sabato 29 gennaio 2011

Egyptian President Mubarak has never hesitated to use force against challenge to his rule





By Janine Zacharia
Washington Post Foreign Service
Saturday, January 29, 2011; 12:41 AM

CAIRO - For three decades, President Hosni Mubarak has relied heavily on a robust, repressive security force to ensure his rule. The unapologetic message he delivered on state television early Saturday gave no sign that he was shifting course.

He clung instead to the formula that has sustained him again and again since he inherited power in 1981, after the assassination of Anwar Sadat. The time-tested Mubarak approach has been to shift blame, usually to Egypt's shell of a government, while portraying his heavy-handed regime as a bulwark against chaos.

But after a day that saw Egypt's riot police overwhelmed, forcing Mubarak to turn to the armed forces to try to reimpose order, it was not at all clear that the former air force officer could withstand a challenge from unprecedented crowds who have demanded above all else that he step down.

Until now, Egypt's middle and upper classes have largely agreed with Mubarak "that the alternative to the regime was something much more dangerous,'' said Khaled Fahmy, chair of the history department at the American University in Cairo.

"But now there's a huge generation, or maybe two generations, brought up under Mubarak for whom the language of security has not delivered," Fahmy said.

A privileged and respected elite in Egypt, the armed forces have always been the backbone of power for Mubarak, who at 82 is battling an unknown illness but still cultivates jet-black hair intended to project youthful vigor. There was no indication that leading officers would abandon a leader to whom they owe their comfortable salaries and housing.

But the protesters' cheers that greeted the military vehicles rolling into Cairo and Alexandria on Friday clearly suggested a hope from Mubarak's opponents that the military this time would choose to side with the people.

"The question mark in my mind is, what are the generals doing?" said Bruce Riedel, a former CIA analyst now at the Brookings Institution in Washington. "Are they saying: We want to protect our prerogatives, but we are prepared to jettison Hosni Mubarak? That we don't know. That's what happened in Tunisia."

A conservative and cautious leader, Mubarak has proved a reliable American ally, winning him deference from successive U.S. presidents who have praised him as a partner in the quest for a broader peace in the Middle East. He has charmed generations of U.S. envoys with his rough-hewn humor and passion for squash, soccer and other sports.

But he has never appointed a vice president, reflecting a determination to remain Egypt's unchallenged leader, and he has never hesitated to use force to beat back challenges to his rule.

After inheriting power in 1981, Mubarak initially took steps to appear moderate, including releasing political prisoners and allowing a modicum of press freedom. But a wave of Islamist attacks in the 1990s prompted a fierce response from the security forces, leaving reforms stalled.

Since then, Mubarak has routinely defied the international community's call for greater openness. He has continued to rule under an emergency law that for decades has curtailed constitutional freedoms, and he has kept in place a ban on the Muslim Brotherhood, an Islamist organization that has long been Egypt's most powerful opposition force.

In 2005, when demonstrators protested during a constitutional referendum, security forces brutally suppressed protesters in what became known as "Black Wednesday."

In June, police kicked a young blogger to death in an Internet cafe for not turning over his identity papers.

Estimates of the size of Egypt's domestic security services, which include the police, riot police and numerous intelligence services, vary widely from 300,000 to 2 million. The military is estimated to number 340,000.

Beyond that vast security apparatus, Mubarak has relied for support on a bloated civil service of roughly 5 million workers who depend on him for government jobs. But his traditional base of laborers, hard-hit by economic reform, have abandoned him and taken to the streets.

Despite concerns about Mubarak's health, it had appeared likely until this week that he would seek a sixth term in presidential elections scheduled for this fall. For years, many Egyptians have suggested that they were resigned to the prospect that Mubarak would become president for life, or that he would somehow pass power to his son, as other Arab leaders have done.

