giovedì 23 giugno 2011

Gilad Shalit: la differenza tra una democrazia e un gruppo terrorista




di Noemi Cabitza

Il prossimo 25 giugno ricorre il quinto anniversario del rapimento di Gilad Shalit, il caporale israeliano sequestrato da Hamas mentre era di guardia lungo il confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Cinque anni di sequestro durante i quali a nessuno è stato permesso di visitarlo e di accertarsi delle sue condizioni, nemmeno alla Croce Rossa Internazionale o alla Mezza Luna Rossa in aperto contrasto a qualsiasi legge internazionale.

Ma è chiaro che non ci si può aspettare che un gruppo terrorista rispetti le regole del Diritto Internazionale. E si, perché la storia di Gilad Shalit ci insegna proprio questo, ci insegna che non basta prendere il potere con la forza e occupare militarmente un territorio per essere considerati una entità politica e un governo regolare. Ci insegna che uno Stato democratico fa di tutto per liberare anche uno solo dei suoi cittadini o per riavere il suo corpo mentre un gruppo terrorista manda i suoi figli a farsi esplodere o a fare la parte della carne da macello anche solo per ottenere visibilità. Ci insegna che in uno Stato democratico i prigionieri godono di tutti i Diritti a prescindere dal loro crimine mentre in un territorio governato da un gruppo terrorista la parola “Diritti” non esiste, specie se sei ebreo, ma anche per coloro che osano in qualche modo ribellarsi alla logica terroristica di chi governa.

Cinque anni di sequestro, cinque anni di trattative per la liberazione di Gilad Shalit per la quale è stato offerto di tutto, persino la liberazione di mille terroristi palestinesi. E ogni volta i Hamas ha alzato il prezzo consapevole che uno Stato democratico come Israele avrebbe fatto di tutto per riabbracciare il proprio figlio. I terroristi avranno pensato: “se per riavere i corpi Ehud Goldwasser ed Eldad Regev, rapiti e uccisi in Libano da Hezbollah, gli israeliani hanno liberato un criminale assassino di bambini come Samir Kuntar, vuol dire che per riavere Shalit vivo sarebbero disposto a tutto”. Questo dimostra che nella trattativa per la liberazione di Gilad Shalit è la democrazia israeliana ad essere la parte debole, proprio perché democrazia. Se le parti fossero invertite Hamas non libererebbe nemmeno una capra in cambio di uno di loro, specie se un semplice palestinese senza alcun grado nella struttura terroristica. Ma per Israele non c’è il semplice cittadino, il semplice militare, o la persona di rango. Per Israele tutti i suoi figli sono uguali. Questo i terroristi di Hamas lo sanno e così ogni volta alzano il prezzo arrivando a richieste davvero irricevibili come la liberazione di Marwan Barghouti e di altri capi terroristi da aggiungere ai mille già ottenuti.

Sempre per lo stesso motivo e perché i terroristi sanno benissimo che Israele è particolarmente sensibile a qualsiasi cosa riguardi uno dei suoi figli, in questi cinque anni Hamas non ha lesinato gli sforzi mediatici per condizionare l’opinione pubblica israeliana. Film, cartoni animati, prese in giro irriverenti, fino ad arrivare l’altro giorno a ipotizzare di rapire una soldatessa israeliana per “dare a Shalit una fidanzata” (qui l’articolo che parla di questa aberrante iniziativa).

Paradossalmente, se Gilad Shalit è ancora in mano ai terroristi di Hamas è solo perché Israele è uno Stato altamente democratico che ha fatto della tutela dei suoi cittadini uno dei capisaldi della sua stessa esistenza. Questo, agli occhi dei terroristi, rende lo Stato Ebraico enormemente debole in quanto ricattabile. Peccato (per loro) che non sia così, anzi, è esattamente il contrario. Proprio la tutela dei suoi cittadini ha fatto di Israele il più grande caposaldo democratico in Medio Oriente e l’unico muro ancora in piedi di fronte all’avanzata islamista. Certo, questo comporta anche cedere ai ricatti dei terroristi, liberare assassini di bambini come Samir Kuntar solo per ridare alle famiglie i poveri corpi dei loro figli massacrati dalla barbarie terrorista, oppure trattare la liberazione di migliaia di terroristi per liberare un solo figlio di Israele. Però se Israele è il grande Stato democratico che è oggi, è proprio grazie a questi altissimi principi, oscuri e incompresibili ai suoi nemici, che invece non esitano a mettere donne e bambini a protezione dei loro covi.

