Deve lasciare il potere», ha detto il capo del Quai d’Orsay, Laurent Fabius, intervistato dal quotidiano Le Monde. Mentre il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha scritto su twitter che «dopo gli orrori di Hula», l’espulsione degli ambasciatori rappresenta un «messaggio forte e inequivocabile al regime di Damasco. Basta violenze». «Una cosa è chiara e non solo dal massacro di Hula: con Assad la Siria non ha alcun futuro. Si deve fare strada a un cambiamento pacifico», ha commentato il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle. Mentre il suo collega spagnolo, Jos‚ Manuel Garc¡a-Margallo, ha puntato il dito contro l«’inaccettabile repressione» del regime siriano e ha anche rinnovato l’appello a Damasco a «cogliere l’occasione offerta da piano Annan». In un duro e significativo intervento, anche il premier islamico conservatore turco Recep Tayyip Erdogan ha avvertito Assad che la pazienza della comunità internazionale ha «un limite». Parlando davanti al gruppo parlamentare del suo partito, l’Akp, Erdogan ha denunciato il «disumano massacro» di Hula, attribuito oggi dall’Onu alle milizie filo-Assad. Il premier turco ha denunciato la «crudeltà» del regime, avvertendo che «c’è un limite alla pazienza e, grazie a Dio, anche alla pazienza del consiglio di sicurezza Onu». Mentre il Consiglio nazionale siriano (Cns), il principale movimento di opposizione al regime di Damasco, ha salutato l’espulsione dei diplomatici, chiedendo che il Consiglio di Sicurezza autorizzi il ricorso alla forza contro il regime. Prospettiva - almeno al momento - irrealizzabile per il veto di Cina e Russia, alleati di Damasco. La maggior parte dei Paesi occidentali, avevano già chiuso le loro rispettive rappresentanze diplomatiche a Damasco durante la repressione a Homs da parte delle truppe filogovernative siriane. Al di là del massacro di Hula - le testimonianze dei sopravvissuti raccolte dall’Onu parlano di vere e proprie ’esecuzioni sommariè - in Siria la repressione del regime miete vittime tutti i giorni, nonostante l’entrata in vigore (molto teorica), lo scorso 12 aprile, del ’cessate il fuocò compreso nel piano Annan. In 14 mesi, le violenze hanno causato la morte di 13mila persone, di cui 1.800 dal 12 aprile, secondo i dati dell’osservatorio siriano sui diritti umani. Intanto dall'Onu arrivano i primi elementi dell'inchiesta sul massacro di Hula che evidenziano le gravissime responsabilità di Damasco. La maggior parte delle vittime non sono infatti state colpite dall'artiglieria, come si riteneva in un primo momento, ma passate per le armi in esecuzioni sommarie, avvenute casa per casa. «Famiglie intere sono state sterminate», ha affermato un portavoce dell'ufficio dell'Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani. Dei 108 morti (dei quali 49 erano bambini e 34 donne), meno di 20 sono morti sotto le bombe; il resto sono state vittime di esecuzioni sommarie, «compresa la gran parte dei bimbi assassinati». http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/456150/

