venerdì 18 dicembre 2009

Ecco lo Stato rifiutato dai palestinesi


Ecco lo Stato rifiutato dai palestinesi di Aluf Benn

L’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert era pronto a dare ai palestinesi terre tolte alle comunità israeliane confinanti con la striscia di Gaza e alle riserve naturali dei colli di Giudea in cambio dell’annessione a Israele dei principali blocchi di insediamenti in Cisgiordania.
Secondo la mappa proposta da Olmert, pubblicata per la prima volta giovedì da Ha’aretz, il futuro confine fra Israele e striscia di Gaza sarebbe stato corso a ridosso di kibbutz e moshav come Be'eri, Kissufim e Nir Oz i cui terreni sarebbero stati ceduti ai palestinesi. Olmert proponeva inoltre di cedere al futuro stato palestinese terre nella valle di Beit She'an presso il kibbutz Tirat Tzvi, sui colli di Giudea presso Nataf e Mevo Betar, e nelle zone di Lachish e della foresta di Yatir. Complessivamente queste aree avrebbero comportato il trasferimento allo stato palestinese di 327 kmq ritagliati all’interno della Linea Verde (a titolo di riferimento, la striscia di Gaza misura 360 kmq).
Olmert mostrò questa mappa al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) nel settembre dell’anno 2008. Abu Mazen non diede alcuna risposta e i negoziati si fermarono. In un’intervista martedì scorso ad Ha’aretz, Abu Mazen ha detto che Olmert gli aveva mostrati diverse bozze della mappa.
La versione pubblicata svelata ora da Ha’aretz si basa su fonti che hanno ricevuto informazioni dettagliate circa le proposte di Olemrt.
Olmert intendeva annettere a Israele il 6,3% della Cisgiordania, in aree che ospitano il 75% della popolazione ebraica che vive in quel territorio. La sua proposta avrebbe comportato lo sgombero di decine di insediamenti dalla valle del Giordano, dai colli della Samaria orientale e dalla regione di Hebron. In cambio dell’annessione a Israele di Ma'aleh Adumim, del blocco Gush Etzion, di Ariel, di Beit Aryeh e degli insediamenti attigui a Gerusalemme, Olmert proponeva il trasferimento al territorio dei palestinesi di terre equivalenti a un 5,8% della Cisgiordania più una corridoio garantito fra Hebron e striscia di Gaza con un’autostrada che sarebbe rimasta parte del territorio sovrano d’Israele ma dove non vi sarebbe stata presenza israeliana.
Olmert diede a Danny Tirza, che era stato il principale funzionario impegnato nella pianificazione della barriera difensiva, il compito di sviluppare la mappa che avrebbe stabilito il confine definitivo fra Israele e stato palestinese.
La proposta di annessione di blocchi di insediamenti corrisponde in gran parte al tracciato della barriera difensiva. Nella sua proposta di scambio territoriale, Olmert boccia l’idea circolata in precedenza di trasferire ai palestinesi i colli orientali di Lachish, optando piuttosto per la creazione in quell’area di comunità destinate ad accogliere gli israeliani sgomberati dalla striscia di Gaza. Inoltre preferiva cedere ai palestinesi terreni agricoli attorno a Gaza, anziché le dune di Halutza presso il confine con l’Egitto.
Il piano Olmert avrebbe comportato lo sgombero di decine di migliaia di coloni e la rimozione di emblemi della presenza israeliana in Cisgiordania come Ofra, Beit El, Elon Moreh e Kiryat Arba, oltre alla comunità ebraica dentro la città di Hebron. Olmert raggiunse un’intesa verbale con l’amministrazione Bush in base alla quale Israele avrebbe ricevuto aiuti finanziari per sviluppare il Negev e la Galilea allo scopo di assorbirvi parte dei coloni sgomberati dalla Cisgiordania. Altri sfollati sarebbero stati insediati in nuove abitazioni da costruire nei blocchi di insediamenti annessi a Israele.
Per completezza, va detto che l’ufficio di Olmert, interpellato da Ha’aretz sulla divulgazione di questo piano, ha dato la seguente risposta: “Il 15 settembre 2008 (Olmert) mostrò al presidente Abu Mazen una mappa che era stata preparata sulla base delle decine di colloqui che i due avevano avuto nel corso di intensi negoziati dopo il summit di Annapolis. La mappa era concepita per risolvere il problema del confine fra Israele e il futuro stato palestinese. La consegna della mappa ad Abu Mazen era subordinata alla firma di un accordo globale e definitivo con i palestinesi affinché essa non venisse utilizzata come posizione di partenza in futuri negoziati che i palestinesi cercassero di condurre. In definitiva Abu Mazen non diede il suo assenso per un accordo completo, e dunque la mappa non gli venne consegnata”. L’ufficio di Olmert ha anche detto ad Ha’aretz che “naturalmente, per ragioni di responsabilità, non possiamo parlare del contenuto di quella mappa e dei dettagli della proposta. Va tuttavia sottolineato che, fra i dettagli contenuti nel vostro quesito, figura un numero non trascurabile di imprecisioni che non corrispondono alla mappa che venne infine mostrata (ad Abu Mazen)”.

(Da: Ha’aretz, 17.12.09)

Nell’immagine in alto: la mappa della proposta di Olmert secondo Ha’aretz. Per una versione più grande in .pdf:
http://www.haaretz.com/hasite/images/iht_daily/D171209/olmertmap.pdf
(Fonte: http://www.israele.net)

mercoledì 21 ottobre 2009

La stasi del processo di pace in Medio Oriente

di Salvatore Falzone

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Molti sono concordi nel ritenere che in Medio Oriente si sta vivendo una situazione di stasi politica. E’ vero. Re Abdallah di Giordania, uomo moderato, da tempo afferma che la “pace è a rischio” nella regione.

