mercoledì 21 ottobre 2009

La stasi del processo di pace in Medio Oriente

di Salvatore Falzone

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Molti sono concordi nel ritenere che in Medio Oriente si sta vivendo una situazione di stasi politica. E’ vero. Re Abdallah di Giordania, uomo moderato, da tempo afferma che la “pace è a rischio” nella regione.

In un’intervista rilasciata al quotidiano Repubblica del 19 ottobre denuncia come la situazione potrebbe degenerare se non si rilancia il processo di pace. Il re è convinto che serve una pace globale che sia “[…] complessiva con 57 nazioni (Lega Araba e Conferenza islamica), cioè un terzo del mondo, che oggi non riconoscono Israele”. E indica un limite temporale: “la finestra della speranza, fra breve, si chiuderà. Entro la fine del 2010, se Israele non crederà nella soluzione dei due Stati, svanirà la possibilità di un futuro Stato palestinese, per questioni geografiche: i territori già sono frantumati in cantoni. E se voi e io dovessimo ritrovarci qui, a porci le stesse domande, temo che la nostra generazione non vedrà la pace”.

Il re vuole la fine dell’occupazione, sostiene la nascita di uno Stato palestinese indipendente che viva a fianco allo Stato d’Israele e pone l’accento sull’indipendenza dei palestinesi accompagnata dallo sviluppo economico. Abdallah teme che la politica di Netanyahu sul mancato congelamento delle colonie possa trasformarsi in un escamotage per rimandare la nascita e la creazione di uno Stato di Palestina.

“Serve una soluzione fondata sui due Stati, e questo noi stiamo aspettando”, dichiara.. Ma Abdallah sa anche che tutte le proposte e richieste presentate da Israele, da Rabin a Netanyahu, troppo spesso non hanno trovato risposta politica realistica da parte degli arabi.

Il premier Netanyahu accetta la formula di due popoli per due Stati e chiede il riconoscimento dello Stato d’Israele come giusta aspirazione del popolo ebraico e uno Stato di Palestina non militarizzato. Richieste, che sino ad oggi con un panorama palestinese diviso e un movimento Hamas che non accetta nessuna visione politica, non hanno trovato delle risposte. L’approccio dei palestinesi rende ingessata la situazione con conseguenze molto negative per la rappresentanza e credibilità dei palestinesi.

Il mondo arabo dal ’48 sino a oggi ha presento solo due piani di pace.

Il primo è il Piano Fez del 1982 e il secondo il Piano Saudita del 2002 riproposto nel 2007.

Si tratta di un piano che stabilisce la completa restituzione dei Territori Occupati in Cisgiordania con il completo sgombero delle colonie e la restituzione totale delle Alture del Golan; il diritto al ritorno dei profughi in Israele e un accordo per far nascere lo Stato palestinese nella Striscia di Gaza e Cisgiordania, con capitale Gerusalemme Est. Tutto ciò porterebbe, per gli arabi, alla completa normalizzazione dei rapporti tra arabi e israeliani e la fine del conflitto.

In poche parole i Paesi arabi chiedono il ritorno alla geografia precedente al conflitto dei Sei Giorni del ’67.

In molti si chiedevano se il Piano era solo di “facciata” o se era aperto agli inevitabili compromessi per la sua riuscita. C’è da dire che, nel 2002 a Beirut in una riunione della Lega Araba, la Casa regnate Saudita si era impegnata nella stesura di questo piano, ma all’epoca Israele non prese in considerazione il Piano.

L’iniziativa veniva vista come una risposta all’opinione pubblica mondiale agli attacchi dell’11 settembre, dove la maggior parte degli attentatori avevano la cittadinanza saudita, ma al contesto della seconda intifada, accompagnata dal terrorismo non poteva di certo favorire un approccio favorevole israeliano. Nessun Paese quando si sente sotto assedio è disposto a trattare se prima non si ferma la violenza.

