venerdì 31 luglio 2009

QUESTIONE DI GERUSALEMME

Il conflitto arabo-israeliano-palestinese nasce da uno scontro nazionale e religioso. Da un punto di vista nazionale il punto di partenza è lo scontro tra il sionismo e il nazionalismo arabo e poi palestinese. Invece da un punto di vista religioso la Terra assume una connotazione sacra tanto per l’ebraismo che per l’Islam. Terra inalienabile discendente da un patto con Dio quindi incontestabile. Sebbene, ad oggi il principio “due popoli per due Stati” sia il cardine sul quale far girare tutta la questione per trovare una giusta soluzione quest’ultima connotazione rappresenta un vero punto di scontro. In particolare la formula espressa di uno Stato d’Israele riconosciuto che viva con uno Stato di Palestina su Gaza e Cisgiordania, trova uno dei tanti suoi nodi sulla questione di Gerusalemme.
Gerusalemme è la Città Santa per eccellenza: santa per la religione ebraica, santa per la religione cristiana e santa per la religione islamica. Come dire il contrario se quel luogo rappresenta il patto tra popolo eletto e Dio per gli ebrei? la predicazione di Gesù e le sue entrate al Tempio? il viaggio del Profeta Maometto dove ricevette la rivelazione?
La Città di Gerusalemme da un punto di vista strategico non è fondamentale; essa è situata lontano dal mare, senza corsi d’acqua e sorge su una collina. Intorno all’anno 1000 a.c. re David ne cambio il destino dopo la sua decisione di erigere un altare al Signore; Salomone fece costruire il Tempio trasformando Gerusalemme in capitale politica a città santa ebraica. Intorno al 70 d.c. i romani rasero al suolo il Tempio e sessantacinque anni dopo fecero lo stesso con la città mutandone il nome in Aelia Capitolina. Non si limitarono al solo cambiamento del nome ma si attivarono per cacciare gli ebrei ed erigere un tempio a Giove. L’intento dei romani non produsse l’effetto sperato: cancellare l’identità ebraica, anzi il legame tra città e spiritualità ebraica rimase inalterato. Ben presto ripresero le lotte e le varie battaglie. Nel frattempo la Città era diventata il fulcro spirituale per i cristiani e gli islamici da qui le crociate, fino al 1517 quando, la città, diventò una provincia dell’Impero Ottomano fino alla sua disintegrazione durante il primo conflitto mondiale. Dopo la Dichiarazione Balfour del 1917 e la sostituzione dal dominio ottomano con quello inglese la situazione subì un inasprimento, dovuto alla paura araba di una costituzione di uno Stato ebraico e la rivendicazione della Terra o parte di essa per costituire un proprio Stato per gli ebrei. Gli inglesi decisero di passare tutto all’Organizzazione delle Nazioni Unite, che stabilirono con la Risoluzione 181 del 29 novembre del 1947 la creazione di due stati uno ebraico e l’altro arabo, trasformando la Città di Gerusalemme in un “corpo separato” da sottoporre sotto un’amministrazione internazionale. Al Consiglio di amministrazione veniva dato il potere di redigere uno statuto per la città, inoltre dopo 10 anni la popolazione avrebbe dovuto esprimersi per il futuro mediante un referendum.
Le cose andarono diversamente a seguito del primo conflitto arabo–israeliano, dove per gli ebrei si trattò della prima guerra d’indipendenza mentre per gli arabi palestinesi si trattò della Nakba ossia catastrofe. Sul terreno le cose cambiarono: Gerusalemme venne tenuta nella parte occidentale mentre la Legione araba penetrò nella parte orientale della città inclusa la Città Vecchia. Gli accordi di armistizio tra Israele e Giordania prevedevano il diritto degli ebrei a recarsi al Muro del Pianto e al Monte degli Ulivi, dove vi è il cimitero ebraico, in realtà i giordani non permisero l’applicazione di quanto stabilito collegando la questione al ritorno dei rifugiati palestinesi alle loro terre. Gli israeliani non poterono recarsi al Monte del Pianto e gli arabo israeliani non poterono recarsi alla Spianata delle Moschee. La posizione dei giordani si trasformò poi scempio quando il cimitero ebraico venne profanato.