Sono sicura che questa consapevolezza ha tenuto in vita Gilad Shalit in questi lunghissimi cinque anni di sequestro. Come sono sicura che Gilad sa che ogni ora di questi cinque anni qualcuno ha pensato a lui e a come farlo tornare a casa.

Ora il buon senso vorrebbe che chiudessi questo articolo con un appello ai terroristi per liberazione di Gilad Shalit. Non lo farò perché so benissimo che le mie, come quelle di altre decine di migliaia di persone, sarebbero solo parole al vento. Non farò nemmeno appelli al Governo israeliano perché so benissimo che stanno facendo tutto il possibile. Quello che invece voglio fare è un appello a tutti quei cosiddetti “pacifisti” che non perdono occasione per attaccare Israele e difendere i terroristi di Hamas: cosa vorreste per il futuro dei vostri figli? Un mondo governato con i principi di Hamas che non esisterebbe un istante a mettere un bambino (forse il vostro) a difesa di un loro covo ben sapendo che verrà ucciso, oppure vorreste un mondo dove per la tutela dei vostri figli uno Stato sarebbe disposto a qualsiasi sacrificio? Pensateci bene, perché è questa la differenza che c’è tra uno Stato democratico e un gruppo terrorista.

http://www.secondoprotocollo.org/?p=3152

lunedì 20 giugno 2011

La verità che deve essere insegnata sul 1948

Di Shlomo Avineri

Il primo settembre 1939 la Germania nazista invase la Polonia. Questa è la verità, non una “versione” dei fatti. Il 7 dicembre 1941 aerei giapponesi attaccarono e distrussero la flotta americana del Pacifico a Pearl Harbor. Questa è la verità, non una “versione” dei fatti.
Naturalmente esistono anche disparate versioni. Ad esempio, i tedeschi avevano alcune rimostranze contro la Polonia. Innanzitutto, che nel Trattato di Versailles del 1919 le potenze occidentali vittoriose avevano spogliato la Germania di territori con una grande popolazione di etnia tedesca, annettendoli alla Polonia (il “corridoio polacco”) e dichiarando città internazionale Danzica: una città che era tedesca da generazioni. E poi la Germania nazista accusava il governo polacco di discriminazioni ai danni dell’etnia tedesca sotto la sua giurisdizione. Le contestazioni della versione tedesca non erano tutte infondate, ma la verità dei fatti è chiara: il primo settembre 1939 fu la Germania ad attaccare la Polonia, non la Polonia ad attaccare la Germania.
Esiste anche una versione giapponese: gli Stati Uniti, insieme a Gran Bretagna e Olanda, avevano imposto un embargo sull’esportazione di ferro, acciaio e petrolio al Giappone dopo l’invasione giapponese della Cina. Il Giappone aveva proposto di negoziare su questi temi, ma gli Stati Uniti avevano rifiutato e il Giappone considerava l’embargo un atto d’aggressione che minacciava di paralizzare la sua economia. Si trattava di contestazioni di un certo peso e non si può ignorare il fatto che l’atteggiamento di America e Gran Bretagna racchiudeva un tocco di razzismo bianco contro la nascente potenza “gialla” nell’est asiatico. Ma la verità è che il 7 dicembre 1941 fu il Giappone ad attaccare gli Stati Uniti e non gli Stati Uniti ad attaccare il Giappone.
Perché tutto questo è importante? Nei recenti dibattiti sulla “Nakba” palestinese, è stato affermato che esistono due “versioni”, una israeliana e una palestinese, e che si dovrebbe prestare attenzione ad entrambe. Il che naturalmente è vero: accanto alle rivendicazioni israelo-sioniste circa il legame del popolo ebraico con la sua patria storica e la misera condizione in cui versavano gli ebrei, vi sono asserzioni palestinesi circa gli ebrei visti come un gruppo esclusivamente religioso e il sionismo come un movimento imperialista. Ma al di sopra e al di là di queste affermazioni resta il fatto – un fatto, non una “versione” dei fatti – che nel 1947 il movimento sionista accettò il piano di spartizione delle Nazioni Unite mentre la parte araba lo rifiutò e scese in guerra contro di esso. Decidere di entrare in guerra comporta delle conseguenze, esattamente come nel 1939 e nel 1941.
L’importanza del concetto appare chiara leggendo con attenzione l’editoriale che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha recentemente pubblicato sul New York Times. Nel suo articolo Abu Mazen cita la decisione di spartire il paese, ma non dice una sola parola sui fatti: chi la accettò e chi la rifiutò. Si limita a scrivere che “poco dopo le forze sioniste espulsero gli arabi palestinesi”: come quei tedeschi che parlano degli orrori dell’espulsione di 12 milioni di persone di etnia tedesca dall’Europa orientale dopo il 1945 senza citare l’attacco nazista alla Polonia; o i giapponesi che parlano di Hiroshima senza citare il loro attacco a Pearl Harbor. Questa non è una “versione” dei fatti: è semplicemente tacere la verità. Gli effetti non possono essere disgiunti dalle cause.
Il dolore dell’altro deve essere capito e rispettato, e i tentativi di impedire ai palestinesi di parlare di Nakba sono stupidi e immorali: nessuno impedisce ai discendenti dei profughi tedeschi dall’Europa orientale di sentirsi partecipi delle loro sofferenze. Ma come nessuno, nemmeno nelle scuole tedesche, si sognerebbe di insegnare una “versione” tedesca della seconda guerra mondiale, così anche la guerra del 1948 non deve essere insegnata come un conflitto fra opposte “versioni”. In fin dei conti esiste una verità storica. E, pur senza ignorare le sofferenze dell’altro, è in questo modo che temi così delicati devono essere insegnati.