giovedì 10 maggio 2012

Strage di studenti a Damasco: 55 morti e 372 feriti nel duplice attentato

Testimoni riferiscono di 11 bimbi uccisi nelle esplosioni Ministro Terzi: «Su intervento armato serve unanimità Onu» ] Testimoni riferiscono di 11 bimbi uccisi nelle esplosioni Ministro Terzi: «Su intervento armato serve unanimità Onu» MILANO - È salito a 55 morti e 372 feriti il bilancio delle vittime nel duplice attentato che ha colpito giovedì mattina Damasco, in Siria. Lo riferisce l’inviato della tv satellitare «al-Arabiya» che ha confermato che le due esplosioni sono avvenute nei pressi di una sede della sicurezza siriana e che uno dei due veicoli usati per l’attentato è un camioncino carico di esplosivo. Secondo testimoni tra le vittime ci sarebbero anche 11 bambini. ATTENTATI TERRORISTICI - Due colonne di fumo si sono alzate sopra la capitale che negli ultimi mesi è stata oggetto di diversi attacchi. La tv di Stato siriana ha riferito di due «attentati terroristici compiuti in contemporanea» nella periferia sud di Damasco, nei pressi della tangenziale meridionale, all'incrocio detto Qazaz. L'emittente precisa che nel luogo degli attentati «si trovavano impiegati diretti al lavoro e bambini diretti a scuola». LA TESTIMONIANZA - Un residente, che ha raccontato di esser arrivato a circa un centinaio di metri dal luogo di una delle esplosioni prima di esser respinto dalle forze di sicurezza, ha detto di aver visto vetri rotti e donne in lacrime. Le scuole nelle vicinanze hanno rimandato a casa i bambini per la giornata. Un altro residente ha raccontato che la polizia ha isolato il distretto di Kfar Souseh, che ospita un centro dell'intelligence militare, e che sono risuonati colpi d'arma da fuoco nell'aria. Secondo l'emittente siriana «ci sono decine tra morti e feriti». Sul luogo delle due esplosioni si vedono carcasse di auto bruciate e uomini che raccolgono resti umani da terra e dall'interno delle vetture. LE AUTO - Ad esplodere sarebbero state due autobomba con 30 chili di tritolo che hanno provocato numerose vittime oltre a un cratere sulla strada. Sul luogo dell'attentato si è recato anche il comandante della missione di osservatori Onu in Siria, il generale norvegese Robert Mood, uscito illeso da un attentato a Deraa, che ha colpito il convoglio Onu sul quale viaggiava. Sei soldati della scorta sono rimasti feriti.Il comandante ha anche fatto un appello per fermare gli attacchi: «Noi, la comunità internazionale - ha spiegato Mood - siamo al fianco del popolo siriano e invitiamo tutti in Siria e all'estero affinché contribuiscano a fermare queste violenze». KOFI ANNAN - L'inviato Onu e Lega araba per la Siria, Kofi Annan, ha condannato i sanguinosi attentati a Damasco definendoli «inaccettabili». «Questi atti odiosi sono inaccettabili e la violenza in Siria deve finire» ha detto Annan. «Ogni azione che aumenta il livello di violenza è controproducente per gli interessi delle parti in causa» ha aggiunto. «DONATE IL SANGUE»- Quella di giovedì mattina «potrebbe essere la più forte» della serie di esplosioni che hanno colpito la capitale siriana da dicembre scorso, afferma il portavoce del ministero degli Esteri siriano, Jihad Makdissi, in un messaggio pubblicato sul proprio profilo di Facebook. Makdissi ha fatto appello agli abitanti di Damasco affinché si rechino negli ospedali a donare il sangue per le vittime dell'attacco, in cui sono morte oltre 40 persone e 170 sono rimaste ferite. GUERRA CIVILE - «Armare l'opposizione siriana spingerá il Paese verso la guerra civile» e la soluzione della crisi che imperversa in Siria da oltre un anno si cela in una «transizione sul modello yemenita». Ne è convinto il presidente tunisino Moncef Marzouqi, secondo il quale «di fatto la guerra civile in Siria è giá in atto, dal momento che alcuni soggetti in campo ritengono che armare l'opposizione porterá a una soluzione». TERZI: IPOTESI USO DELLA FORZA-L'attentato di Damasco è «gravissimo» e «l'Italia stigmatizza nel modo più fermo il perpetrarsi di attentati, a qualsiasi natura e fonte siano riconducibili le matrici terroristiche» la condanna arriva dal ministro degli Esteri, Giulio Terzi. Che sull'ipotesi di un intervento armato della Comunità Internazionale in Siria aggiunge: «Potrebbe essere considerata» dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, «ma ci vogliono le condizioni politiche» affinchè tutti i membri dell'organismo diano il loro lasciapassare in base all'articolo 7 della Carta Onu. Per la prima volta, quindi, Terzi si è mostrato possibilista sull'ipotesi dell'uso della forza armata, ha detto che «allo stato attuale si tratta di una possibilità». «Ci vuole una soluzione politica - ha aggiunto - guidata dal Consiglio di Sicurezza, auspicabilmente con una nuova risoluzione». http://www.corriere.it/esteri/12_maggio_10/siria-damasco-esplosioni_648faafc-9a64-11e1-9cca-309e24d49d79.shtml

sabato 28 aprile 2012

Siria: Libano, armi per insorti su nave salpata da Libia

Tre container colmi di armi destinate agli insorti siriani sono stati scoperti a bordo della 'Lutfallah II', il mercantile battente bandiera della Sierra Leone intercettato due notti fa da unita' della Marina Militare di Beirut, al largo della costa settentrionale del Libano: lo hanno riferito in via riservata fonti della forze di sicurezza libanesi, secondo cui la nave trasportava mitragliatrici, lancia-razzi e lancia-granate, proiettili di artiglieria, missili ed esplosivi. Rimorchiata inizialmente fino al porto di Selaata, una cinquantina di chilometri a nord della capitale, la 'Lutfallah' in mattinata ha levato l'ancora e, sotto massiccia scorta, si e' diretta verso un'ignota destinazione. Era salpata dalla Libia e, dopo aver fatto scalo ad Alessandria d'Egitto, si stava dirigendo verso Tiro, nel Libano meridionale, nel cui porto era stata autorizzata ad attraccare. Comandante e membri dell'equipaggio sono stati affidati ai servizi segreti militari in tale citta', per essere sottoposti a ulteriori interrogatori. Quanto al carico di armi, e' stato trasferito a Beirut con tre camion, scortati da fuoristrada blindati dell'Esercito e da un elicottero. Il regime di Bashar al-Assad ha piu' volte denunciato che attraverso il Paese confinante, il cui governo gli e' di fatto favorevole, passano armamenti destinati ai ribelli in Siria . (28 aprile 2012) http://www.repubblica.it/ultimora/esteri/siria-libano-armi-per-insorti-su-nava-salpata-da-libia/news-dettaglio/4154732