Dal canto suo, Israele decise di trasferire i propri ministeri e il Parlamento, Knesset, in città dove nel 1950 con una risoluzione fu dichiarata capitale dello Stato.
Nel 1967 con la guerra dei Sei giorni le truppe israeliane penetrarono nella parte orientale e nella Città Vecchia. Il comandante dei paracadutisti, Motta Gur, fece sventolare la bandiera con la Stella di David sul Monte, ma Dayan ne ordinò subito il ritiro. Gli ebrei poterono andare a pregare liberamente al Muro del Pianto e gli arabi residenti in Israele alla Spianata. Il governo di Levi Eshkol rassicurò i credenti di tutti i culti che avrebbe garantito l’accesso libero a tutti i luoghi Santi, inoltre l’amministrazione della Spianata delle Moschee fu lasciata in mano ai capi spirituali musulmani, per non provocare i risentimenti del mondo musulmano. Nel frattempo furono rimosse le barriere di divisione tra le due parti della Città e di fronte al Muro del Pianto furono espropriate diverse abitazioni per permettere ad un maggiore numero di ebrei di pregare di fronte al Muro. Il 27 giugno la Knesset approvò varie leggi che estendevano il diritto e l’amministrazione israeliana su Gerusalemme Est, quindi la costruzione di insediamenti attorno alla Gerusalemme abitata dagli arabi, e il 30 giugno 1980 la Knesset approvò un’altra legge dove esplicitamente veniva dichiarato che Gerusalemme era la capitale indivisa dello Stato.
Quando partirono i colloqui, che porteranno alla Dichiarazione dei Principi, la questione di Gerusalemme (insieme ad altre come profughi, coloni, confini) venne derogata a varie commissioni di lavoro che agirono in gran segreto per evitare le pressioni delle proprie opinioni pubbliche.
Particolarmente interessante è l’accordo Beilin e Abu Mazen, che prende il nome dai due esponenti di rilievo delle due parti. Il piano avrebbe dovuto servire come cornice in vista di una pace definitiva. Il piano prevedeva una Città di Gerusalemme indivisa e aperta, con la costituzione di due municipalità con estensione sui vari insediamenti e aree palestinesi, con ampi poteri, l’organismo sarebbe stato eletto separatamente dagli abitanti dei quartieri palestinesi e israeliani.
Israele avrebbe riconosciuto la parte amministrata dai palestinesi come la capitale dello Stato Palestinese (Al Quds) e i palestinesi avrebbero riconosciuto la parte amministrata dagli israeliani come la capitale dello Stato d’Israele (Yerushalayim). La parte della Città Vecchia e le restanti sezioni della parte orientale sarebbero state oggetto di studio di varie commissioni. Sui Luoghi Santi le parti si impegnavano a riconoscere e garantire la libertà di culto e di accesso nonchè veniva previsto uno status speciale sulla Città Vecchia. Con responsabilità delle due municipalità, ai palestinesi sarebbe stata riconosciuta la sovranità extraterritoriale sul Haram Al Sharif con l’amministrazione del Consiglio musulmano (Waqf). L’accordo Beilin–Abu Mazen fu completato pochi giorni prima dell’uccisione di Rabin e sotto l’offensiva terroristica di Hamas e Hezbollah. Solo nel 2000 a Camp David la questione venne riproposta, il presidente Clinton arrivò a proporre un accordo in base al quale ai palestinesi sarebbe stato riconosciuto l’Haram e i quartieri musulmani e cristiani, mentre agl’israeliani sarebbe stato riconosciuto il Muro Occidentale e i quartieri ebraici e armeni.
Clinton usò espressioni di sovranità, autorità funzionale, simbolo di sovranità. Davanti alle resistenze di tutte le parti in causa con il fallimento del vertice si arrivò a nuovi incontri fino a sfociare nell’incontro di Taba del gennaio 2001 dove fu trovata l’intesa: i luoghi Santi arabi sotto controllo palestinese e i luoghi Santi ebraici sotto controllo israeliano con vari gradi di estensione (sotto e sopra i luoghi ). Ma oramai sotto l’impulso della violenza tutto si complicava fino a raggiungere la più totale stasi e riporre i suddetti programmi/accordi a giacere nella speranza di un futuro migliore; eppure quei vertici e quelle discussioni hanno infranto diversi tabù in maniera tale che ogni nuovo accordo definitivo deve necessariamente partire da quei punti discussi.