(Da: Ha’aretz, 17.6.11)
http://www.israele.net/articolo,3162.htm

martedì 14 giugno 2011

Report: Document reveals Nakba Day clashes planned by Syria government

In his blog on the website of the U.K.'s Daily Telegraph newspaper, Michael Weiss reveals official Syrian document describing the dispatch of 20 buses sent to infiltrate Israel's border with Syria on the day when Palestinians mourn the creation of Israel.

By Haaretz

New evidence in the form of an official Syrian state document suggests that the Syrian regime purposefully orchestrated last month's Nakba Day clashes on the border with Israel, Michael Weiss reported in his blog on The Telegraph website on Monday.

Weiss, who is the spokesperson of Just Journalism, an organization that monitors coverage of Israel in British media, said that he was forwarded an official Syrian state document describing a meeting between Syria's chief of staff and chiefs of the Syrian military intelligence branches in the province located on the Israel-Syria border.

The document describes 20 buses which were to be dispatched on May 15, also known as Nakba Day, when the Palestinians mourn the creation of the State of Israel.

Two people were killed near Majdal Shams on the Syrian border and between three and 10 people were killed in Maroun a-Ras on the Lebanese border during the protests last month when demonstrators attempted to breach Israel's border.

The document says "Permission is hereby granted allowing approaching crowds to cross the cease fire line (with Israel) towards the occupied Majdal-Shamms, and to further allow them to engage physically with each other in front of United Nations agents and offices. Furthermore, there is no objection if a few shots are fired in the air."

The document goes on to describe a specific captain "from the military intelligence division" who is appointed to "the leadership of the group assigned to break-in and infiltrate deep into the occupied Syrian Golan Heights with a specified pathway to avoid land mines."

Those involved with the plan are then reminded not to carry any identification with them to the protest.

The IDF said that Syrian soldiers in the area did not get involved in the incident. Following the Nakba day incidents, Prime Minister Benjamin Netanyahu said that Israel was determined to defend itself and its sovereignty.

http://www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/report-document-reveals-nakba-day-clashes-planned-by-syria-government-1.367653

mercoledì 8 giugno 2011

Intervista a Shimon Peres – Tg1 e Rai News 24



A pochi giorni dalla visita in Italia, dove parteciperà alle celebrazioni per il 2 Giugno, il Presidente dello Stato di Israele, Shimon Peres, mi ha rilasciato una lunga intervista trasmessa dal Tg1 delle 20.00 e, in forma integrale, da Rai News 24. Per chi volesse leggerla, ecco la trascrizione integrale in italiano.

Claudio Pagliara. Abbiamo assistito alla calorosa accoglienza tributata dal Congresso americano al premier Netanyahu. Come presidente dello Stato di Israele, che significato gli attribuisce?