domenica 15 aprile 2012

Il Quartetto non accusa gli insediamenti per l’impasse negoziale

Il Quartetto (Usa, Ue, Russa, Onu) ha diffuso mercoledì una dichiarazione che contiene parole trite e ritrite sugli insediamenti, ma si guarda bene dall’affermare – come avrebbero voluto i palestinesi – che la colpa dell’impasse nel processo diplomatico è delle attività edilizie ebraiche negli insediamenti. Nell’ultimo paragrafo del comunicato il Quartetto “esprime preoccupazione per azioni unilaterali e provocatorie da entrambe le parti comprese le perduranti attività negli insediamenti, le quali non devono pregiudicare il risultato dei negoziati, che sono l’unica strada per una soluzione giusta e duratura del conflitto”.
La dichiarazione è stata diffusa al termine di un incontro tenutosi a Washington fra il segretario di stato Usa Hillary Clinton, il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, la rappresentante delle politica estera dell’Unione Europea Catherine Ashton, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, l’inviato speciale del Quartetto Tony Blair e il ministro degli esteri giordano Nasser Judeh. La Giordania non è membro del Quartetto, ma ha sponsorizzato l’ultimo round di colloqui israelo-palestinesi ad Amman lo scorso gennaio.
Il giorno prima dell’incontro, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat aveva affermato che il Quartetto avrebbe dovuto condannare pubblicamente Israele come responsabile del deragliamento del processo di pace. La dichiarazione del Quartetto, invece, non fa nulla del genere, anche se include un paragrafo che mette assieme l’estremismo violento e l’istigazione all’odio fra i palestinesi con gli atti vandalici di gruppi di coloni israeliani. “Nel prendere atto dei significativi progressi in materia di sicurezza conseguiti dall’Autorità Palestinese in Cisgiordania – si legge nel comunicato – il Quartetto esorta l’Autorità Palestinese a continuare a fare ogni sforzo per migliorare legge e ordine, combattere l’estremismo violento e porre fine all’istigazione. Il Quartetto – continua il testo – esprime inoltre preoccupazione per le attuali violenze e istigazioni dei coloni in Cisgiordania ed esorta Israele ad adottare misure efficaci, compresa quella di portare i responsabili di tali atti davanti alla giustizia”.
Un funzionario israeliano ha osservato che il Quartetto sembra aver fatto un semplice “copia e incolla” delle parole usate in precedenti dichiarazioni dell’Unione Europea in occasione di vari incontri sul Medio Oriente senza accorgersi che, proprio grazie all’azione delle autorità di sicurezza israeliane, nelle scorse settimane si è registrata una netta diminuzione dei casi di “ritorsione” contro palestinesi di Cisgiordania (cioè degli atti di teppismo e vandalismo giornalisticamente etichettati, in Israele, col termine “fargliela pagare”).
La dichiarazione del Quartetto rinnova poi il proprio impegno rispetto alla cornice delineata lo scorso settembre che prevedeva un incontro iniziale fra le due parti entro trenta giorni, per arrivare successivamente ad uno scambio di proposte globali su sicurezza e territorio entro tre mesi, a negoziati diretti e ad un accordo complessivo entro la fine del 2012.
L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha diffuso un comunicato in cui accoglie con favore la dichiarazione del Quartetto “che chiede la continuazione di colloqui diretti senza precondizioni”. Netanyahu, si legge nel comunicato, proporrà al primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad, nel loro incontro previsto per la prossima settimana, di elevare i colloqui fra le due parti al livello di un incontro diretto con il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
Secondo quanto previsto, Fayyad dovrebbe consegnare a Netanyahu una lettera in cui è delineata la posizione palestinese sui colloqui; pochi giorni dopo, il negoziatore di Netanyahu, Yitzhak Molcho, consegnerà a sua volta una lettera di risposta per Abu Mazen. Funzionari governativi israeliani che hanno visto il documento hanno detto mercoledì sera a YnetNews che la lettera conterrà una dettagliata descrizione delle posizioni d’Israele su controllo della Valle del Giordano e carattere smilitarizzato del futuro stato palestinese, ma non conterrà la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele come stato ebraico. In passato Netanyahu ha più volte chiesto che l’Autorità Palestinese e il suo presidente Abu Mazen riconoscano il diritto di Israele ad esistere come stato nazionale del popolo ebraico così come il governo israeliano riconosce la necessità che esista uno stato nazionale arabo-palestinese. I funzionari di Gerusalemme hanno detto che questa richiesta non comparirà nella nuova lettera e che verrà avanzata soltanto verso la conclusione dei negoziati di pace. “Non intendiamo avanzare precondizioni per l’avvio delle trattative – hanno spiegato – I palestinesi vorrebbero che Israele si impegnasse a ritirarsi sulle linee pre-’67, ma è una precondizione e noi siamo contrari a tali precondizioni. Allo stesso modo, noi non pretenderemo il riconoscimento da parte palestinese di Israele come stato ebraico prima della ripresa dei negoziati. Ora, prima di tutto, occorre sedersi e trattare”.
La dichiarazione del Quartetto fa appello inoltre alla comunità internazionale perché “garantisca il contributo di 1,1 miliardi di dollari in aiuti, necessari per soddisfare le esigenze finanziarie correnti dell’Autorità Palestinese per il 2012”. La dichiarazione incoraggia Israele e Autorità Palestinese a “cooperare per favorire lo sviluppo economico e sociale nell’Area C, che è di cruciale importanza per la fattibilità di un futuro stato palestinese e perché i suoi abitanti palestinesi possano condurre una vita normale”. L’Area C è la parte di Cisgiordania che è sotto controllo israeliano in base agli accordi firmati da Israele e Olp. Secondo i rappresentanti israeliani, ciò che conta nella dichiarazione del Quartetto è l’esortazione a sviluppare l’Area C in cooperazione fra israeliani e palestinesi, mentre negli ultimi mesi si era avuta notizia di varie iniziative unilaterali palestinesi in quella zona, talvolta sostenute da alcuni paesi europei. Tony Blair ha già operato con Israele e palestinesi in attività economiche nell’Area C, poi però l’accordo di riconciliazione Fatah-Hamas firmato lo scorso febbraio a Doha ha per il momento congelato quei progetti.
Infine, la dichiarazione del Quartetto afferma che la situazione “dentro e attorno alla striscia di Gaza” è destinata a restare “fragile e instabile finché Cisgiordania e Gaza non saranno riunite sotto la legittima Autorità Palestinese, che si attiene agli impegni assunti dall’Olp” (con gli accordi già firmati negli anni scorsi), e condanna i lanci di razzi da Gaza sulle città israeliane senza accusare Israele per le sue reazioni militari.