But this week's shouts from protesters, chanting, "Gamal, tell your father Egyptians hate you," showed how unlikely that scenario now appears.

http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2011/01/28/AR2011012806330.html?hpid=topnews

Egitto, le paure della diplomazia "Se salta Mubarak cade il Nord Africa"

di VINCENZO NIGRO

Egitto, le paure della diplomazia "Se salta Mubarak cade il Nord Africa" Hosni Mubarak con Barack Obama
"Se cade Mubarak cade il Nord Africa". E' questo lo spirito catastrofico ma probabilmente realistico con cui i tradizionali sostenitori del governo egiziano (a partire da Stati Uniti, Italia, Francia e Germania) guardano a questo venerdì di preghiere e proteste al Cairo e in tutto l'Egitto. Il sistema di polizia egiziano non è come quello tunisino, non dipende da una limitata cricca familiare stretta intorno agli affari della famiglia di Ben Alì. E soprattutto, allertati dai segnali arrivati da Tunisia e Algeria, i generali del Cairo sono pronti alla battaglia di questo venerdì 28 gennaio.

Al momento sono stati bloccati Internet e i social network attraverso i quali i manifestanti si coordinano nelle proteste. Ma tagliare i telefoni, le comunicazioni, non riuscirà a modificare le condizioni di protesta politica e popolare che hanno portato anche l'Egitto a protestare contro il suo governo. L'unica possibilità per un'evoluzione non catastrofica della situazione in Egitto è che, assieme ad esercito, polizia e servizi segreti, il regime Mubarak mobiliti rapidamente un'azione politica, un'iniziativa che governi il cambiamento.

In Algeria ci sono voci di un rapido cambio di ministri all'interno del governo. Ma per l'Egitto non basterà un rimpasto, soprattutto se le manifestazioni di oggi rafforzeranno un'ondata di protesta che grazie alla rabbia accumulata è in grado di durare per giorni e giorni. Se salta Mubarak è il caos: 80 milioni di egiziani fuori controllo al confine di
Israele e al confine marittimo dell'Europa sono una seria incognita. Forse il regime non salterà. Ma se Mubarak dura, se la repressione continuerà immutabile, anche il caos continuerà. L'unica speranza è che i segnali di un vero cambiamento arrivino presto, siano rapidi, concreti e che riescano a convincere il popolo egiziano.

http://www.repubblica.it/esteri/2011/01/28/news/egitto_mubarak-11759895/

martedì 18 gennaio 2011


Libano, Hezbollah incriminato per omicidio di Hariri: ora tutto può succedere

Imprevedibile ciò che potrebbe accadere con la presentazione dell'atto di accusa. Intanto, girano voci e smentite di raduni dei sostenitori di Hezbollah

In un'analisi fornita da una fonte di Hezbollah al quotidiano "As-Sharq al-Awsat", si descrive l'impossibità di individuare quale sarà lo scenario socio-politico libanese conseguente all'emissione dell'atto d'incriminazione, da parte del Tribunale Speciale del paese, sull'assassinio dell'ex premier Rafiq Hariri, avvenuto nel 2005.

Intanto, sui media nazionali girano voci e smentite su possibili raduni, avvenuti a Beirut, dei sostenitori libanesi delle Forze dell'8 Marzo, coalizione guidata da Hezbollah. La testata "An Nahar", ha riportato le parole di una fonte delle forze dell'ordine locali, a raggrupparsi in strada per primi sarebbero stati gli elettori di Amal, il partito dello sciita Nabih Berri, presidente del Parlamento. Decine di persone avrebbero affollato i quartieri di Basta, Nweri, Beshara Khury, Ras al-Nabeh, Zaqaq al-Blat, Tayuneh, Salim Slam e Uzai.

Ma Ali Khreiss, un parlamentare vicino ad Amal, ha smentito le ipotesi di proteste di piazza da parte delle Forze dell'8 Marzo, spiegando, alla radio "Voce del Libano", non c'è alcuna decisione di scendere in strada nonostante l'entità della cospirazione", riferendosi alle indiscrezioni che imputano a Hezbollah la responsabilità dell'omicidio di Rafiq Hariri. Molte scuole sono rimaste chiuse per timore di un'esacerbazione della tensione.