mercoledì 22 luglio 2009

VINCERA’ IL POPOLO


PARLA SHIRIN EBADI, L’IRANIANA PREMIO NOBEL PER LA PACE


VINCERA’ IL POPOLO

“QUESTA E’ LA RIVOLUZIONE DELLA GENTE, IN IRAN SI E’ ORMAI DIFFUSA UNA MENTALITA’ DEMOCRATICA CHE FINIRA’ CON L’IMPORSI “.
“SONO LAICA MA IN CARCERE HO PREGATO MOLTO”.

Shirin Ebadi è stata il primo magistrato donna dell’Iran. Con la Rivoluzione del 1979 le fu revocata l’autorizzazione e solo nel 1992 le è stata data la possibilità di aprire uno studio di avvocato. Da allora difende, gratuitamente, i perseguitati politici e le vittime del regime. Come Zahra Bani-Yaghub, 27 anni, medico. Sedeva in un parco con il suo fidanzato quando fu arrestata dagli agenti della “buoncostume”. Due giorni dopo il corpo fu restituito alla famiglia: suicidio. Shirin Ebadi è riuscita a dimostrare che nella cella dove si trovava era impossibile impiccarsi. Anche per questo nel 2003 le è stato confermato il premio Nobel per la pace.
La Ebadi è arrivata in Italia grazie alla Fondazione “Alexander Langers” e ha parlato alla regione Toscana, al Senato e alla Camera. Continuerà a sensibilizzare gli animi su quanto sta accadendo, poi tornerà in Iran, dove per lei potrebbe iniziare una nuova stagione di lavoro oppure aprirsi la porta del carcere.
“Sono già stata in carcere. Mi hanno sempre tenuta in isolamento. Per fortuna sono di piccola statura, altrimenti non mi sarei potuta sdraiare nel buco di cemento dov’ero rinchiusa. Non ci davano un cuscino, un libro, nulla. Non c’erano finestre e la luce era sempre accesa, così si perdeva anche la cognizione del tempo. Alla fine si cominciano ad avere le allucinazioni: gli psicologi la chiamano “tortura bianca” “.

Nell’immaginario di molti, l’Islam corrisponde al male. Combattere il regime significa combattere l’Islam?

“La divisione tra religione e Stato è imprescindibile, lo dimostra il fallimento della Rivoluzione iraniana. In tal senso sono assolutamente laica. Da un altro punto di vista, però, sono molto legata alla mia estrazione musulmana. Nutro un profondo rispetto per la religione e, insieme a me, anche gli iraniani che ogni notte gridano “Iddio è grande” dai tetti delle case. Io non sarei sopravvissuta al carcere se non avessi potuto pregare. Laicità non significa disprezzo per la fede, anzi. E’ il solo modo per difendere la religione dalle strumentalizzazioni del potere”.

All’inizio lei ha sostenuto la Rivoluzione, poi ne ha preso le distanze…

“Innescare cambiamenti politici con rivoluzioni è inaccettabile, comporta un prezzo di sangue troppo alto e ingiustizie intollerabili. Però devo ammettere che ci sono stati anche risultati positivi nella coscienza del nostro popolo. Prima del 1979, l’Iran era asservito alla politica statunitense, una condizione di sudditanza che aveva fatto perdere alla popolazione ogni fiducia nel Paese. Con la Rivoluzione gli iraniani sono tornati ad essere artefici del proprio destino”.

Nel 1980 Khamenei, grande nemico di Moussavi, ha preso il posto di Khomeini come Giuda suprema.

“Khomeini aveva un carisma che l’attuale Guida non potrà mai avere”.

C’è chi ritiene che Moussavi, primo ministro dal 1980 al 1989, sia troppo legato all’establishment per guidare l’Iran a un cambiamento profondo.

“Non sono i politici i protagonisti della contestazione ma il popolo. La democrazia è una cultura, non si può imporre ma si sviluppa tra la gente. Gli ultimi avvenimenti hanno creato e diffuso in Iran una mentalità democratica che alla fine arriverà a imporsi. E’ solo questione di tempo. Alcuni politici potrebbero aiutare il processo, altri ritardarlo, ma bisogna lasciare al popolo l’iniziativa di scegliersi i propri rappresentanti”.

Lei entrerà in politica?

“Non sono un politico ma un difensore dei diritti umani. I politici sono alla testa del popolo, devono interpretarne le esigenze e guidarli verso la loro realizzazione. Io mi colloco dietro al popolo e la mia funzione è di controllare che i politici rispettino i diritti fondamentali della gente”.

L’idea di far coincidere lo sciopero generale con il periodo tradizionale di ritiro spirituale in moschea è molto significativa. Quali saranno adesso i prossimi passi della contestazione?

“E’ presto per dirlo. Però adesso tutti dovrebbero aver capito che l’Islam è contro la frode e le bugie, l’uccisione di innocenti, l’incarcerazione di 1.200 persone, in massima parte giovani. Nei filmati si vede che i cecchini hanno ucciso sparando dal tetto di palazzi governativi e la polizia ha attaccato alle tre di notte il dormitorio degli studenti universitari, facendo 5 vittime. Il regime non ha più giustificazioni dal punto di vista religioso e ha perso ogni credibilità dal punto di vista politico. D’altra parte il popolo non è solo, sempre più spesso i religiosi si schierano con i democratici. Anche l’Associazione degli insegnanti del seminario di Qom, una delle più importanti città sante, ha messo in dubbio l’imparzialità del Consiglio dei guardiani, che ha ratificato il risultato delle elezioni. I religiosi hanno anche chiesto che siano rilasciati gli arrestati e puniti coloro che hanno ordinato i pestaggi e le uccisioni”.