(Da: Jerusalem Post, YnetNews, 11.4.12)
http://www.israele.net/articolo,3408.htm

venerdì 16 marzo 2012

Un fragilissimo cessate il fuoco

Dopo quattro giorni di conflitto, l'ultimo round di scontri con le organizzazioni terroristiche nella striscia di Gaza sembra volgere al termine. In effetti le principali parti coinvolte avevano un preciso interesse ad evitare l’escalation.
Gli obiettivi di Israele, in questa fiammata di violenze, erano limitati al contenimento delle ricadute conseguenti all’eliminazione mirata di Zuhair al-Qaissi, capo terrorista dei Comitati di Resistenza Popolare nella striscia di Gaza. Qaissi era considerato una “bomba a orologeria” che stava preparando un attentato dalla penisola del Sinai in preda all’anarchia, analogo a quello architettato lo scorso agosto.
L’obiettivo dei Comitati di Resistenza Popolare, della Jihad Islamica palestinese e di altri gruppi terroristi “muqawama” (irriducibili), pesantemente finanziati e sostenuti dall’Iran, era e rimane quello di sequestrare e/o ammazzare degli israeliani e trascinare Israele in un conflitto diretto con l’Egitto post-Mubarak. Esattamente l’obiettivo che Israele ha voluto sventare uccidendo Qaissi.
Ma Israele non era interessato a una vera escalation, che avrebbe potuto causare numerose vittime civili non intenzionali, soprattutto considerando la strategia palestinese di sparare i razzi dai centri densamente abitati e di usare i civili come scudi umani. E benché le batterie anti-missili del sistema Cupola i ferro schierate ad Ashdod, Ashkelon e Beersheba abbiano garantito una significativa protezione a decine di migliaia di israeliani che vivono nel raggio della gittata dei razzi sparati da Gaza, prolungare il conflitto significava aumentare il rischio di subire vittime civili israeliane.
Anche Hamas, che controlla la maggior parte della striscia di Gaza, non era interessata a un’escalation, quantunque la cosa più avanti possa anche cambiare. La storica organizzazione fondamentalista palestinese è in via di mutamento, mentre cerca di smarcarsi dalla sua vecchia alleanza con Iran e Siria e di allinearsi con gli stati sunniti, soprattutto con l’Egitto dove la Fratellanza Musulmana, organizzazione madre di Hamas, sta salendo al potere. Hamas ha un chiaro interesse a mostrare all’Egitto e ad altri stati “moderati” sunniti d’essere capace di mantenere la stabilità a Gaza. Tanto più che l’Egitto, che sta attraversando un tremendo sconvolgimento politico da quando Hosni Mubarak è stato estromesso, ha i suoi problemi – soprattutto le tensioni fra giunta militare e islamisti – e non ha voglia di veder scoppiare una guerra ai suoi confini nord-orientali. Ed infatti l’Egitto ha giocato un ruolo chiave nel favorire il cessate il fuoco. Il capo dell’intelligence Murad Muafi e altre figure delle forze armate egiziane hanno fornito l’indispensabile collegamento fra Israele e i gruppi terroristi di Gaza. Amos Gilad, direttore degli affari politico-militari presso il ministero della difesa israeliano, ha dichiarato martedì a radio Galei Tzahal che non c’è stato nessun accordo formale con Hamas o altre organizzazioni terroristiche che operano nella striscia di Gaza, dal momento che Israele “non si accorda con gli assassini”. Piuttosto, ha spiegato Gilad, Israele attraverso gli egiziani ha fatto arrivare il messaggio “calma in cambio di calma”, pur riservandosi il diritto di condurre eliminazioni mirate quando si rende necessario per prevenire attentati.
Ma il cessate il fuoco è molto fragile. Martedì stesso (e poi ancora mercoledì e giovedì) diversi ordigni sono stati sparati dalla striscia di Gaza sul sud di Israele, mentre i Comitati di Resistenza Popolare e la Jihad Islamica, che hanno dimostrato di disporre di moltissimi razzi, continueranno a pianificare attacchi contro “l’entità sionista”.
Ancora più inquietante è la possibilità assai concreta che l’interesse politico di Hamas ed Egitto per il mantenimento della calma a Gaza possa mutare. Il crescente estremismo nell’Egitto dell’era post-Mubarak è apparso evidente domenica quando il parlamento, ora praticamente controllato dalla Fratellanza Musulmana, ha avviato procedure di voto volte a bloccare la ricezione del miliardo di dollari e più in aiuti che gli Stati Uniti forniscono ogni anno al Cairo. I parlamentari islamisti sono evidentemente molto turbati dal caso giudiziario che coinvolge alcune ONG americane che si battono per i diritti umani in Egitto. Lunedì, poi, il parlamento egiziano ha votato a favore dell’espulsione dell’ambasciatore d’Israele e per il blocco delle esportazioni di gas verso Israele. Una votazione fatta per alzata di mano su una dichiarazione della Commissione per gli Affari Arabi in cui si affermava che l’Egitto non sarà mai amico, partner o alleato di Israele. Limitare gli aiuti americani è considerato un modo per ridurre l’influenza che gli Stati Uniti possono esercitare sulla politica egiziana. Il che potrebbe dare mano libera all’Egitto, nei prossimi anni, per abrogare gli Accordi di pace di Camp David e adottare una posizione più ostile a Israele.
Purtroppo, nei primi giorni di fragile cessate il fuoco, mentre più di un milione di israeliani nel sud del paese cerca di tornare a una vita normale, già si profilano all’orizzonte i segnali della prossima tornata di scontri.