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Libano, Hezbollah incriminato per omicidio di Hariri: ora tutto può succedere

venerdì 14 gennaio 2011

La sfida dei giovani umiliati dal Potere ora tremano i vecchi raìs del Maghreb




Nessun paese del Nord Africa è immune. Le rivolte delle nuove generazioni sono potenti detonatori che possono imporre svolte politiche di BERNARDO VALLI


La sfida dei giovani umiliati dal Potere ora tremano i vecchi raìs del Maghreb
SUI due versanti, su quello d´Occidente (Maghreb) come su quello d´Oriente (Mashreck), il mondo arabo conosce una stagione agitata. Scorre il sangue e vecchi raìs rischiano il posto. I regimi musulmani tra l´Atlantico e il Mar Rosso, molti dei quali allineati sulla costa meridionale del Mediterraneo, sono assai più stabili, o comunque longevi, di quel che generalmente si è indotti a pensare. E adesso, anche per l´età avanzata dei titolari, essi conoscono i guai della senilità, che non risparmia la politica, in particolare quando i vecchi governano società giovani, anzi giovanissime.

Il caso più caldo, anzi rovente, è quello della Tunisia, a qualche braccio di mare dalle nostre isole più a Sud. Il ritratto del 75 enne presidente, Zine el-Abidine Ben Ali, viene bruciato sulle piazze, tra Biserta e Sfax, da giovani nati nei (quasi) ventiquattro anni in cui egli ha troneggiato incontestato, senza interruzione, su tutte le pubbliche mura e pareti della Repubblica. A cancellare con rabbia la sua faccia sono ragazzi venuti al mondo quando lui era già al potere e che spesso muoiono (ne sono stati uccisi una settantantina negli ultimi giorni) con lui sempre al potere. Ma ancora per molto?

Quello che viene chiamato il "piccolo Maghreb", di cui fanno parte Marocco, Algeria e Tunisia (il " grande" comprende anche la Mauritania e la Libia), è ritenuto da molti economisti come il futuro naturale prolungamento dell'Europa, al di là del
Mediterraneo. Esso è infatti destinato a fornire, come già avviene, al Vecchio Continente molti dei giovani e dei lavoratori di cui avrà sempre più bisogno; e col tempo diventerà un grande serbatoio di consumatori. Di fatto lo è già per i nostri prodotti, scambiati con il gas algerino.

Con il "piccolo" Maghreb l'Europa ha in comune da adesso la malattia della disoccupazione giovanile. Le centinaia di migliaia di giovani che escono da istituti tecnici e facoltà universitarie non trovano un lavoro. E la crisi generale ha drasticamente ridotto la possibilità di emigrare in Europa. Il 62 per cento dei disoccupati marocchini, il 72 per cento dei tunisini e il 75 per cento degli algerini (secondo l'economista Lahcen Achy della fondazione Carnegie) hanno tra i quindici e i ventinove anni.

Insieme all'impossibilità di trovare un lavoro, questi giovani denunciano l'hogra, termine che esprime l'umiliazione inflitta dall'abuso del potere dei vecchi dirigenti, dal disprezzo e dall'arroganza delle autorità. Negli ultimi vent'anni la forte crescita economica (quasi sempre superiore al 5 per cento) ha reso più tollerabile il regime poliziesco tunisino. S'era creato qualcosa di simile a un vago patto sociale stando al quale l'autoritarismo e la corruzione venivano compensati dal rapido sviluppo, ammirato, invidiato dai paesi vicini.

La Tunisia dispone di una dinamica e spregiudicata classe imprenditoriale che ha saputo usufruire dei forti investimenti stranieri (francesi e italiani soprattutto) attirati da una mano d'opera abile, competitiva e al tempo stesso a buon mercato. Lo sconquasso finanziario e la stagnazione economica in Occidente hanno ridimensionato le attività e ridotto il numero dei turisti sulle accoglienti spiagge tunisine. Se la borghesia imprenditoriale, superprotetta, è rimasta fedele al regime, le classi intellettuali, spesso educate in Francia o influenzate dalla cultura francese, hanno sentito ancor più il peso di una società dominata da un vecchio presidente, circondato da una famiglia celebre per la sua avidità. I giovani hanno concretizzato con la rivolta quella frustrazione. I vicini paesi occidentali, quali la Francia e l'Italia, esitano ancora oggi a privare del loro sostegno un presidente "laico" che ha impedito ai loro occhi l'avvento di un potere islamico affacciato sul Mediterraneo. Una tolleranza complice e cieca poiché il fanatismo religioso prolifera dove regna l'ingiustizia ed esplode la collera popolare.