In un’intervista rilasciata al quotidiano Repubblica del 19 ottobre denuncia come la situazione potrebbe degenerare se non si rilancia il processo di pace. Il re è convinto che serve una pace globale che sia “[…] complessiva con 57 nazioni (Lega Araba e Conferenza islamica), cioè un terzo del mondo, che oggi non riconoscono Israele”. E indica un limite temporale: “la finestra della speranza, fra breve, si chiuderà. Entro la fine del 2010, se Israele non crederà nella soluzione dei due Stati, svanirà la possibilità di un futuro Stato palestinese, per questioni geografiche: i territori già sono frantumati in cantoni. E se voi e io dovessimo ritrovarci qui, a porci le stesse domande, temo che la nostra generazione non vedrà la pace”.

Il re vuole la fine dell’occupazione, sostiene la nascita di uno Stato palestinese indipendente che viva a fianco allo Stato d’Israele e pone l’accento sull’indipendenza dei palestinesi accompagnata dallo sviluppo economico. Abdallah teme che la politica di Netanyahu sul mancato congelamento delle colonie possa trasformarsi in un escamotage per rimandare la nascita e la creazione di uno Stato di Palestina.

“Serve una soluzione fondata sui due Stati, e questo noi stiamo aspettando”, dichiara.. Ma Abdallah sa anche che tutte le proposte e richieste presentate da Israele, da Rabin a Netanyahu, troppo spesso non hanno trovato risposta politica realistica da parte degli arabi.

Il premier Netanyahu accetta la formula di due popoli per due Stati e chiede il riconoscimento dello Stato d’Israele come giusta aspirazione del popolo ebraico e uno Stato di Palestina non militarizzato. Richieste, che sino ad oggi con un panorama palestinese diviso e un movimento Hamas che non accetta nessuna visione politica, non hanno trovato delle risposte. L’approccio dei palestinesi rende ingessata la situazione con conseguenze molto negative per la rappresentanza e credibilità dei palestinesi.

Il mondo arabo dal ’48 sino a oggi ha presento solo due piani di pace.

Il primo è il Piano Fez del 1982 e il secondo il Piano Saudita del 2002 riproposto nel 2007.

Si tratta di un piano che stabilisce la completa restituzione dei Territori Occupati in Cisgiordania con il completo sgombero delle colonie e la restituzione totale delle Alture del Golan; il diritto al ritorno dei profughi in Israele e un accordo per far nascere lo Stato palestinese nella Striscia di Gaza e Cisgiordania, con capitale Gerusalemme Est. Tutto ciò porterebbe, per gli arabi, alla completa normalizzazione dei rapporti tra arabi e israeliani e la fine del conflitto.

In poche parole i Paesi arabi chiedono il ritorno alla geografia precedente al conflitto dei Sei Giorni del ’67.

In molti si chiedevano se il Piano era solo di “facciata” o se era aperto agli inevitabili compromessi per la sua riuscita. C’è da dire che, nel 2002 a Beirut in una riunione della Lega Araba, la Casa regnate Saudita si era impegnata nella stesura di questo piano, ma all’epoca Israele non prese in considerazione il Piano.

L’iniziativa veniva vista come una risposta all’opinione pubblica mondiale agli attacchi dell’11 settembre, dove la maggior parte degli attentatori avevano la cittadinanza saudita, ma al contesto della seconda intifada, accompagnata dal terrorismo non poteva di certo favorire un approccio favorevole israeliano. Nessun Paese quando si sente sotto assedio è disposto a trattare se prima non si ferma la violenza.

Nel 2007, invece, l’iniziativa è vista come una conferma da parte saudita del sunnismo in risposta alla paura di una forte penetrazione sciita iraniana nella regione, alla luce dei rapporti tra Hamas (sunnita) e l’Iran sciita, senza dimenticare la guerra dei trentaquattro giorni con gli sciiti Hezbollah.

Il Piano è anche visto come una risposta regionale in contrapposizione alla politica americana di aiuto allo Stato ebraico.

La percezione araba e riassunta dal Professor Naseer Aruri in un suo libro ha scritto: “Un aspetto singolare della politica americana nei confronti del conflitto arabo-israeliano (dall’occupazione del 1967) è stata l’insistenza con cui gli USA hanno dichiarato di essere gli arbitri principali o i soli pacificatori, quando in realtà non sono stati altro che cobelligeranti. Parallelamente al rafforzamento costante della special relationship tra USA e Israele (trasformata in un’opportuna alleanza strategica) durante e dopo la guerra fredda, si è sviluppata una preminenza del ruolo diplomatico americano. Tale ruolo ha finito per eclissare tutti i metodi convenzionali per la risoluzione del conflitto: la mediazione, le iniziative multilaterali, i tentativi regionali e una pacificazione patrocinata dall’ONU.”.

Alla proposta araba lo Stato ebraico apriva all’iniziativa, il Premier Olmert invitava i capi di Stato arabi in una discussione costruttiva.

Si chiedeva una possibilità di incontro esteso dal Quartetto /Usa, Ue, Russia, Onu) più un Quartetto arabo (Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) ed ovviamente Israele e l’ANP. E il Ministro degli Esteri Livni oltre all’ apertura ribadiva la necessità di un compromesso su basi realistiche.

In un comunicato il Ministero degli Esteri affermava che “[…] Bisogna che sia ben chiaro che la creazione di uno Stato palestinese dovrà essere la risposta alla rivendicazione palestinese del “ritorno”, così come la creazione di Israele ha dato risposta alla storica aspirazione del popolo ebraico a tornare nella terra patria. Allo stesso modo, deve essere ben chiaro che le linee del cessate il fuoco in vigore fino al giugno 1967 non erano confini permanenti, e che non v’era continuità territoriale fra Striscia di Gaza e la Cisgiordania. L’insistenza della Lega araba sui profughi e territorio rivela un desiderio non realistico di ottenere più di quello che c’era nel 1967. […] Tuttavia il conflitto non potrà essere avviato a soluzione finchè persistono le violenze. Israele incoraggia gli autentici moderati del mondo islamico a premere sulla leadership palestinese affinché cessi l’uso della violenza e oneri i suoi impegni, permettendo che emerga una prospettiva di pace sull’orizzonte politico”.

Il piano ancora oggi è sicuramente una piattaforma molto importante ma per essere credibile deve essere negoziabile su basi realistiche.