(Da: Jerusalem Post, 13.3.12)

http://www.israele.net/articolo,3387.htm

sabato 18 febbraio 2012

È tempo di rottamare l’Unrwa






L’agenzia Onu per i profughi palestinesi (l’UNRWA ovvero United Nations Relief and Works Agency for Palestinian Refugees) costituisce uno dei più grossi ostacoli al processo di pace. Lo ha ribadito la parlamentare israeliana Einat Wilf (del partito Indipendenza, che fa capo a Ehud Barak), durante un incontro con 65 ambasciatori e diplomatici di alto livello provenienti da tutto il mondo che si è tenuto agli inizi del mese presso l’Università Bar-Ilan.
Einat Wilf ha lanciato una nuova campagna parlamentare internazionale per promuovere una riforma dell’UNRWA e contrastare “l’inflazione quantitativa dei profughi”, con lo scopo di rendere concretamente possibile la soluzione a due stati. “Quando sento un palestinese affermare che esiste un ‘diritto al ritorno’ all’interno del sovrano stato di Israele – ha spiegato Einat Wilf – mi domando se costui voglia davvero la pace e accetti il concetto di una soluzione a due stati, che in quanto tale prevede uno stato ebraico accanto a uno stato arabo”. Ed ha aggiunto: “In tutto il mondo, solo l’UNRWA riconosce una sorta di diritto ereditario automatico allo status di profugo”.
Infatti - a differenza dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees), l’organismo che si fa carico di tutti i profughi del mondo che non siano palestinesi - l’UNRWA garantisce i suoi servizi a tutti i discendenti dei profughi palestinesi della guerra del 1948 anche dopo più generazioni: un meccanismo attraverso il quale l’ammontare dei profughi palestinesi registrati non fa che aumentare ogni anno.
La parlamentare israeliana fa appello alla comunità internazionale perché affronti la questione della continua “inflazione” del numero dei profughi palestinesi, e intende rivolgersi direttamente alle commissioni dei vari Parlamenti incaricate di approvare gli stanziamenti a favore dell’UNRWA. La sua proposta è che le commissioni trasferiscano i fondi destinati all’UNRWA dal finanziamento di base per usi generali a finanziamenti mirati per scopi e progetti specifici. Ad esempio, spiega Einat Wilf, se la striscia di Gaza farà indiscutibilmente parte del futuro stato palestinese, un bambino che nasce oggi a Gaza non può essere considerato “profugo”. I paesi donatori continuino a finanziare ospedali, scuole e assistenza sociale nella striscia di Gaza, ma che il loro aiuto non sia legato allo status di profugo, bensì alle necessità reali.
Einat Wilf accusa l’UNRWA di minare gli sforzi volti a sostenere l’Autorità Palestinese come futuro governo di uno stato palestinese, e suggerisce che i fondi diretti ai programmi dell’UNRWA in Cisgiordania vengano trasferiti direttamente all’Autorità Palestinese, che possa così rafforzare le strutture del suo futuro stato. Inoltre, suggerisce che i programmi dell’UNRWA in Libano, Siria e Giordania vengano accorpati con quelli dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati.
Una volta che fossero attuate queste misure, spiega Wilf, la quantità totale di veri profughi palestinesi (riconosciuti come tali in base agli standard applicati a tutte le altre comunità di profughi del mondo) si “sgonfierebbe” scendendo a circa 30.000. Secondo la Wilf, questo numero “effettivo” di profughi palestinesi aprirebbe la strada alla soluzione a due stati, giacché “anche un governo israeliano di destra” sarebbe disposto ad accettare l’ingresso in Israele di profughi palestinesi nell’ordine di questa cifra, a patto che accettino di convivere in pace coi loro vicini (laddove, al contrario, la continua minaccia palestinese di pretendere l’ingresso in Israele di milioni di discendenti di profughi non può essere accettatala da nessun governo israeliano).
Alcuni dei diplomatici presenti hanno obiettato che questi passi non andrebbero fatti prima dell’accordo di pace definitivo, osservando che quella dei profughi è una delle questioni chiave che devono essere affrontate nel quadro dei negoziati. Einat Wilf ha tuttavia ribattuto che, se il processo non viene rovesciato, è molto improbabile che i negoziati possano avere successo.