Cosa si aspetta da Europa e Usa?

“Più senso di responsabilità. Da quando si è saputo che Nokia e Siemens hanno venduto al regime la tecnologia per controllare l’identità degli utenti della Rete, suggerisco di boicottare i cellulari Nokia. Stiamo pensando di ricorrere contro le multinazionali in sede UE e Onu. Devono capire il male che hanno fatto. Gli agenti del regime hanno bloccato la mia casella di posta elettronica e l’hanno utilizzata per inviare false email a mio nome. Hanno creato un finto sito democratico, invitando le vittime dei pestaggi a denunciare le violenze, fornendo i loro nomi e cognomi, quindi li hanno tutti arrestati. Hanno imprigionato persino Ebrahim Yazdi, un oppositore di quasi ottant’anni, mentre era ricoverato in ospedale. La comunità internazionale è per noi importante. Vorremmo nuove elezioni sotto controllo dell’Onu. Quando l’Iran aderirà al Tribunale penale internazionale, io potrò andare in pensione. Però occorre che le istituzioni internazionali assumano fino in fondo il loro ruolo di garanti”.

Famiglia Cristina n° 28/2009, a cura di Ahmad Gianpiero Vincenzo.

sabato 4 luglio 2009

SIRIA - USA: LA SVOLTA?


La Siria è un importante Stato nello scacchiere mediorientale, ai tempi dell’Amministrazione Bush i siriani erano stati indicati come i reggenti di uno “Stato canaglia”. Il presidente siriano, Bashar al Assad , subentrato dopo la morte del padre, ha ereditato un paese dove necessitavano importanti riforme. Inizialmente, il presidente, aveva lanciato segnali in tal senso, basti pensare ad una stampa non più costretta a celebrare i fasti del regime o all’apertura di dibattiti politici e culturali nel proprio paese. Ben presto, però, il partito/Stato Baath con una nomenclatura ingessata in chiusure ideologiche fece sentire tutto il suo peso e la sua potente forza. In poco tempo dalla “Primavera di Damasco” si era passati ad un periodo molto buio.
Lo stesso Assad riferisce, nel corso di un’intervista al settimanale l’Espresso del 15 maggio 08, che “E’ inevitabile che sorgono contrasti quando si inizia un processo di rinnovamento a ritmi incalzanti. Questo conflitto all’interno del Baath è però già stato risolto nel congresso del 2005,[…] Ammetto che non tutto è stato ancora realizzato. Sul fronte della corruzione, per esempio, abbiamo ottenuto buoni risultati al vertice della piramide. Ma molto rimane da fare alla base, a causa di uno sviluppo amministrativo troppo lento”.
Con la nuova amministrazione USA, grazie ai primi interventi di Barack Obama: disimpegno dall’Iraq, chiusura del carcere di Guantanamo e discorso al Cairo, l’America si è presentata con una nuova credibilità e come una forza politica quindi non più come solo una forza militare. Un nuovo clima di speranza si è instaurato, tanto che Assad ha invitato Obama a recarsi per una visita in Siria. Assad non fissa paletti, dice di voler “parlare della pace nella regione” e sottolinea che “ogni vertice tra capi di stato è positivo anche se non si è d’accordo su tutto, si possono accorciare le distanze”.
E’ evidente che il presidente siriano cerca nella mediazione americana un aiuto concreto per far uscire dall’impasse il groviglio mediorientale. Un groviglio che vede la questione siro-israeliana e la questione israelo–palestinese ancora da risolvere.
Dal ’91 in poi, la questione siro-israeliana è stata, al centro di vari tentativi di dialogo e negoziazioni da parte dei rispettivi governi. I territori delle Alture del Golan e delle Fattorie di Shebaa sono stati al centro di negoziazioni, ma ancora ad oggi restano delle divergenze territoriali e sulla sicurezza dei due gli attori. Sulla questione palestinese, ancora oggi restano problemi ma è chiaro che la formazione di uno Stato di Palestina (Gaza e Cisgiordania) con il giusto riconoscimento è la soluzione. Il principio dei due popoli per due Stati con i diritti riconosciuti deve essere irreversibile.
La storia dei negoziati ha mostrato che scegliere solo di affrontare una sola questione senza concentrarsi nella sua globalità, e di conseguenza accantonare l’altra seppur temporaneamente, ha degli effetti molto negativi sia sull’approccio diplomatico che sulla disposizione dell’opinione pubblica verso gli inevitabili compromessi.
Con l’invito di Assad ad Obama, ed una eventuale visita di quest’ultimo, il presidente americano potrebbe dare attraverso la sua credibilità quella forza necessaria per riuscire ad infrangere i tabù, nei quali solo i falchi di tutte le parti interessate hanno da guadagnare, per far decollare la pace che l’intera regione merita.