giovedì 20 maggio 2010

Gaza: 14.000 tonnellate di aiuti umanitari da Israele

Secondo quanto dichiarato ieri dal portavoce dell’IDF (l’esercito israeliano) la scorsa settimana Israele ha introdotto nella Striscia di Gaza 14.000 tonnellate di aiuti umanitari per la popolazione civile. 637 camion per un totale di 14.069 tonnellate di beni di prima necessità. I dati sono stati confermati da alcune organizzazioni umanitarie e, stranamente, anche dall’ufficio dell’Onu a Gaza.

Secondo quanto si può apprendere dai dati diffusi dalle autorità israeliane i beni di prima necessità introdotti nella Striscia di Gaza sarebbero formati da centinaia di migliaia di litri di carburante, 21 camion di latte in povere per bambini, 897 tonnellate di gas da cucina, 27 camion di carne, pollame e pesce, 40 camion di latticini, 117 camion di altro cibo di provenienza animale, 37 camion carichi di prodotti per l’igiene, 22 camion di zucchero e 38 carichi di vestiti e scarpe.

Oltre all’ingresso di aiuti umanitari Israele ha permesso il trasporto in strutture sanitarie israeliane o della Cisgiordania di 781 persone malate insieme ai loro accompagnatori. Contemporaneamente sono stati introdotti nella Striscia di Gaza quattro camion di medicine e di attrezzature mediche. Contemporaneamente agli aiuti è stato permesso l’ingresso nella Striscia di Gaza a 191 operatori umanitari di agenzie internazionali e di Ong.

Gli aiuti sono stati inviati da Israele nel quadro dell’assistenza umanitaria nonostante la Striscia di Gaza sia considerata “territorio ostile” e nonostante sia occupata da una entità (Hamas) che ha più volte dichiarato la sua intenzione di voler distruggere Israele. Non sono mancate le obiezioni a questa operazione, soprattutto da parte di chi chiede notizie certe sulla sorte del caporale Gilad Shalit, tenuto prigioniero da Hamas dal lontano 2006. Tuttavia, nonostante Hamas non permetta a nessuno (Croce Rossa Internazionale compresa) di visitare il caporale Shalit, Gerusalemme ha ritenuto necessario alleviare le sofferenze della popolazione palestinese di Gaza oppressa dalla occupazione di Hamas senza porre alcuna condizione se non quella che gli aiuti umanitari venissero gestiti da organizzazioni umanitarie non legate al movimento terrorista onde evitare che detti aiuti invece che andare ai bisognosi venissero, come al solito, rivenduti al mercato nero dagli uomini di Hamas.

Tratto da Secondo Protocollo (http://www.secondoprotocollo.org/?p=982)

martedì 18 maggio 2010

Uno stato palestinese entro confini provvisori

di Aluf Benn

L’annuncio dell’avvio di “colloqui di prossimità” (negoziati indiretti) fra Israele e palestinesi solleva diverse questioni: di cosa esattamente si parlerà? Cos’altro si potrà rilanciare, nel processo di pace, dopo che tutto sembra essere stato tentato mentre la pace resta inafferrabile? Che asso avrà mai nella manica il mediatore del momento, George Mitchell, che non fosse a diposizione dei suoi frustrati predecessori?
Israele vuole tirarsi fuori dal pantano del controllo sui palestinesi, che lo accusano di apartheid e lo costringono a scegliere fra identità ebraica e democrazia. Ma Israele vuole anche conservare parte della Cisgiordania, i principali blocchi di insediamenti e il controllo sulla sicurezza, e vorrebbe preservare la sovranità su Gerusalemme.
La risposta di Israele a questo stallo prevede la promozione dell’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Salam Fayyad ad ente responsabile di una comunità politica all’interno di confini provvisori. Questo staterello verrebbe creato grazie a un voto speciale dell’Onu, assolvendo di fatto Israele dalle responsabilità sulla popolazione palestinese. Le contese sui territori rimanenti, sui profughi e su Gerusalemme verrebbero appianate più tardi attraverso trattative fra i due stati sovrani, Israele e Palestina, e non tra un occupante e gli occupati. […]
Un anno fa il Reut Institute raccomandò che Washington presentasse una sua prospettiva di accordo finale tale da offrire ai palestinesi un “orizzonte diplomatico” grazie al quale far nascere uno stato palestinese entro confini provvisori. Il presidente d’Israele Shimon Peres ha avanzato una proposta simile, suggerendo colloqui separati rispettivamente per un accodo (su uno stato) provvisorio e un accordo per la composizione definitiva del conflitto.
Dopo un anno di inutili dispute sullo sgombero degli insediamenti, uno stato palestinese provvisorio sembrerebbe effettivamente l’accomodamento per ora più praticabile, o grazie a un accordo concordato o attraverso una decisione unilaterale israeliana.
Si tratta naturalmente di un tema soggetto a limitazioni polirci, ma per ora Israele potrebbe adattarsi a un circoscritto sgombero di insediamenti e avamposti, mantenendo il controllo sulla sicurezza e senza negoziare, per il momento, su Gerusalemme. Intanto ai palestinesi non verrebbe chiesto nulla in cambio: né di riconoscere Israele come stato ebraico, né di abbandonare la rivendicazione del “ritorno”, due cose che Netanyahu pone come condizioni per arrivare a un accordo finale.
Ma qui stanno anche i punti deboli di questa iniziativa. Le dispute sulle questioni più delicate resterebbero intatte, minacciose come spade di Damocle, e Israele verrebbe trascinato in conflitti interni sugli insediamenti. Il tutto senza una reale soluzione del conflitto in senso più ampio.
Netanyahu pare convinto che l’unica risposta all’attuale stallo diplomatico sarebbe un accordo interinale basato su uno stato palestinese entro confini provvisori, ma esita a sostenere apertamente questa idea. Vorrebbe piuttosto arrivare a questo risultato per mancanza di alternative, sotto le forti pressioni americane e – se possibile – in cambio di un intervento americano contro l’Iran: come il suo predecessore Ariel Sharon, che sgomberò dalla striscia di Gaza solo dopo che George W. Bush era intervenuto contro l’Iraq di Saddam Hussein.