Nessuno dei Paesi del "piccolo" Maghreb è immune. Le rivolte giovanili sono potenti detonatori che possono imporre svolte politiche. Per ora questo non è accaduto, pur essendo la stagione propizia. La vecchia monarchia marocchina, favorita dal prestigio (anche religioso) di cui usufruisce, ha adottato negli ultimi dieci anni, da quando all'abile e spietato Hassan II è succeduto il più mite Maometto VI, un sistema che cerca con alterna efficacia, di aiutare i laureati e i diplomati disoccupati. Il sovrano, che regna e governa, con uno spirito liberale ben lontano da quello di una democrazia occidentale, ma anche ben distinto da quello dei vicini autoritarismi arabi, ha autorizzato la nascita di associazioni in cui si ritrovano i laureati senza lavoro. Sono una specie di sindacati che servono anche come sfogo, poiché i suoi membri si raccolgono quasi quotidianamente davanti al Parlamento per protestare. E il governo non è del tutto sordo perché puntualmente ne assume un certo numero nell'amministrazione statale. Nonostante la forti sperequazioni sociali il Marocco non ha conosciuto finora esplosioni giovanili, anche se si parla spesso di una fitta attività dei movimenti islamisti ansiosi di raccogliere e inquadrare lo scontento.

La vicina Algeria conosce invece puntualmente da anni sanguinose rivolte. Abdelaziz Bouteflika, 74 anni, è stato eletto presidente per la prima volta alla fine del secolo scorso e ha iniziato il terzo mandato nel 2009. E' un rappresentante della classe politica uscita dalla guerra di liberazione, conclusasi con l'indipendenza, nel 1962. Se è al potere lo deve all'esercito, come tutti i suoi predecessori. Ad eccezione di Ben Bella, che per tre anni scarsi ha cercato invano di incarnare una rivoluzione, in qualche modo fedele ai confusi progetti abbozzati durante la coraggiosa lotta armata. Grazie agli idrocarburi, che rappresentano il 97 per cento delle entrate, il regime (composto di militari in divisa o in abiti civili) mantiene il paese. L'hogra, ossia l'umiliazione imposta dallo strapotere delle autorità, è un'espressione di origine algerina. L'arroganza di chi comanda in Algeria non impedisce tuttavia alla gente di parlare (quasi) liberamente, al contrario di quel che accadeva fino a ieri nella vicina Tunisia.

A parte il Marocco, dove la dinastia garantisce un regolare passaggio sul trono, i paesi dell'Africa settentrionale soffrono del male della successione, poiché nessuno vuol lasciare il potere a un estraneo. E quindi non c'è un presidente che non abbia modificato la Costituzione al fine di fare un imprecisato numero di mandati. Muhammar Gheddafi governa in Libia dal 1969, da più di quarant'anni, ed essendo sulla soglia dei settanta pare stia riflettendo a quale dei due figli lasciare un giorno, ancora lontano, la guida del paese. Ma il caso più spinoso è quello egiziano. Nella più prestigiosa nazione araba, dove comincia il Maschrek (l'Oriente o il Levante arabo), Hosni Mubarak ha ottantadue anni ed è capo dello Stato da trentadue, dalla morte di Sadat. E la sua futura grande impresa riguarda come trasmettere il potere al figlio Gamal. La tragedia della piccola Tunisia, dove i giovani si ribellano al vecchio satrapo, può ispirare anche le grandi nazioni.

(14 gennaio 2011)
http://www.repubblica.it/esteri/2011/01/14/news/la_sfida_dei_giovani_umiliati_dal_potere_ora_tremano_i_vecchi_ras_del_maghreb-11204285/?ref=HRER2-1

mercoledì 12 gennaio 2011

In Libano è crisi di governo. 10 ministri di Hezbollah si dimettono contro la sentenza sull'omicidio Hariri.