Così -come Olmert prima- Netanyahu oggi si trova nella posizione di non poter negoziare se il piano si mostra come un diktat “prendere o lasciare”. Occorre che proprio il mondo arabo con i suoi leader facciano una scelta coraggiosa e realistica a partire dal principio di modifica dei confini previa compensazione territoriale.

Scelta che inevitabilmente porterebbe ad una maggiore comprensione e ricreerebbe un clima di fiducia essenziale per la pace nella regione.

In questo re Abdallah potrebbe giocare un ruolo di primo piano per fare in modo che non si ripeta quello che l’ambasciatore saudita disse subito dopo Camp David 2000: “Dal 1948, ogni voltai che viene messo qualcosa sul tavolo dei negoziati, noi dicano di no. Poi diciamo di si, ma quando diciamo di si questo qualcosa non è più sul tavolo. E allora dobbiamo lavorare su qualcosa di meno importante. Non sarebbe ora di dire di si?... Se ci lasceremo sfuggire quest’occasione, non sarà una tragedia: sarà un delitto”.

venerdì 31 luglio 2009

QUESTIONE DI GERUSALEMME

Il conflitto arabo-israeliano-palestinese nasce da uno scontro nazionale e religioso. Da un punto di vista nazionale il punto di partenza è lo scontro tra il sionismo e il nazionalismo arabo e poi palestinese. Invece da un punto di vista religioso la Terra assume una connotazione sacra tanto per l’ebraismo che per l’Islam. Terra inalienabile discendente da un patto con Dio quindi incontestabile. Sebbene, ad oggi il principio “due popoli per due Stati” sia il cardine sul quale far girare tutta la questione per trovare una giusta soluzione quest’ultima connotazione rappresenta un vero punto di scontro. In particolare la formula espressa di uno Stato d’Israele riconosciuto che viva con uno Stato di Palestina su Gaza e Cisgiordania, trova uno dei tanti suoi nodi sulla questione di Gerusalemme.
Gerusalemme è la Città Santa per eccellenza: santa per la religione ebraica, santa per la religione cristiana e santa per la religione islamica. Come dire il contrario se quel luogo rappresenta il patto tra popolo eletto e Dio per gli ebrei? la predicazione di Gesù e le sue entrate al Tempio? il viaggio del Profeta Maometto dove ricevette la rivelazione?
La Città di Gerusalemme da un punto di vista strategico non è fondamentale; essa è situata lontano dal mare, senza corsi d’acqua e sorge su una collina. Intorno all’anno 1000 a.c. re David ne cambio il destino dopo la sua decisione di erigere un altare al Signore; Salomone fece costruire il Tempio trasformando Gerusalemme in capitale politica a città santa ebraica. Intorno al 70 d.c. i romani rasero al suolo il Tempio e sessantacinque anni dopo fecero lo stesso con la città mutandone il nome in Aelia Capitolina. Non si limitarono al solo cambiamento del nome ma si attivarono per cacciare gli ebrei ed erigere un tempio a Giove. L’intento dei romani non produsse l’effetto sperato: cancellare l’identità ebraica, anzi il legame tra città e spiritualità ebraica rimase inalterato. Ben presto ripresero le lotte e le varie battaglie. Nel frattempo la Città era diventata il fulcro spirituale per i cristiani e gli islamici da qui le crociate, fino al 1517 quando, la città, diventò una provincia dell’Impero Ottomano fino alla sua disintegrazione durante il primo conflitto mondiale. Dopo la Dichiarazione Balfour del 1917 e la sostituzione dal dominio ottomano con quello inglese la situazione subì un inasprimento, dovuto alla paura araba di una costituzione di uno Stato ebraico e la rivendicazione della Terra o parte di essa per costituire un proprio Stato per gli ebrei. Gli inglesi decisero di passare tutto all’Organizzazione delle Nazioni Unite, che stabilirono con la Risoluzione 181 del 29 novembre del 1947 la creazione di due stati uno ebraico e l’altro arabo, trasformando la Città di Gerusalemme in un “corpo separato” da sottoporre sotto un’amministrazione internazionale. Al Consiglio di amministrazione veniva dato il potere di redigere uno statuto per la città, inoltre dopo 10 anni la popolazione avrebbe dovuto esprimersi per il futuro mediante un referendum.
Le cose andarono diversamente a seguito del primo conflitto arabo–israeliano, dove per gli ebrei si trattò della prima guerra d’indipendenza mentre per gli arabi palestinesi si trattò della Nakba ossia catastrofe. Sul terreno le cose cambiarono: Gerusalemme venne tenuta nella parte occidentale mentre la Legione araba penetrò nella parte orientale della città inclusa la Città Vecchia. Gli accordi di armistizio tra Israele e Giordania prevedevano il diritto degli ebrei a recarsi al Muro del Pianto e al Monte degli Ulivi, dove vi è il cimitero ebraico, in realtà i giordani non permisero l’applicazione di quanto stabilito collegando la questione al ritorno dei rifugiati palestinesi alle loro terre. Gli israeliani non poterono recarsi al Monte del Pianto e gli arabo israeliani non poterono recarsi alla Spianata delle Moschee. La posizione dei giordani si trasformò poi scempio quando il cimitero ebraico venne profanato.
Dal canto suo, Israele decise di trasferire i propri ministeri e il Parlamento, Knesset, in città dove nel 1950 con una risoluzione fu dichiarata capitale dello Stato.
Nel 1967 con la guerra dei Sei giorni le truppe israeliane penetrarono nella parte orientale e nella Città Vecchia. Il comandante dei paracadutisti, Motta Gur, fece sventolare la bandiera con la Stella di David sul Monte, ma Dayan ne ordinò subito il ritiro. Gli ebrei poterono andare a pregare liberamente al Muro del Pianto e gli arabi residenti in Israele alla Spianata. Il governo di Levi Eshkol rassicurò i credenti di tutti i culti che avrebbe garantito l’accesso libero a tutti i luoghi Santi, inoltre l’amministrazione della Spianata delle Moschee fu lasciata in mano ai capi spirituali musulmani, per non provocare i risentimenti del mondo musulmano. Nel frattempo furono rimosse le barriere di divisione tra le due parti della Città e di fronte al Muro del Pianto furono espropriate diverse abitazioni per permettere ad un maggiore numero di ebrei di pregare di fronte al Muro. Il 27 giugno la Knesset approvò varie leggi che estendevano il diritto e l’amministrazione israeliana su Gerusalemme Est, quindi la costruzione di insediamenti attorno alla Gerusalemme abitata dagli arabi, e il 30 giugno 1980 la Knesset approvò un’altra legge dove esplicitamente veniva dichiarato che Gerusalemme era la capitale indivisa dello Stato.
Quando partirono i colloqui, che porteranno alla Dichiarazione dei Principi, la questione di Gerusalemme (insieme ad altre come profughi, coloni, confini) venne derogata a varie commissioni di lavoro che agirono in gran segreto per evitare le pressioni delle proprie opinioni pubbliche.
Particolarmente interessante è l’accordo Beilin e Abu Mazen, che prende il nome dai due esponenti di rilievo delle due parti. Il piano avrebbe dovuto servire come cornice in vista di una pace definitiva. Il piano prevedeva una Città di Gerusalemme indivisa e aperta, con la costituzione di due municipalità con estensione sui vari insediamenti e aree palestinesi, con ampi poteri, l’organismo sarebbe stato eletto separatamente dagli abitanti dei quartieri palestinesi e israeliani.
Israele avrebbe riconosciuto la parte amministrata dai palestinesi come la capitale dello Stato Palestinese (Al Quds) e i palestinesi avrebbero riconosciuto la parte amministrata dagli israeliani come la capitale dello Stato d’Israele (Yerushalayim). La parte della Città Vecchia e le restanti sezioni della parte orientale sarebbero state oggetto di studio di varie commissioni. Sui Luoghi Santi le parti si impegnavano a riconoscere e garantire la libertà di culto e di accesso nonchè veniva previsto uno status speciale sulla Città Vecchia. Con responsabilità delle due municipalità, ai palestinesi sarebbe stata riconosciuta la sovranità extraterritoriale sul Haram Al Sharif con l’amministrazione del Consiglio musulmano (Waqf). L’accordo Beilin–Abu Mazen fu completato pochi giorni prima dell’uccisione di Rabin e sotto l’offensiva terroristica di Hamas e Hezbollah. Solo nel 2000 a Camp David la questione venne riproposta, il presidente Clinton arrivò a proporre un accordo in base al quale ai palestinesi sarebbe stato riconosciuto l’Haram e i quartieri musulmani e cristiani, mentre agl’israeliani sarebbe stato riconosciuto il Muro Occidentale e i quartieri ebraici e armeni.
Clinton usò espressioni di sovranità, autorità funzionale, simbolo di sovranità. Davanti alle resistenze di tutte le parti in causa con il fallimento del vertice si arrivò a nuovi incontri fino a sfociare nell’incontro di Taba del gennaio 2001 dove fu trovata l’intesa: i luoghi Santi arabi sotto controllo palestinese e i luoghi Santi ebraici sotto controllo israeliano con vari gradi di estensione (sotto e sopra i luoghi ). Ma oramai sotto l’impulso della violenza tutto si complicava fino a raggiungere la più totale stasi e riporre i suddetti programmi/accordi a giacere nella speranza di un futuro migliore; eppure quei vertici e quelle discussioni hanno infranto diversi tabù in maniera tale che ogni nuovo accordo definitivo deve necessariamente partire da quei punti discussi.