(Da: Ha’aretz, 28.4.10)
http://www.israele.net/articolo,2826.htm

lunedì 10 maggio 2010

Cosa aspettarsi dai colloqui indiretti israelo-palestinesi

Di Barry Rubin

La domanda del giorno è: i colloqui indiretti fra Israele e Autorità Palestinese faranno fare progressi al “processo di pace” o risulteranno un fallimento?
In effetti, c’è da domandarsi, a questo punto, quanti sono gli ingenui che credono che la pace sia a portata di mano, e quanti sono i disinformati indotti a pensare che la mancanza di pace sia colpa di Israele.
Quello che occorre, per capire la questione, è esattamente ciò che non viene spiegato da politici, accademici e da tanta parte dei mass-media: l’Autorità Palestinese non ha la volontà né la capacità di arrivare a un accordo di compromesso per la pace. L’estremismo fra i suoi ranghi e nella sua opinione pubblica, unitamente alla sfida sempre presente di Hamas, legano le mani di leader palestinesi che già di per sé non sono poi tanto moderati. Troppo forte è la tentazione di credere che, continuando a “lottare”, a dire “no” e a cercare di capovolgere il sostegno occidentale a Israele, finiranno per ottenere tutto quel che vogliono senza cedere nulla.
Ma questi specifici colloqui, in questo specifico momento, potranno portare un progresso o un insuccesso? Dipende da cosa si intende per “progresso” e da cosa si intende per “fallimento”. Se si pensa di arrivare a un accordo di pace globale, allora il risultato sarà un fallimento perché, tanto per cominciare, l’Autorità Palestinese non vuole un accordo globale: sia le sue politiche interne, sia l’inebriante convinzione che l’amministrazione Obama darà loro ciò che vogliono, tendono a produrre maggiore intransigenza. Se gli Stati Uniti intendono imporre una soluzione ad ogni costo, l’Autorità Palestinese, avendo sentore che questo atteggiamento non può che sfociare nel fallimento dei colloqui, non si sentirà in alcun modo incoraggiata ad accettare un accordo. A quel punto, qualunque tentativo di forzare le cose fatto da persone che in effetti – siamo onesti – non capiscono granché delle questioni in ballo, né di come funziona la politica in Medio Oriente, alla lunga potrà solo portare a un disastro.
Se invece più saggiamente si useranno questi colloqui per ridurre le tensioni fra le parti e affrontare problemi più immediati cui è possibile dare una risposta – crescita economica, cooperazione per la sicurezza, modalità per rendere l’Autorità Palestinese più stabile politicamente, migliore per la sua popolazione e capace di sopravvivere alla sfida di Hamas – allora questi colloqui potranno essere proficui.
Dal punto di vista dell’amministrazione Obama, se si accontenterà della “grande impresa” d’aver ottenuto colloqui indiretti (dopo che la sua politica ha contribuito a ritardarli tanto a lungo), allora potrà fare la lieta scoperta che tali colloqui possono avere un valore in se stessi. E si convincerà che quei colloqui possono rabbonire arabi e musulmani, rendendo più accessibili gli obiettivi della politica americana su altre questioni grazie al sostegno arabo, ad esempio, su ciò che gli Stati Uniti stanno facendo per le sanzioni all’Iran, o per il ritiro dall’Iraq, o per ridurre il terrorismo anti-americano. Il che è tutt’altro che certo, ma farà sentire meglio l’amministrazione Usa e forse i suoi elettori.
Se i colloqui diventeranno diretti il mondo se ne rallegrerà molto, dimenticando che questo ci riporta semplicemente alla situazione che c’era nel 2008, peraltro anche allora senza grandi progressi. In effetti, colloqui diretti fra israeliani e palestinesi sono andati avanti per diciassette anni, con Israele che per tutto quel periodo ha offerto uno stato palestinese come esito dei colloqui, e che già dieci anni fa offriva ai palestinesi la possibilità di costituire subito uno stato con capitale a Gerusalemme est e un territorio equivalente a tutta la Cisgiordania e la striscia di Gaza.
A proposito, quando finalmente si vedranno i più seguiti mass-media occidentali riportare con esattezza quelle che sono le vere richieste di Israele per una composizione di pace definitiva? E cioè: garanzie per la sicurezza, cessazione di ogni ulteriore rivendicazione palestinese, uno stato palestinese smilitarizzato senza eserciti stranieri sul suo suolo, reinsediamento dei profughi palestinesi nello stato palestinese, riconoscimento di Israele come stato ebraico in cambio del riconoscimento della Palestina come stato arabo? Non sono, questi punti, almeno altrettanti rilevanti delle richieste palestinesi circa uno stato, lo smantellamento degli insediamenti ebraici e le rivendicazioni territoriali? Finché i leader occidentali non capiranno perché non vi sono stati progressi e finché non imposteranno le loro politiche di conseguenza, come porrà esservi una svolta tale da risolvere la questione?

(Da: Global Research in International Affairs-GLORIA, 4.5.10)
(http://www.israele.net/articolo,2819.htm)