Il governo di unità nazionale in Libano è in crisi. Dieci ministri di Hezbollah si sono dimessi nel giorno in cui il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riceve alla Casa Bianca il primo ministro libanese, Saad Hariri, per discutere, tra l'altro, dell'inchiesta internazionale sulla morte del padre di Saad, Rafik, ucciso nel 2005 in un attentato. Il verdetto del Tribunale speciale per il Libano dovrebbe arrivare a breve e la condanna del "Partito di Dio" è altamente probabile. Per questo i ministri di Hezbollah hanno abbandonato l'esecutivo.

Hezbollah lascia governo
Dieci ministri dell'opposizione libanese guidata dal movimento sciita Hezbollah hanno presentato poco fa le dimissioni, aprendo così ufficialmente la crisi del governo di unità nazionale del premier Saad Hariri. L'annuncio, in diretta televisiva, è stato dato da uno dei ministri dimissionari, mentre il premier Saad Hariri arrivava alla Casa Bianca a Washington per un incontro con il presidente Barack Obama.

L'apertura di una crisi di governo (che conta 30 ministri) era già nell'aria ieri sera, quando esponenti dell'opposizione avevano affermato che l'iniziativa avviata a luglio da Siria e Arabia Saudita per superare lo stallo politico in Libano «è giunta ad un punto morto».
Uno stallo provocato dal braccio di ferro con il movimento Hezbollah sulla richiesta al premier Hariri di interrompere la collaborazione con il Tribunale speciale per il Libano (Tsl) che indaga sull'assassinio nel 2005 dell'ex premier Rafik Hariri.

Il Tsl ha sede in Olanda ed è presieduto dal giudice italiano Antonio Cassese, e prevedibilmente nelle prossime settimane dovrebbe giungere all'incriminazione di alcuni membri dello stesso Hezbollah. Questa mattina, i ministri dell'opposizione avevano esplicitamente minacciato di dimettersi se non fosse stata accolta la loro richiesta di convocare una riunione dell' esecutivo per prendere una decisione relativa proprio alla questione del Tribunale internazionale, che Hezbollah definisce «un progetto israeliano» per screditarlo.

L'Iran non riconosce verdetto
Sayyed Nasrallah, leader del partito radicale sciita, ha aggiunto che non permetterà nessun arresto dei membri della sua organizzazione. Anche l'Iran nelle scorse settimane è sceso in campo a fianco degli Hezbollah: l'ayatollah Khamenei ha affermato che il verdetto del tribunale Onu sarà «nullo e privo di valore». Malgrado il pressing di Hezbollah il premier Saad Hariri ha rifiutato di disconoscere il Tribunale speciale. Di qui la minaccia di aprire una crisi politica, giunta oggi da Hezbollah.

Obama sostiene Hariri jr.
I rischi della situazione libanese verranno discussi oggi nell'incontro alla Casa Bianca. Obama «incontrerà oggi il primo ministro Hariri per parlare del sostegno Usa alla sovranità, indipendenza e stabilità del Libano», ha spiegato il portavoce Robert Gibbs. Il presidente americano ha discusso per telefono della crisi libanese anche con il re saudita Abdallah, che si trova a New York dove è stato sottoposto recentemente a un'operazione chirurgica.
Analoghi colloqui si sono svolti tra il primo ministro Hariri e il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, la quale si è definita «fortemente preoccupata per gli attuali tentativi di destabilizzare il Libano».