Shimon Peres. Chiaramente, l’espressione di amicizia ad Israele è molto significativa per tutti noi. Abbiamo una lunga tradizione di profonde relazioni con gli Stati Uniti. d’America: il Presidente, l’Amministrazione, il Congresso, la gente. Per noi è molto importante. Siamo molto lieti che il Congresso abbia riaffermato il suo sostegno ad Israele.

I palestinesi hanno reagito negativamente al discorso di Netanyahu. Lei crede che il premier avrebbe dovuto esprimere un chiaro sì ad un compromesso territoriale basato sui confini del ’67 , come suggerito da Obama?

Dobbiamo distinguere tra discorsi e processo di pace. Prima di tutto, penso che si possa arrivare ad una vera pace solo in un modo: attraverso un accordo. Una parte in causa non può imporre la pace all’altra. Può imporre altre cose, ma non la pace. E la pace è un processo Non avviene con uno o due discorsi. Il processo inizia con delle questioni aperte. Sono aperte perché c’è un disaccordo e bisogna trovare un terreno comune. Poi bisogna condurre il negoziato per cercare di superare le differenze. E’ vero che in questo momento siamo alle pre – condizioni. Dobbiamo creare l’atmosfera giusta affinché le parti partecipino al negoziato, ognuno con le sue posizioni. Il negoziato deve essere diretto, tra israeliani e palestinesi, animati dalla consapevolezza delle differenze e dalla volontà di superarle.

La sensazione in Europa è che il processo di pace sia infinito…

L’unità d’Italia ha richiesto 80 anni , perché siete così impazienti? E’ molto difficile unificare i popoli in questo piccolo fazzoletto di terra, ma stiamo facendo passi avanti, non restiamo fermi ai blocchi di partenza.. Innanzitutto, siamo d’accordo che la base del negoziato sono i confini del ‘67 e non quelli del ‘47 . Vengono chiamati con nomi diversi. Ovviamente, nessuno suggerisce che Israele torni ai confini del ‘67 perché le realtà sono cambiate; le dimensioni del ‘67, ecco ciò di cui si parla. E ora i palestinesi hanno un’Autorità nazionale. Non dimentichiamo che non c’è mai stato storicamente uno Stato palestinese. La Cisgiordania era nelle mani dei giordani, che non l’hanno data ai palestinesi; la Striscia di Gaza era nella mani degli egiziani, che non l’hanno data ai palestinesi. Noi abbiamo lasciato Gaza completamente e abbiamo favorito la nascita di una Autorità palestinese. In Cisgiordania, i palestinesi stanno sviluppando con successo la loro economia, stanno costruendo le loro forze di sicurezza, anche col nostro aiuto. Io vorrei che le cose andassero anche meglio, ma è difficile: i palestinesi sono divisi e la guerra ha creato tutta una serie di problemi. Ma sono convinto che le differenze si sono accorciate e che, con uno sforzo genuino, si possa arrivare alla pace.

L’Autorità Palestinese però ha scelto un’altra strada, il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Onu. Molti Paesi europei sono propensi a dire di sì. Perché lei crede che l’Europa farebbe meglio a non votare a favore?

Per creare una nazione, non basta dichiararlo. Ci vogliono atti, non parole. Affinché uno stato palestinese nasca, deve essere chiaro che non porrà una minaccia ad Israele. Nessuno vuole uno stato palestinese in guerra con lo stato d’Israele. Non avrebbe alcun senso. Così, bisogna pensare allo stesso tempo allo Stato palestinese e alla sicurezza di Israele. Ho chiesto al Segretario generale dell’Onu: “Vuole dichiarare la nascita dello Stato palestinese? OK! Può fermare il terrore? Può fermare il contrabbando di munizioni e razzi? Può fermare il trasferimento da parte dell’Iran di armi e denaro? Se la risposta è no, che significato ha la dichiarazione dello Stato? Ci sono due questioni connesse: una è l’indipendenza dello stato palestinese, l’altra la sicurezza di Israele. Se si fa una sola cosa delle due, niente accadrà. La strada è prima il negoziato diretto e poi l’approvazione delle Nazioni Unite

Israele non vuole trattare con un Governo di unità palestinese che includa Hamas. Ma Rabin usava dire: la pace si fa con i nemici….