(Da: Jerusalem Post, 1.2.12)
http://www.israele.net/articolo,3363.htm

venerdì 27 gennaio 2012

I rischi del cinismo e dell'indifferenza: perché è importante ricordare

Il Giorno della Memoria e il valore della testimonianza

Il brivido di orrore che hanno avvertito, poche settimane fa, i lettori dei giornali e la moltitudine planetaria dei frequentatori del web è la prova di quanto sia necessaria la mobilitazione, e non una sola volta all'anno, per difendere il valore della memoria. Il giovane titolare di una palestra di Dubai, a caccia di clienti, ha infatti ideato cartelloni pubblicitari con la foto dell'ingresso del più noto e sinistro campo di sterminio nazista. Accompagnandola con uno slogan agghiacciante: «Magri come fosse Auschwitz». Quel che raggela non è soltanto l'accostamento tra il culto del fitness e i lager dove si sterminavano gli ebrei, ma il fatto che l'ideatore si sia permesso quest'infamia, raccogliendo almeno all'inizio una confortante, e in qualche caso entusiastica risposta dai vecchi e nuovi frequentatori della palestra. È l'ultimo inquietante segnale che spiega come sia un obbligo vigilare per non dimenticare.

I negazionisti dell'Olocausto, a cominciare dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, sono sempre in agguato, e il pericolo più grande è che, dopo la scomparsa degli ultimi sopravvissuti-testimoni, si faccia strada un oblio generalizzato, magari lasciando spazio a teorie infamanti, alimentate da una diffusa (e da alcuni voluta) ignoranza. Con l'obiettivo di cancellare una delle pagine più terribili della storia dell'umanità: l'annientamento di sei milioni di ebrei. Colpevoli di un solo crimine: appunto, di essere ebrei.

Per aiutare i giovani a conoscere, e quelli meno giovani a non dimenticare quanto accadde meno di 70 anni fa in un grande Paese europeo, anche noi abbiamo deciso di offrire un contributo, ripercorrendo il sentiero della sofferenza e della morte, con il fondamentale aiuto di un gruppo di sopravvissuti (Guarda il docu-web). Per dare un titolo al nostro lavoro, abbiamo preso a prestito da Goti Bauer, una eroica e generosa donna uscita viva dal campo di sterminio di Auschwitz, una frase laconica e tragicamente vera: «Salvi per caso». È proprio così. I pochissimi che sono tornati alla vita, dopo aver attraversato l'intero tunnel dell'orrore e della bestialità umana, ce l'hanno fatta soltanto grazie ad alcune fortuite circostanze. Alcuni hanno pagato persino da sopravvissuti un atroce supplemento di dolore. Guardati, anzi scrutati con sospetto perché erano riusciti a salvarsi.

Lo sterminio fu pianificato, organizzato e realizzato in un Paese importante, quella Germania patria di filosofi, di intellettuali, di musicisti, di letterati di straordinaria grandezza. Non si può giustificare l'orrore di una cieca acquiescenza con le umiliazioni subite dal popolo tedesco alla fine della prima guerra mondiale, quando i vincitori dettarono ai vinti condizioni durissime e spietate. Nulla di razionale può spiegare come gente colta e fiera si sia lasciata sedurre fino a spingere «democraticamente» nelle stanze del potere un uomo spietato e complessato: quell'Adolf Hitler che, dopo aver attaccato militarmente e ferocemente il mondo, stabilì la scientifica eliminazione di tutta la popolazione ebraica: in Germania e nei paesi europei occupati dai nazisti.

Eppure è accaduto in Europa! A parte qualche apprezzabile e minoritario movimento di opposizione, a parte l'inconcludente ma abbastanza diffusa microresistenza raccontata da Hans Fallada nel libro Ognuno muore solo, e a parte il coraggio di pochi temerari che cercarono di eliminare l'aguzzino che aveva «sporcato e offeso l'onore della Germania», e che pagarono con la morte la loro ribellione, la lucida follia di Hitler riuscì a prevalere per oltre un decennio, tra la «quasi indifferenza» del mondo. Jan Karski, l'agente segreto polacco infiltrato nei campi e poi esfiltrato perché potesse raccontare ai potenti della Terra il genocidio degli ebrei purtroppo non fu ascoltato. Se lo avessero ascoltato, la guerra contro Hitler sarebbe forse cominciata prima.

Pregavamo che arrivassero gli aerei a bombardare i campi di sterminio. Meglio morire così che nelle camere a gas», ha ripetuto più volte uno dei sopravvissuti più celebri, il premio Nobel Elie Wiesel. Siamo andati a cercare e abbiamo trovato alcuni di coloro che hanno vissuto per intero l'incubo che ha abitato l'«interminabile notte della ragione». Per gli ebrei greci, le deportazioni cominciarono alla vigilia della primavera dei 1943, da Salonicco, la città che è stata chiamata «Madre di Israele». Questo perché, allora, gli ebrei erano quasi il 50 per cento della popolazione della città, che contava 120.000 abitanti. I deportati furono circa 58.000. Ne tornarono poco più di 2.000. C'è chi si salvò perché conosceva il tedesco, come Heinz Kounio; o semplicemente perché, costretto ad adattarsi alla ferocia di Auschwitz-Birkenau, aveva una forza e un carattere d'acciaio come Benjamin Kapon; chi si salvò perchè poteva contare su un passaporto spagnolo - come Nina Benroubi, Rachel Revah e Raul Saporta - e quindi fu deportato in un campo, quello di Bergen Belsen, dove si moriva di fame e di freddo ma non vi era la spietata macchina della selezione di Auschwitz: cenno con la mano destra dell'ufficiale medico nazista per indicare camera a gas immediata per bambini, anziani e disabili; cenno con la mano sinistra per chi, a un primo esame, poteva servire per i più duri lavori manuali.