http://www.ilsole24ore.com/art/notiz...?uuid=AYaQKCzC

sabato 8 gennaio 2011

Il Risorgimento d'Israele

Raccontare la vera storia del risorgimento d’Israele
Di Benny Levy



Quasi ogni giorno ci viene detto che si va deteriorando la posizione d’Israele nell’opinione pubblica mondiale. La cosa ha gravi implicazioni concrete, al punto di arrivare al rigetto del diritto d’esistere d’Israele. E Israele non sembra in grado di frenare il fenomeno. Molti tendono ad attribuire la colpa allo scarso inglese di alcuni rappresentanti diplomatici o al fatto che il portavoce delle Forze di Difesa israeliane non riesca a fornire in tempo “filmati positivi”. Ma sono sciocchezze. Se Israele sta perdendo questa battaglia è perché punta a spiegare le proprie ragioni con argomenti sul piano operativo, mentre la domanda che il mondo pone è: “cosa diavolo ci fanno gli ebrei laggiù”?
Un importante esperto israeliano di pubbliche relazioni tornato di recente da una campagna promozionale all’estero ha lamentato che “semplicemente non ci capiscono”. Bene, e perché dovrebbero? La maggior parte dei cittadini del mondo in quest’epoca non ha alcuna dimestichezza con il legame storico fra il popolo ebraico e la Terra d’Israele. Molti ci considerano dei rifugiati senza alcuna relazione con questo territorio, fuggiti dalle sofferenze in Europea per trovare rifugio, in modo del tutto casuale, in Palestina. Quando il presidente americano Obama ha affermato, nel suo famoso discorso al Cairo (luglio 2009), che l’aspirazione a una patria ebraica nasce dalla storia innegabilmente tragica degli ebrei, molti qui in Israele si sono sentiti offesi. “Perché dice così? Noi non siamo qui per via della Shoà”. Ma Obama non ha colpa. Dopo tutto la Shoà è diventata la narrativa con cui Israele presenta se stesso a tutti i suoi ospiti (e anche ai suoi stessi figli). Non è forse vero che Obama venne portato direttamente al Museo della Shoà di Yad VaShem appena atterrato qui? Non è forse vero che è lì che portiamo i milioni di nostri ospiti per spiegare loro “chi siamo, da dove veniamo e cosa ci facciamo qui”? L’usanza di portare gli ospiti d’Israele innanzitutto a Yad VaShem comporta un messaggio chiaro e forte: crea l’impressione che la Shoà sia la ragione e la giustificazione per l’esistenza dello stato; pone Israele sul podio della vittima, del profugo alla ricerca di un rifugio.
È vero invece che i pilastri d’Israele vennero piantati decine di anni prima della Shoà. Le sue fondamenta affondano nell’idea sionista. Israele è prima di tutto un’epopea di risorgimento nazionale. La storica Barbara Tuchman scrisse una volta che Israele è la sola nazione al mondo “che oggi governa se stessa nello stesso territorio, sotto lo stesso nome e con la stessa lingua e religione con cui si governava tremila anni fa”.
Tutta la storia di Israele – il risveglio nazionale e il ritorno a quell’antica terra patria che è il solo luogo dove l’idea dell’indipendenza ebraica si sia mai materializzata e si possa mai materializzare – è affascinante ed emozionante. C’è chi la ascolta, e ammorbidisce le avversioni. “Avete argomenti che non conoscevo per niente” è una frase che ho sentito decine di volte da persone a cui era stata raccontata questa storia per la prima volta. Il nostro diritto a vivere qui è insito in questa storia.
Il popolo ebraico è tornato nella sua mai abbandonata patria storica in modo consapevole e a buon diritto, non per pura combinazione. Israele, pur con tutti i suoi difetti, è la stupefacente realizzazione di una visione di 3.800 anni di nazionalismo ebraico. Essere una nazione che persegue giustizia e filantropia è l’essenza dell’ebraismo e la ragione dell’antico patto: “Camminerò fra voi e sarò il vostro Dio, e voi sarete il mio popolo”.
L’ebraismo è una ricetta per la conduzione di una nazione e degli individui che la compongono. La sua attuazione richiede l’esistenza di una struttura nazionale ebraica, e non vi è luogo più naturale e giusto della Terra d’Israele per la conduzione di questo stato ebraico.
Lo stato d’Israele non è ebraico al 100% né democratico al 100% (non esiste nulla del genere nella realtà). E tuttavia è lo stato più ebraico-e-democratico del mondo. Solo in Israele i due aspetti dell’ebraismo – quello religioso e quello nazionale – si possono realizzare, e l’impegno verso l’ebraismo assume il suo pieno significato.
Questa è la nostra vera storia, e senza di essa Israele non ha scopo, non ha giustificazione e non ha speranza. Far conoscere questa storia al resto del mondo è compito arduo; eppure, senza questo, sarà impossibile riscattare la posizione e l’immagine d’Israele, qui come all’estero.