E’ vero, ma solo se i nemici vogliono la pace. Finché i leader di Hamas agiscono da terroristi, accumulano missili, e li usano, non c’è alcuna possibilità. E in ogni caso, questa è anche la posizione del quartetto. Loro, non noi, hanno posto tre condizioni ad Hamas: rinuncia al terrore, riconoscimento di Israele, rispetto degli accordi firmati. Sono riconoscente al Presidente del Consiglio italiano per aver portato questa posizione in sede europea. E al vostro Presidente della Repubblica che la condivida. Se c’è terrore e pace allo stesso tempo, la pace è destinata a cadere vittima del terrore Se i palestinesi vogliono unirsi, ok. Siamo per un fronte unito, non siamo per la divisione, ma ciò che veramente li divide è l’avere due eserciti. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Palestinese, che io rispetto molto, ha detto: un popolo, un fucile. Non abbiamo obiezioni su questo. Ma se poi dice: un popolo, due fucili , uno spara l’altro parla, si contraddice..

Cosa pensa della primavera araba? Porterà più o meno stabilità in Medio Oriente?

Senza la primavera araba non ci sarà mai stabilità. Gli arabi devono entrare nel XXI secolo. Hanno ancora una economia tradizionale, nazionale e agricola, che li costringe alla povertà. I problemi del Medio Oriente sono la povertà, la mancanza di acqua. Non c’è soluzione senza tecnologie avanzate. Guardi Israele: non ha acqua e non ha molta terra eppure ha una delle agricolture più avanzate del mondo. Possono fare lo stesso, non ci sono differenze. Certo, la vecchia generazione è ancorata alle tradizioni, ma si sta facendo largo una nuova generazione che incarna la speranza di libertà. Questi giovani usano i computer, hanno accesso a Facebook, YouTube, internet, possono vedere sui loro schermi quando orribile sia la dittatura, quanto terribile sia la corruzione, quanta povertà ci sia a causa dell’ economia tradizionale. Paragonano la loro situazione a quella di altre giovani generazioni. E si chiedono: perché lì è così e qui no? Non sono più disposti a chiudere gli occhi. Ed è molto difficile mantenere le dittature quando la gente apre gli occhi. Non sono sicuro che vinceranno al primo round: hanno idee, ma l’establishment ha i fucili Basta vedere ciò che accade in Siria. Il governo spara e loro manifestano. Manifestano con forza, hanno tutto il mio rispetto. Per il bene del popolo arabo, per il bene della pace, per il bene di tutti noi, gli arabi entrino nell’era della libertà, dell’economia moderna! E’ una grande speranza. Anche mia personale. Auguro loro successo.

Il Paese dove iniziò la primavera, prima che si chiamasse così, fu L’Iran. Ora in Iran non ci sono manifestazioni. Netanyahu ha detto, tre giorni fa, che il tempo sta scadendo, riferendosi al programma nucleare. Cosa si può fare per fermarlo?

Innanzitutto, il problema Iran non è monopolio di Israele. L’Iran è riconosciuto come un pericolo da tutti i leader del nostro tempo, da Obama a Putin, dall’Italia alla Francia. Tutti sostengono che non si può vivere in un mondo dove armi nucleari siano nella mani di una leadership irresponsabile. Dobbiamo dunque guardare all’Iran come un problema del mondo, che non ricade sulle sole nostre spalle. Ciò che andrebbe fatto è rafforzare le sanzioni. Secondo me, è anche necessaria una campagna morale: stiamo combattendo per i nostri valori, non è una questione di soldi. Ahmedinajad viola i valori nei quali crediamo: impicca innocenti, incita all’odio. E’ terribile che non ci sia una rivolta morale. Gli iraniani avevano manifestato contro il regime, ma non sono stati aiutati, sono ancora indignati e alla fine penso che anche il regime iraniano dovrà fare i conti con le aspirazioni delle giovani generazioni. Non è un regime stabile.

L’Iran sostiene gli Hezbollah in Libano e sostiene Hamas qui. Gli Hezbollah stanno uccidendo il Libano. E Hamas ha diviso il popolo palestinese. Non c’è una sola cosa positiva che venga dai leader iraniani. Vogliono distruggere Israele, negano l’Olocausto, impiccano persone oneste, danno denaro e armi ad ogni terrorista e come se non bastasse vogliono la bomba nucleare. Dobbiamo prendere ogni misura per impedirlo, non dico Israele ma tutto il mondo. A ancor prima, dobbiamo dotarci di una strategia di difesa,. Ad esempio, un sistema antimissilistico che ci protegga dall’Iran da ogni lato, in modo che non sia in grado di lanciare missili. Sono convinto che è possibile.