mercoledì 22 luglio 2009

VINCERA’ IL POPOLO


PARLA SHIRIN EBADI, L’IRANIANA PREMIO NOBEL PER LA PACE


VINCERA’ IL POPOLO

“QUESTA E’ LA RIVOLUZIONE DELLA GENTE, IN IRAN SI E’ ORMAI DIFFUSA UNA MENTALITA’ DEMOCRATICA CHE FINIRA’ CON L’IMPORSI “.
“SONO LAICA MA IN CARCERE HO PREGATO MOLTO”.

Shirin Ebadi è stata il primo magistrato donna dell’Iran. Con la Rivoluzione del 1979 le fu revocata l’autorizzazione e solo nel 1992 le è stata data la possibilità di aprire uno studio di avvocato. Da allora difende, gratuitamente, i perseguitati politici e le vittime del regime. Come Zahra Bani-Yaghub, 27 anni, medico. Sedeva in un parco con il suo fidanzato quando fu arrestata dagli agenti della “buoncostume”. Due giorni dopo il corpo fu restituito alla famiglia: suicidio. Shirin Ebadi è riuscita a dimostrare che nella cella dove si trovava era impossibile impiccarsi. Anche per questo nel 2003 le è stato confermato il premio Nobel per la pace.
La Ebadi è arrivata in Italia grazie alla Fondazione “Alexander Langers” e ha parlato alla regione Toscana, al Senato e alla Camera. Continuerà a sensibilizzare gli animi su quanto sta accadendo, poi tornerà in Iran, dove per lei potrebbe iniziare una nuova stagione di lavoro oppure aprirsi la porta del carcere.
“Sono già stata in carcere. Mi hanno sempre tenuta in isolamento. Per fortuna sono di piccola statura, altrimenti non mi sarei potuta sdraiare nel buco di cemento dov’ero rinchiusa. Non ci davano un cuscino, un libro, nulla. Non c’erano finestre e la luce era sempre accesa, così si perdeva anche la cognizione del tempo. Alla fine si cominciano ad avere le allucinazioni: gli psicologi la chiamano “tortura bianca” “.

Nell’immaginario di molti, l’Islam corrisponde al male. Combattere il regime significa combattere l’Islam?