Per gli italiani, i treni dell'infamia partivano generalmente dal binario 21 della stazione centrale di Milano. Carrozze per il trasporto-animali stipate di ebrei, che prima raggiungevano il campo di Fossoli, vicino a Carpi, in provincia di Modena, dove avveniva la turpe consegna dei prigionieri ai nazisti. E si preparava il viaggio-in condizioni disumane- verso Auschwitz. Liliana Segre racconta come abbia cercato di sopravvivere tappandosi le orecchie per non sentire le grida, in tante lingue, di bambini strappati ai genitori, pur sapendo qual era il loro destino. Nedo Fiano racconta di come si salvò perchè conosceva il tedesco, e poi perché sapeva cantare e spesso doveva intrattenere gli aguzzini, ottenendo un po' di cibo oltre al rancio della vergogna: un litro di zuppa semiputrescente e 60 grammi di pane al giorno. Franco Schönheit racconta del vantaggio di avere un cognome tedesco e di avere soltanto il 50 per cento di sangue ebraico. Molti episodi dettagliati che spiegano quel «Salvi per caso»: prima la cattura, poi il viaggio, la vita nel campo di sterminio, il lavoro massacrante, le frustate al primo errore, il fumo dai camini, l'odore della carne bruciata. Poi il cammino della morte, al quale i deportati furono obbligati dai nazisti in fuga. E infine la liberazione, l'inizio di una nuova vita, il desiderio di dimenticare.

Per molto tempo questi sopravvissuti hanno taciuto. Da qualche anno si sono decisi a parlare, a raccontare, a spiegare, a dare puntigliosa, sofferta e dolorosa testimonianza di quel che hanno vissuto. Di quel «mostro» che da qualche parte, nel mondo, potrebbe ancora rinascere: perché quel «mai più!», gridato una volta all'anno, il 27 gennaio, Giorno della Memoria, non basta. Sta diventando quasi un esercizio retorico. Tutti sappiamo che riprodurre le condizioni di quell'orrore è purtroppo possibile se non si sorveglia costantemente. Se non ci si trasforma in intransigenti guardiani della democrazia e del rispetto dei diritti umani.
Ai sopravvissuti che abbiamo incontrato vogliamo dire un grazie di cuore e mandare un forte abbraccio. Le loro testimonianze aiuteranno a non cadere nell'abisso del cinismo, della menzogna, dell'indifferenza e dell'ignoranza.

Antonio Ferrari
Alessia Rastelli

http://www.corriere.it/cultura/12_gennaio_26/ferrari-memoria_57119422-483d-11e1-9901-97592fb91505.shtml

martedì 17 gennaio 2012

Sciopero dei tir in Sicilia

Presidi anche in Calabria da Catanzaro a Reggio, lungo l'A1 e ai traghetti

Con l'inizio della settimana, è scattato lo sciopero dei trasporti in Sicilia "Operazione vespri siciliani". La protesta, promossa da "Forza d'urto" - il movimento nato da Autotrasportatori Aias, Movimento dei Forconi, pescatori, imprenditori agricoli e da altre organizzazioni - durerà cinque giorni, e si concluderà alla mezzanotte di venerdì prossimo. A Palermo blocchi al porto e nel primo tratto della A19 fino a Villabate. Blocchi anche nell'agrigentino. Code agli ingressi in autostrada.



PALERMO -

Blocco totale del trasporto in Sicilia dalla mezzanotte di lunedì. L'iniziativa di protesta, che si concluderà alle 24 di venerdì prossimo, è stata promossa da numerose aziende di trasporto, strutturate e non strutturate, che hanno aderito al movimento "Forza d'Urto" che vedeva già la partecipazione degli autotrasportatori dell'Aias, del "Movimento dei Forconi, degli imprenditori del settore agricolo, dei pescatori e di diverse altre categorie. All'origine della protesta il caro carburanti che penalizza l'economia.
Rallentamenti del traffico si sono registrati sulla strada statale 624 Palermo-Sciacca e sulla statale 121 tra Bolognetta e Palermo. Presidi di autotrasportatori sono stati istituiti al porto di Palermo ed a Termini Imerese.
Disagi allo svincolo di San Gregorio, a Catania, e in quello di Acireale, con una lunga fila di tir fermi. Presidi sulla strada che collega Francofonte a Catania e sulla 417 per Gela. Della ventina di blocchi previsti dal Movimento, molti si concentrano nel catanese. Dal porto del capoluogo si è mosso verso la Prefettura il corteo dei pescatori aderenti al Apmp (Associazione pescatori marittimi professionali).
Pesanti disagi anche nel nisseno a causa dello sciopero. I distributori di carburante del capoluogo hanno esaurito le scorte di benzina e gasolio a causa del blocco delle vie d'accesso alla città. Ieri mattina già a partire dalle 9 il traffico in entrata e uscita da Caltanissetta è andato in tilt a causa di blocchi stradali che hanno paralizzato la strada statale 640, sia nel tratto della bretella che collega l'autostrada A19 con Caltanissetta, sia all'imbocco per Agrigento.
In tutta la regione già da domenica le prime file ai distributori di carburante a causa del fermo.
La protesta corre anche su social network come twitter: tra gli ashtag per seguire in diretta i blocchi, #fermosicilia e #forconi.