Nel 2007, invece, l’iniziativa è vista come una conferma da parte saudita del sunnismo in risposta alla paura di una forte penetrazione sciita iraniana nella regione, alla luce dei rapporti tra Hamas (sunnita) e l’Iran sciita, senza dimenticare la guerra dei trentaquattro giorni con gli sciiti Hezbollah.

Il Piano è anche visto come una risposta regionale in contrapposizione alla politica americana di aiuto allo Stato ebraico.

La percezione araba e riassunta dal Professor Naseer Aruri in un suo libro ha scritto: “Un aspetto singolare della politica americana nei confronti del conflitto arabo-israeliano (dall’occupazione del 1967) è stata l’insistenza con cui gli USA hanno dichiarato di essere gli arbitri principali o i soli pacificatori, quando in realtà non sono stati altro che cobelligeranti. Parallelamente al rafforzamento costante della special relationship tra USA e Israele (trasformata in un’opportuna alleanza strategica) durante e dopo la guerra fredda, si è sviluppata una preminenza del ruolo diplomatico americano. Tale ruolo ha finito per eclissare tutti i metodi convenzionali per la risoluzione del conflitto: la mediazione, le iniziative multilaterali, i tentativi regionali e una pacificazione patrocinata dall’ONU.”.

Alla proposta araba lo Stato ebraico apriva all’iniziativa, il Premier Olmert invitava i capi di Stato arabi in una discussione costruttiva.

Si chiedeva una possibilità di incontro esteso dal Quartetto /Usa, Ue, Russia, Onu) più un Quartetto arabo (Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) ed ovviamente Israele e l’ANP. E il Ministro degli Esteri Livni oltre all’ apertura ribadiva la necessità di un compromesso su basi realistiche.

In un comunicato il Ministero degli Esteri affermava che “[…] Bisogna che sia ben chiaro che la creazione di uno Stato palestinese dovrà essere la risposta alla rivendicazione palestinese del “ritorno”, così come la creazione di Israele ha dato risposta alla storica aspirazione del popolo ebraico a tornare nella terra patria. Allo stesso modo, deve essere ben chiaro che le linee del cessate il fuoco in vigore fino al giugno 1967 non erano confini permanenti, e che non v’era continuità territoriale fra Striscia di Gaza e la Cisgiordania. L’insistenza della Lega araba sui profughi e territorio rivela un desiderio non realistico di ottenere più di quello che c’era nel 1967. […] Tuttavia il conflitto non potrà essere avviato a soluzione finchè persistono le violenze. Israele incoraggia gli autentici moderati del mondo islamico a premere sulla leadership palestinese affinché cessi l’uso della violenza e oneri i suoi impegni, permettendo che emerga una prospettiva di pace sull’orizzonte politico”.

Il piano ancora oggi è sicuramente una piattaforma molto importante ma per essere credibile deve essere negoziabile su basi realistiche.

Così -come Olmert prima- Netanyahu oggi si trova nella posizione di non poter negoziare se il piano si mostra come un diktat “prendere o lasciare”. Occorre che proprio il mondo arabo con i suoi leader facciano una scelta coraggiosa e realistica a partire dal principio di modifica dei confini previa compensazione territoriale.

Scelta che inevitabilmente porterebbe ad una maggiore comprensione e ricreerebbe un clima di fiducia essenziale per la pace nella regione.

In questo re Abdallah potrebbe giocare un ruolo di primo piano per fare in modo che non si ripeta quello che l’ambasciatore saudita disse subito dopo Camp David 2000: “Dal 1948, ogni voltai che viene messo qualcosa sul tavolo dei negoziati, noi dicano di no. Poi diciamo di si, ma quando diciamo di si questo qualcosa non è più sul tavolo. E allora dobbiamo lavorare su qualcosa di meno importante. Non sarebbe ora di dire di si?... Se ci lasceremo sfuggire quest’occasione, non sarà una tragedia: sarà un delitto”.