“La divisione tra religione e Stato è imprescindibile, lo dimostra il fallimento della Rivoluzione iraniana. In tal senso sono assolutamente laica. Da un altro punto di vista, però, sono molto legata alla mia estrazione musulmana. Nutro un profondo rispetto per la religione e, insieme a me, anche gli iraniani che ogni notte gridano “Iddio è grande” dai tetti delle case. Io non sarei sopravvissuta al carcere se non avessi potuto pregare. Laicità non significa disprezzo per la fede, anzi. E’ il solo modo per difendere la religione dalle strumentalizzazioni del potere”.

All’inizio lei ha sostenuto la Rivoluzione, poi ne ha preso le distanze…

“Innescare cambiamenti politici con rivoluzioni è inaccettabile, comporta un prezzo di sangue troppo alto e ingiustizie intollerabili. Però devo ammettere che ci sono stati anche risultati positivi nella coscienza del nostro popolo. Prima del 1979, l’Iran era asservito alla politica statunitense, una condizione di sudditanza che aveva fatto perdere alla popolazione ogni fiducia nel Paese. Con la Rivoluzione gli iraniani sono tornati ad essere artefici del proprio destino”.

Nel 1980 Khamenei, grande nemico di Moussavi, ha preso il posto di Khomeini come Giuda suprema.

“Khomeini aveva un carisma che l’attuale Guida non potrà mai avere”.

C’è chi ritiene che Moussavi, primo ministro dal 1980 al 1989, sia troppo legato all’establishment per guidare l’Iran a un cambiamento profondo.

“Non sono i politici i protagonisti della contestazione ma il popolo. La democrazia è una cultura, non si può imporre ma si sviluppa tra la gente. Gli ultimi avvenimenti hanno creato e diffuso in Iran una mentalità democratica che alla fine arriverà a imporsi. E’ solo questione di tempo. Alcuni politici potrebbero aiutare il processo, altri ritardarlo, ma bisogna lasciare al popolo l’iniziativa di scegliersi i propri rappresentanti”.

Lei entrerà in politica?

“Non sono un politico ma un difensore dei diritti umani. I politici sono alla testa del popolo, devono interpretarne le esigenze e guidarli verso la loro realizzazione. Io mi colloco dietro al popolo e la mia funzione è di controllare che i politici rispettino i diritti fondamentali della gente”.

L’idea di far coincidere lo sciopero generale con il periodo tradizionale di ritiro spirituale in moschea è molto significativa. Quali saranno adesso i prossimi passi della contestazione?

“E’ presto per dirlo. Però adesso tutti dovrebbero aver capito che l’Islam è contro la frode e le bugie, l’uccisione di innocenti, l’incarcerazione di 1.200 persone, in massima parte giovani. Nei filmati si vede che i cecchini hanno ucciso sparando dal tetto di palazzi governativi e la polizia ha attaccato alle tre di notte il dormitorio degli studenti universitari, facendo 5 vittime. Il regime non ha più giustificazioni dal punto di vista religioso e ha perso ogni credibilità dal punto di vista politico. D’altra parte il popolo non è solo, sempre più spesso i religiosi si schierano con i democratici. Anche l’Associazione degli insegnanti del seminario di Qom, una delle più importanti città sante, ha messo in dubbio l’imparzialità del Consiglio dei guardiani, che ha ratificato il risultato delle elezioni. I religiosi hanno anche chiesto che siano rilasciati gli arrestati e puniti coloro che hanno ordinato i pestaggi e le uccisioni”.

Cosa si aspetta da Europa e Usa?

“Più senso di responsabilità. Da quando si è saputo che Nokia e Siemens hanno venduto al regime la tecnologia per controllare l’identità degli utenti della Rete, suggerisco di boicottare i cellulari Nokia. Stiamo pensando di ricorrere contro le multinazionali in sede UE e Onu. Devono capire il male che hanno fatto. Gli agenti del regime hanno bloccato la mia casella di posta elettronica e l’hanno utilizzata per inviare false email a mio nome. Hanno creato un finto sito democratico, invitando le vittime dei pestaggi a denunciare le violenze, fornendo i loro nomi e cognomi, quindi li hanno tutti arrestati. Hanno imprigionato persino Ebrahim Yazdi, un oppositore di quasi ottant’anni, mentre era ricoverato in ospedale. La comunità internazionale è per noi importante. Vorremmo nuove elezioni sotto controllo dell’Onu. Quando l’Iran aderirà al Tribunale penale internazionale, io potrò andare in pensione. Però occorre che le istituzioni internazionali assumano fino in fondo il loro ruolo di garanti”.

Famiglia Cristina n° 28/2009, a cura di Ahmad Gianpiero Vincenzo.

sabato 4 luglio 2009

SIRIA - USA: LA SVOLTA?