(Da: YnetNews, 27.12.10)

Nella foto in alto: moneta del terzo anno della rivolta ebraica guidata da Simeon Bar Kochba (132-135 e.v.) con la rappresentazione della facciata del Tempio e, sul retro, la scritta: “Simeon/per la libertà di Gerusalemme”.

http://www.israele.net/articolo,3029.htm

domenica 2 gennaio 2011

L'Onu verso la condanna di Hezbollah per l'omicidio Hariri. Iran: la sentenza non ha valore

L'Iran sta preparando la reazione all'imminente sentenza del tribunale speciale dell'Onu per il Libano sull'uccisione dell'ex primo ministro libanese Rafik Hariri. L'ayatollah Ali Khamenei, guida suprema di Teheran, lunedì ha detto che la sentenza del tribunale dell'Onu (che ha puntato il dito accusatore prima sulla Siria e poi su Hezbollah) «è nulla e priva di valore».

Anche Hezbollah ha rilasciato una dichiarazione – secondo quanto riporta il giornale libanese The Daily Star e la Press Tv iraniana – in cui accusa il Tribunale speciale dell'Onu di «preparare una falsa sentenza che coinvolgerebbe alcuni membri di Hezbollh stesso» nell'assassinio dell'ex primo ministro Rafik Hariri. Sayyed Nasrallah, leader di Heazbolah, ha poi aggiunto che non permetterà nessun arresto di alcun membro della sua organizzazione.
Pronta la reazione del figlio di Hariri, Saad, oggi primo ministro libanese che ha detto di rispettare le posizioni della Guida suprema iraniana Ali Khamenei ma «che le risoluzioni internazionali sono risoluzioni internazionali» e quindi vanno rispettate.

Hariri si è già recato recentemente a Damasco - secondo fonti riservate - per invitare la Siria e proseguire nell'opera di mediazione insieme ai sauditi per evitare lo scoppio di nuovi conflitti nella regione.

Ma Teheran ha deciso, in vista del prossimo incontro a Istanbul sul suo controverso piano nucleare, di soffiare sul fuoco e in occasione della sentenza del tribunale dell'Onu (data ormai per imminente dagli iraniani) per minacciare di far esplodere la protesta prima a Beirut, dove alcuni analisti paventano addirittura un colpo di stato per imporre uno stato islamico con a capo Nasrallah e cacciare i filo-occidentali) e poi far aumentare la tensione al confine con Israele e far naufragare senza appello i negoziati di pace israelo-palestinesi.

Non a caso nel corso del suo recente viaggio in Libano il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha chiarito cosa intenda quando definisce il sud del Libano «la frontiera dell'Iran con Israele». In conferenza stampa nel palazzo presidenziale di Baabda Ahmadinejad ha detto che «è necessario liberare la Palestina, occorre porre fine all'occupazione israeliana delle terre palestinesi, siriane e libanesi, in caso contrario l'area non vedrà mai la luce». Retorica populista per accreditarsi presso le masse arabe e sunnite?

Può darsi, ma resta il fatto che Ahmadinejad in Libano si è comportato come un signore in visita al suo feudo che non tollererà una sentenza che metterebbe sul banco degli accusati proprio Hezbollah, il suo fedele alleato nel paese dei cedri. Ecco perché da Teheran la guida suprema Khamenei ha messo le mani avanti dichiarando in anticipo «nullo e senza valore» il prossimmo verdetto del tribunale speciale dell'Onu. In caso contrario Teheran è pronta a dar fuoco alle polveri al confine meridionale.

Vittorio Da Rold, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-12-31/lonu-condanna-hezbollah-lomicidio-110922.shtml?uuid=AYBPqxvC