Lei crede che scienza e tecnologia possono cambiare il volto del Medio Oriente. Che contributo può dare Israele in questo campo?

Israele il suo contributo lo dà con la sua stessa esistenza. Abbiamo una piccola porzione di terra, con poca acqua, senza petrolio e fino a poco fa senza gas, eppure la nostra economia va estremamente bene. Cosa abbiamo? Un popolo, tecnologia e una società libera. Una società libera non è solo una società dove c’è libertà di parola. È una società dove ci sono diritti uguali per tutti. Le faccio un esempio. Se le donne sono discriminate, abbiamo una nazione dimezzata. E una nazione dimezzata non progredisce. Se le donne sono discriminate, non hanno possibilità di avere una adeguata educazione. E se non sono istruite non possono istruire i loro figli. Gli uomini la fanno da padroni in famiglia Obama mi ha chiesto chi sono i più grandi oppositori della democrazia in Medio Oriente? Gli ho risposto: i mariti . Non basta introdurre nuovi macchinari, bisogna cambiare stile di vita. Le donne devono avere accesso all’educazione, alla scienza, alla tecnologia, a tutto. Così aiuteranno i loro figli ad essere ambasciatori del futuro invece che vittime del passato Sono certo che il mondo arabo farà questo passo. Nulla lo salverà dalla povertà, senza il pieno accesso di tutti alla scienza e alla tecnologia. 50 anni fa la Cina era povera come l’Egitto di oggi. Non è il denaro che ha salvato la Cina, è il cambio di sistema . Si possono sostituire presidenti e ministri: nulla cambierà: Bisogna cambiare il sistema per sfuggire dalla povertà.

Presidente, lei sarà ospite d’onore alla cerimonia del 2 giugno a Roma. Qual è lo stato delle relazioni tra Italia e Israele?

Si può davvero dire che tra Israele e Italia non c’è solo una relazione diplomatica, c’è quasi una storia d’amore. Prima di tutto, gli israeliani amano moltissimo gli italiani, il Paese, la gentilezza, la bellezza, la musica, la cultura. Non è scritto nei libri diplomatici ma è nei nostri cuori. Anche nei momenti più difficili, l’Italia è sempre stata speciale. Oggi le nostre relazioni sono estremamente buone, sia con Roma che col Vaticano. Per noi, l’Unità d’Italia, è un esempio. Mazzini e Garibaldi li studiamo sui nostri libri di storia: Mazzini con la sua mente raffinata, Garibaldi con il suo cavallo veloce. L’unità d’Italia è un evento mondiale. Sono veramente felice di partecipare a queste celebrazioni.

Lei ha appena incontrato qui in Israele il Presidente Napolitano, una visita che ha acceso la luce sui rapporti tra Risorgimento e sionismo. Che impressione ne ha avuto?

La forza del presidente Napolitano risiede nei suoi valori, nel fatto che è animato da onestà intellettuale e sentimento per la gente. E’ un esempio che si può governare con la buona volontà e non con la forza. Per questo è rispettato in ogni posto, non solo in Italia, ma anche qui. E quando ci siamo incontrati, dopo 5 minuti eravamo già amici. Siamo animati dalla stessa filosofia e vediamo le cose allo stesso modo. Ho il più alto rispetto per lui. Gli siamo molto grati di essere venuto qui per ritirare il premio Dan David, il cui conferimento è anch’esso una espressione di rispetto.

http://www.claudiopagliara.it/2011/05/intervista-a-shimon-peres-tg1-e-rai-news-24/#more-573

mercoledì 1 giugno 2011

LIBANO: ATTENTATO AGLI ITALIANI "Stiamo aspettando un attacco contro le forze dell’Unifil"

Un documento riservato delle Nazioni Unite «La Siria prepara ritorsioni per le sanzioni Ue»


LAO PETRILLI

NEW YORK
Un documento che doveva rimanere riservato - di cui La Stampa è venuta in possesso - toglie il velo a tutte le prudenti rassicurazioni ufficiali sulla missione in Libano. E’ il 26 maggio, la vigilia dell’attentato di Sidone. Un alto dirigente delle Nazioni Unite scrive decine di preoccupatissime righe, definite poi «premonitorie» dai suoi stessi colleghi e ora diventate punto di riferimento nell’inchiesta delle forze internazionali dell’Unifil sulla bomba che l’altro ieri quasi aveva ucciso i sei militari italiani - Francesco Mazzotta, Giovanni Maiello, Giovanni Memoli, Antonio Sorgente, Carmine D’Avanzo e Gaetano Travaglino raggiunti ieri sera da alcuni parenti partiti con un Falcon 900 del governo dall’aeroporto di Ciampino.