La Siria è un importante Stato nello scacchiere mediorientale, ai tempi dell’Amministrazione Bush i siriani erano stati indicati come i reggenti di uno “Stato canaglia”. Il presidente siriano, Bashar al Assad , subentrato dopo la morte del padre, ha ereditato un paese dove necessitavano importanti riforme. Inizialmente, il presidente, aveva lanciato segnali in tal senso, basti pensare ad una stampa non più costretta a celebrare i fasti del regime o all’apertura di dibattiti politici e culturali nel proprio paese. Ben presto, però, il partito/Stato Baath con una nomenclatura ingessata in chiusure ideologiche fece sentire tutto il suo peso e la sua potente forza. In poco tempo dalla “Primavera di Damasco” si era passati ad un periodo molto buio.
Lo stesso Assad riferisce, nel corso di un’intervista al settimanale l’Espresso del 15 maggio 08, che “E’ inevitabile che sorgono contrasti quando si inizia un processo di rinnovamento a ritmi incalzanti. Questo conflitto all’interno del Baath è però già stato risolto nel congresso del 2005,[…] Ammetto che non tutto è stato ancora realizzato. Sul fronte della corruzione, per esempio, abbiamo ottenuto buoni risultati al vertice della piramide. Ma molto rimane da fare alla base, a causa di uno sviluppo amministrativo troppo lento”.
Con la nuova amministrazione USA, grazie ai primi interventi di Barack Obama: disimpegno dall’Iraq, chiusura del carcere di Guantanamo e discorso al Cairo, l’America si è presentata con una nuova credibilità e come una forza politica quindi non più come solo una forza militare. Un nuovo clima di speranza si è instaurato, tanto che Assad ha invitato Obama a recarsi per una visita in Siria. Assad non fissa paletti, dice di voler “parlare della pace nella regione” e sottolinea che “ogni vertice tra capi di stato è positivo anche se non si è d’accordo su tutto, si possono accorciare le distanze”.
E’ evidente che il presidente siriano cerca nella mediazione americana un aiuto concreto per far uscire dall’impasse il groviglio mediorientale. Un groviglio che vede la questione siro-israeliana e la questione israelo–palestinese ancora da risolvere.
Dal ’91 in poi, la questione siro-israeliana è stata, al centro di vari tentativi di dialogo e negoziazioni da parte dei rispettivi governi. I territori delle Alture del Golan e delle Fattorie di Shebaa sono stati al centro di negoziazioni, ma ancora ad oggi restano delle divergenze territoriali e sulla sicurezza dei due gli attori. Sulla questione palestinese, ancora oggi restano problemi ma è chiaro che la formazione di uno Stato di Palestina (Gaza e Cisgiordania) con il giusto riconoscimento è la soluzione. Il principio dei due popoli per due Stati con i diritti riconosciuti deve essere irreversibile.
La storia dei negoziati ha mostrato che scegliere solo di affrontare una sola questione senza concentrarsi nella sua globalità, e di conseguenza accantonare l’altra seppur temporaneamente, ha degli effetti molto negativi sia sull’approccio diplomatico che sulla disposizione dell’opinione pubblica verso gli inevitabili compromessi.
Con l’invito di Assad ad Obama, ed una eventuale visita di quest’ultimo, il presidente americano potrebbe dare attraverso la sua credibilità quella forza necessaria per riuscire ad infrangere i tabù, nei quali solo i falchi di tutte le parti interessate hanno da guadagnare, per far decollare la pace che l’intera regione merita.

venerdì 5 giugno 2009

AL CUORE DEL PROBLEMA DEL MEDIO ORIENTE

di Salvatore Falzone



La prima visita del Presidente americano, Barack Obama, in Medio Oriente è stata seguita con grande attenzione. Obama, al secondo giorno della sua visita dopo aver incontrato in Arabia il re Abdullah, si è recato in Egitto dove ha incontrato Hosni Mubarak ed ha parlato all’Università del Cairo davanti ad una platea visibilmente ansiosa del suo discorso.

Obama ha parlato in maniera magistrale, ha toccato tutti i punti del problema mediorientale: conflitto arabo-israelo-palestinese, libertà religiosa, diritti delle donne, Iran, politica estera americana e democrazia.

In particolare sul conflitto che oppone arabi e israeliani è stato molto chiaro nell’indicare il “riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile”.

E’ partito da un presupposto molto limpido sul diritto di esistenza dello Stato di Israele ed ha condannato tutti gli stereotipi che alimentano l’odio e la negazione della storia del popolo ebraico.

Rivolgendosi ai palestinesi il Presidente ha ricordato la situazione piena di sofferenza nella quale dal ’48 in poi si sono trovati.

“L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese, alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio”.

Obama ha tracciato la situazione di un problema che è strumentalizzato dagli estremisti per far detonare l’intera regione. Poi, ha deciso di rivolgersi verso i dirigenti chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Per i palestinesi ha fatto riferimento alla cessazione delle violenze, a mostrarsi capaci di essere uniti e governare nella logica del benessere per il popolo nonché procedere ai riconoscimenti dei vari accordi precedenti con Israele. Il riferimento ad Hamas è molto chiaro affinché proceda verso un’ evoluzione politica. Mentre, a Israele ha ricordato come la pace deve essere raggiunta attraverso il mantenimento di tutte le promesse stilate negli accordi precedenti e in particolar modo procedere al blocco degli insediamenti.

“Il progresso reale nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso”.

Infine, si è rivolto agli Stati arabi ricordandogli l’importanza dei Piani ultimamente presentati ma che non cancellano una seria parte di responsabilità. Obama è arrivato dritto al cuore del problema mediorientale: aver utilizzato troppe volte la demonizzazione di Israele per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni. In questo ha implicitamente toccato gli elementi presenti nello scacchiere mediorientale: dittature, ideologie, interesse delle elite, riuscito utilizzo dei capri espiatori, rifiuto di porre fine al conflitto israelo-palestinese.

La forza del discorso di Obama sta nella scelta di rivolgersi direttamente ai musulmani, al popolo tutto. Egli cerca una legittimità della pace attraverso il popolo, cerca di rompere quell’equazione che ha visto, per troppo tempo, i dirigenti arabi succubi dell’odio contro Israele e a favore di una chiusura a qualsiasi normalizzazione.

In definitiva, il Presidente americano, cerca di rompere quella barriera psicologica affinché i dirigenti si trovino ad affrontare il problema con le giuste soluzioni reali e finiscano ad incentivare la polarizzazione verso uno scontro continuo. E chiama quella parte di opinione pubblica, di società civile, cosciente e responsabile a far sentire la sua voce. Di certo, il cammino è ancora lungo e irto di ostacoli, la società civile si trova a confrontarsi con duro indottrinamento misto a repressione da parte dello Stato o dei vari fondamentalismi; mentre necessità di pluralismo, non conformismo, tolleranza, responsabilità individuale, coraggio civile. Ma la speranza – seguita da scelte politiche dei vari attori responsabili - di un cambiamento per quella parte del modo ricca di storia, patrimonio dell’intera umanità, deve avere la meglio.

mercoledì 22 aprile 2009

IL BIVIO IRANIANO

di Salvatore Falzone (pubblicato su Obiettivo Affari&Notizie, Anno XXI - n. 368 - 23 aprile 2009)

Bisogna lavorare per la costruzione della pace nel mondo

L’apparizione del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, alla Conferenza dell’ONU sul razzismo “Durban II”, ha lasciato il segno.

Ahmadinejad non ha perso occasione per attaccare Israele bollandolo come “Stato razzista che governa nella Palestina occupata”.