http://www.grr.rai.it/dl/grr/notizie/ContentItem-9ec285ee-aae7-4344-b64d-4331a32a18cd.html

domenica 15 gennaio 2012

Dalla Sicilia parte la protesta del Movimento dei Forconi




Probabilmente, tutti noi ne subiremo le conseguenze, come qualche disagio per chi viaggia o qualche difficoltà nel trovare i prodotti… ma i promotori del Movimento dei Forconi hanno già chiesto pubblicamente scusa per gli eventuali fastidi chiedendo, nel frattempo, di condividere le ragioni della protesta e di aderire alle giornate siciliane di mobilitazione, dal 16 al 20 gennaio 2012.
“È la rivoluzione di un popolo che è ai limiti della sopportazione, stanco della classe politica e dell’intero sistema che ci emargina e ci prevarica”: queste le parole di uno dei fondatori del Movimento, Mariano Ferro, in un’intervista prima dell’inizio della protesta.
Il Movimento dei Forconi è un’associazione di agricoltori, artigiani, allevatori e pastori costituitasi per lottare contro lo status quo e contro il potere costituito.
Già negli scorsi mesi era sceso in piazza a più riprese ma, con la quattro giorni di Gennaio, incalza con maggiore veemenza per denunciare le criticità e la disperazione della gente. Il Movimento, che si dichiara libero politicamente e al di fuori di ogni strumentalizzazione, ha pensato in grande decidendo di occupare pacificamente tutti i punti nevralgici della Sicilia.
”Snobbato inizialmente dai mezzi di informazione, i promotori del movimento hanno creato pagine su facebook e video per divulgare finalità e obiettivi. L’adesione degli autotrasportatori ha amplificato notevolmente la notizia della manifestazione che cercherà di bloccare i punti nevralgici dell’isola. “Sarà una manifestazione tranquilla e pacifica” rassicurano i promotori. Al momento, è molto difficile fare previsioni sul numero di aderenti e sulle conseguenze della mobilitazione.

http://www.vivienna.it/2012/01/14/dalla-sicilia-parte-la-protesta-del-movimento-dei-forconi/

sabato 7 gennaio 2012

LA SIRIA IN FIAMME

Ombre e spie dietro agli attentati di Damasco

In un paese blindato dalla censura si combatte una violenta lotta fra opposizioni e i militari fedeli ad Assad


WASHINGTON
- La prima strage il 23 dicembre davanti alla sede dei servizi segreti a Damasco. Ora un’altra esplosione, sempre nella capitale, attribuita ad un kamikaze. Due massacri che suscitano molti interrogativi sui presunti colpevoli. Le informazioni verificabili sono poche, dunque possiamo fare solo ipotesi.

TRE IPOTESI AL VAGLIO-1) Gli attentati sono opera di un’ala radicale dell’opposizione: in Siria e nei paesi vicini operano molti gruppi jihadisti. Hanno le capacità tecniche, dispongono di elementi pronti al martirio e conoscono bene il teatro operativo. Le principali formazioni dissidenti hanno preso le distanze dagli attacchi ma non hanno un controllo pieno ed effettivo su quanti si sono ribellati al clan Assad. 2) Gli attacchi fanno parte di una strategia del doppio binario varata dall’opposizione. Insieme alla lotta che si svolge ogni giorno nelle città e nei villaggi, si conduce una guerra clandestina, molto più violenta, che prevede anche attentati. In questo modo cercano di scuotere la comunità internazionale per ottenere un intervento diretto. 3) E’ una manovra degli 007 per dimostrare che gli avversari sono dei «terroristi». Damasco avrebbe anche «usato» le dichiarazioni del capo dell’Esercito libero siriano (composto da disertori e basato in Turchia) che due giorni fa ha annunciato azioni spettacolari. Altro aspetto: le bombe sono iniziate ad esplodere dopo l’arrivo nel paese degli osservatori della Lega araba. Venuti per verificare le atrocità compiute dal regime sono stati testimoni delle due stragi. Un blogger ha aggiunto: se davvero volevano colpire i simboli del potere avrebbero potuto attaccare una grande manifestazione pro-regime prevista per oggi a Damasco, invece hanno scelto un bersaglio più facile. 4) Probabilmente è solo una coincidenza. O forse qualcuno vuole sfruttare il clima di violenza. L’attacco del 23 è stato preceduto da un grande attentato qaedista in Iraq. Lo schema si è ripetuto: ieri più di 70 persone sono morte per una serie di esplosioni in città irachene, oggi si contano le vittime a Damasco.

Guido Olimpio

http://www.corriere.it/esteri/12_gennaio_06/olimpio-analisi-attentati_b94293c0-3862-11e1-86b7-c754a63c4545.shtml