Non è vero, dunque, che nessuno se l’aspettava. Ci sono parecchi pezzi di carta che raccontano di questo allarme invece pubblicamente negato a livello internazionale. Soprattutto c’è un post-it, appiccicato sul documento confidenziale siglato CLX-058 e circolato su una manciata di scrivanie di uomini delle Nazioni Unite in due momenti diversi: prima dell’attentato e dopo.

Fra i dettagliati punti di quello che è di fatto un rapporto di intelligence, vi sono frasi evidenziate in giallo e un commento aggiunto a ordigno esploso laddove l’estensore del testo - anche dopo aver avuto conversazioni con le sue fonti libanesi - ricorda le ritorsioni minacciate dal ministro degli Esteri siriano Walid Al Mouallem per le sanzioni imposte dall’Europa al regime di Damasco, reo di reprimere con la violenza le proteste anti-Assad. «Molti in Libano interpretano» le sue parole «come un avvertimento» e «fra gli interessi che potrebbero essere presi di mira c’è la missione Unifil», avevascritto giusto il 26 maggio il funzionario delle Nazioni Unite. Un passaggio che ha fatto venire i brividi sulla schiena a chi, rileggendo il testo, nel far ricircolare l’analisi, ha scritto appena sotto a penna: «premonitorio?».

Un post-it che sembra l’indicazione della pista seguita adesso dagli investigatori. Quelli libanesi hanno fermato ieri due sospetti, un libanese e un palestinese, subito messi sotto torchio. L’attacco di Sidone, secondo quanto emerso dai primi interrogatori, sarebbe da mettere in relazione agli scontri del 15 maggio, alle frontiere con Israele.

Lo Stato ebraico aveva accusato Damasco di essere dietro quelle proteste avvenute a metà del mese, orchestrate - a suo dire - per distogliere l’attenzione da quello che sta succedendo in Siria. Che influenzi tutta l’area è comunque evidente a tutti. Il documento premonitore dell’Onu, intitolato non a caso «L’impatto della crisi siriana sulla situazione politica e sulla sicurezza in Libano», sottolinea che dopo aver applaudito le rivolte in altri Paesi arabi e taciuto a lungo sui fatti dell’immediato oltreconfine, il 25 maggio, a due giorni dall’attentato agli italiani, il leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha rotto il silenzio sulla Siria, dichiarando il suo appoggio al presidente Bashar Assad che «a differenza dei leader di Libia, Bahrein e Yemen ha avviato un percorso di riforme». Hezbollah, va detto, ha condannato l’attacco di Sidone. Fonti diplomatiche locali, però, «annotano e registrano la coincidenza temporale fra le affermazioni di Nasrallah e le notizie giunte poche ore dopo».

Va aggiunto che sempre il 25 maggio le forze libanesi hanno fermato un uomo che si accingeva a lanciare un razzo verso Israele. In altri due casi - in passato - la cosa aveva scatenato la rabbia delle forze più o meno oscure che non accettano le «interferenze». I tre precedenti attacchi all’Unifil, poi, non sono stati mai rivendicati. «E non ci aspettiamo che qualcuno metta la firma su quello di Sidone», dice adesso una fonte dell’intelligence.

La mano degli attentatori - seppure da loro ritratta - si vedrà probabilmente con le analisi e le indagini sull’esplosivo usato contro gli italiani: 10 chilogrammi, pare. La bomba era stata nascosta in un isolotto stradale, fra due corsie. E sarebbe stata azionata con un telecomando remoto. I jammer, quei dissuasori che emanando impulsi disinnescano molti ordigni a distanza, stavolta non hanno funzionato. Eppure erano accesi. Come mai? E, altra domanda alla quale occorrerà dare una risposta, dato che mettere una bomba lì, in prossimità di un grande snodo stradale, non è cosa che si fa se non si è molto sicuri. Chi ha protetto gli attentatori? Chi si è voltato dall’altra parte?

http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/404531/