Il presidente iraniano, ovviamente, dimentica la Risoluzione ONU 181 del ’47 che prevedeva la spartizione della Palestina storica in due stati: Stato arabo di Palestina e Stato di Israele. E dimentica che tale Risoluzione fu rifiutata interamente dagli arabi i quali mossero guerra. Alla fine del primo conflitto arabo-israeliano la situazione dei palestinesi fu paradossale “anzi il popolo di Palestina si trovò pesantemente condizionato dalla presenza e dai calcoli politici delle nazioni alle quali chiese aiuto”. (Salvatore Falzone, Nel nostro tempo tra terrorismo e conflitto israelo-palestinese, ed. Bonfirraro 2007, pag. 39)

In realtà i leader della Repubblica Islamica non sono nuovi alle accuse contro Israele. Basti ricordare le diverse conferenze che Teheran ha promosso contro lo Stato ebraico. E’ dall’ottobre del 2005, prima Conferenza dell’era Ahmadinejad, Conferenza su “Un mondo senza sionismo”, che il presidente auspica la sparizione d’Israele dalla carta geografica del Medio Oriente in quanto lo paragona ora ad un elemento estraneo alla società mediorientale, ora ad un male incurabile che deve essere estirpato! E in occasione della “Quarta conferenza internazionale a sostegno della Palestina, modello di resistenza”, che si è tenuta a Teheran il 3 marzo scorso, sia la Guida spirituale, Alì Khamenei, che il Presidente Ahmadinejad, hanno pesantemente attaccato Israele con discorsi paragonabili alle follie e bestialità del regime nazista di Hitler.

“La missione del sionismo è quella di minacciare costantemente il mondo, di impedire il progresso delle nazioni, di preparare il terreno per la presa in possesso della regione e del resto del mondo da parte di quelle superpotenze, di seminare divisioni, di aprire al mercato delle armi occidentali, di depredare le risorse dei popoli oppressi ed anche di prendere il controllo sui popoli di Europa e America. In effetti il regime sionista è la spada avvelenata al servizio della rete del sionismo globale e delle arroganti potenze nella nostra regione e nel mondo intero.” (www.israele.net)

Una retorica che non aiuta per niente la stabilizzazione dell’intera regione e facilita l’attività di scontro messe in atto da Hamas e Hezbollah, organizzazioni appoggiate dall’Iran. La guerra d’estate 2006 tra Hezbollah e Israele e gli scontri durante l’Operazione “Pioggia d’estate del 2006 e l’Operazione “Piombo fuso” del 2008-2009 nascono da una volontà di perpetuare il circolo vizioso di attacco- rappresaglia –guerra.

Questa aggressività dipende dal fatto che oggi la Repubblica Islamica si trova in una situazione di isolamento internazionale e di avere gravi problemi interni quali l’alto tasso di disoccupazione, inflazione e una società, specie tra i più giovani, stanca della retorica del regime.

Una prova delle difficoltà in cui versa l’Iran è data dalle manifestazioni organizzate dai vari apparati che invocano “morte all’America e a Israele”. Esse non sono altro che delle manovre propagandistiche organizzate per dare un’apparenza di unità e mascherare il malcontento della gente. Nel mese di giugno si terranno le elezioni presidenziali alle quali la politica fallimentare di Ahmadinejad dovrà sottoporsi al giudizio popolare. Si spera che la popolazione partecipi senza lasciare il proprio diritto di decidere sul proprio futuro alle parti estremiste. Il popolo iraniano è chiamato a traghettare il paese verso quelle scelte pacifiche, tanto auspicate dal Presidente Usa Obama, per dimostrare la forza del popolo e la grandezza della civiltà iraniana.

mercoledì 11 marzo 2009

IL VERO VOLTO DI HAMAS

di Salvatore Falzone (pubblicato su Obiettivo Affari&Notizie Anno XXI - N. 364 - 12 febbraio 2009)

L’ultima guerra tra israeliani e palestinesi con l’Operazione “Piombo Fuso” è solo uno degli ultimi atti consequenziali dell’assenza di qualsiasi strategia politica da parte di Hamas. Occorre ripartire dalla guerra civile palestinese per meglio comprendere come l’organizzazione fondamentalista abbia imboccato una strada senza uscita, a meno di una svolta a tutto campo nella quale la politica e la realtà prendano il sopravvento. Di certo, per converso, non si può dimenticare che la guerra con tutti i suoi danni collaterali impone a tutte le parti di porre fine alla violenza e avviare dei veri negoziati nei quali si arrivi alla creazione di uno Stato di Palestina e il riconoscimento dello Stato di Israele. Si parla di guerra civile quando il potere sovrano di uno Stato diventa incompatibile con le aspirazioni del proprio popolo. In Palestina, ancora oggi, non esiste uno Stato con i suoi elementi caratteristici: territorio, popolo, sovranità. Il territorio che dovrebbe spettarle è diviso in due entità: Striscia di Gaza e Cisgiordania.

La loro divisione è sia territoriale, dove non c’è un corridoio di collegamento tra i due nonostante le richieste in questo senso dei palestinesi in ogni vertice con gli israeliani, che politica, dove Al Fatah comanda ed è ben insediata in Cisgiordania e la Striscia di Gaza oramai considerata sempre più la base politica e di potere di Hamas. La popolazione, a sua volta ripete lo stesso schema, si trova divisa territorialmente (considerando anche i palestinesi che vivono in Israele come arabo-israeliani), politicamente e una buona parte si trova disperso nei vari campi profughi nei Paesi arabi limitrofi. Infine, la sovranità intesa sia come ordinamento giuridico originario e indipendente che come supremazia dell’ordinamento statale sui vari ordinamenti minori non esiste. I palestinesi dovrebbero radunarsi, per cambiare questo stato di cose sotto un’ unica autorità e non disperdersi in bande e fazioni, che agiscono in nome e per conto del popolo (almeno così dichiarano) in uno scontro militare e politico tra nemici pronti a distruggersi. La situazione palestinese negli ultimi anni è stata sequestrata dal radicalismo islamico in uno scontro religioso, dove ogni compromesso appare impossibile a differenza dello scontro nazionale, dove con l’interesse delle parti e una diplomazia non di puro contenimento della situazione ma di risoluzione porterebbe ad un compromesso. Con queste premesse sul campo, principalmente a Gaza, la situazione scivolava orami nel profondo di una guerra civile.

Giustamente, da più parti, veniva bollata come la “follia dei palestinesi” di Hamas. Le fazioni armate rispondevano solo ai comandanti locali, i quali avrebbero preso gli ordini dai loro reclutatori nei paesi ostili al dialogo interno come l’Iran e la Siria, portavano il segno di una lotta fratricida.
Una Palestina dai mille problemi e in mille parti frammentata con clan tribali, famiglie pronte a condizionare qualsiasi esito sembrano mandare in frantumi un possibile Stato di Palestina. L’incapacità dei vari dirigenti, sia di al Fath che di Hamas, a compiere il necessario salto da guerriglieri a classe dirigente responsabile di uno Stato in formazione è latente. Tutto si svolge in accuse di corruzione e degrado morale per al Fath, discredito della vecchia dirigenza dell’OLP, capacità governative fallimentari per Hamas. Nelle parole di Khaled Hroub (Khaled Hroub, Hamas. Un movimento tra lotta armata e governo della Palestina raccontato da un giornalista di Al Jazeera, Bruno Mondadori 2006, pag. 98) giornalista di Al Jazeera, si intravedono le diversità del passato ed oggi ancor più vistose: “La questione fondamentale, fonte di maggiore attriti tra le due parti, è stata l’insistenza di Hamas nell’effettuare i propri attacchi militari contro obiettivi israeliani in un momento in cui l’Autorità palestinese, guidata da al-Fatah, cercava di concludere con Israele ulteriori accordi di pace. Il braccio armato del movimento è stato considerato dall’Autorità palestinese come una fazione priva di controllo e illegittimamente armata, di cui le forze di sicurezza palestinesi, alleate dall’Autorità, avrebbero dovuto assumere il controllo. […] La grande circolazione di armi e la presenza di diverse fazioni armate che agiscono caoticamente, senza una chiara leadership né obiettivi precisi, rendono la situazione palestinese particolarmente soggetta al rischio di una deriva verso la guerra civile.” Nel mese di giugno 2007 riprendevano i combattimenti tra le varie fazioni, il pomo della discordia era il solito: tutte le Forze di Sicurezza dovevano essere sottoposte al controllo governativo. Il Premier Haniyeh svolgeva ad interim anche le funzioni di Ministro degli Interni, quindi, questa richiesta assumeva il carattere di un vero colpo di mano finale. Inoltre la Forza Esecutiva creata da Hamas agiva sempre più in concorrenza e ostilità nei confronti della Forza Preventiva dell’ANP. Da tempo le parti in causa ventilavano delle accuse al proprio nemico di voler attuare un golpe. Verso la metà del mese il movimento dichiarava guerra aperta ai “traditori di Fatah” e a tutti coloro che erano vicini al Presidente Abu Mazen. Hamas chiamava a raccolta il popolo palestinese per la “seconda liberazione”, dopo la prima avvenuta nel 2005 quando ci fu lo sgombero israeliano. L’apice si tocca il 13 giugno quando i miliziani, dopo un ultimatum di consegnare le armi ai fedeli del Presidente, alzavano il tiro facendo saltare in aria il quartier generale delle forze palestinesi a Khan Yunis. In poco tempo, i miliziani attivano scontri cruenti in ogni angolo della Striscia impadronendosi di tutto ciò che rappresenta l’Autorità Nazionale Palestinese. Un corteo composto da palestinesi, che chiedevano la fine delle violenze, veniva fatto bersaglio di colpi d’arma da fuoco. Le vendette tra saccheggi e regolamenti di conti non risparmiavano nessuno. Le immagini che ci venivano trasmesse dalla Striscia ritraevano scene di un totale disordine e di miliziani che distruggevano, persino, le foto raffiguranti Yasser Arafat, l’uomo che ha rappresentato il popolo palestinese. Sotto il fuoco di Hamas, Abu Mazen dichiarava la stato d’emergenza e scioglieva il governo di Hamas, oramai si profilava un’Autorità divisa in due: ANP in Cisgiordania e Hamas nella Striscia di Gaza. Sotto l’incalzare degli eventi l’ONU, con il Segretario Ban Ki-moon proponeva, facendo seguito alle richieste del Presidente Abu Mazen, di studiare la possibilità di schierare una Forza di Pace, ma i fondamentalisti di Hamas bollavano qualsiasi intervento esterno come una indebita ingerenza. E sull’ipotesi di una Forza di Pace la qualificavano come “truppe di occupazione” lasciando intendere che sarebbero pronti a scagliarsi contro di loro. Anche sul piano psicologico Hamas sembrava voler spiazzare completamente il nemico. Da parte dei vari dirigenti veniva data una lettura dei fatti che incolpava direttamente i capi di al Fath e soprattutto del capo della Forza Preventiva a Gaza, Mouhammad Dahlan reo di essersi accordato con gli Usa e gli israeliani per un “repulisti” nella Striscia. Quindi per gli uomini di Hamas si trattava non di un colpo di Stato ma di un’azione difensiva. Mentre la situazione precipitava a Gaza Abu Mazen si apprestava a varare un secondo governo palestinese retto dal nuovo Premier Salam Fayyad. Il programma di questo nuovo esecutivo veniva presentato come anti-Hamas. Veniva dato il proprio sostengo agli accordi precedenti di riconoscimento reciproco tra Israele e OLP, si esprimeva il pieno sostegno al piano di pace arabo e si ribadiva la volontà di creare uno Stato palestinese indipendente con le giuste risoluzioni dei vari contenziosi. Il governo Fayyad in mezzo al caos creato cercava, seppur in maniera sotterranea, di allacciar un minimo di dialogo ma i nodi sembravano un fertile terreno di scontro. Si parlava insistentemente di un disperato tentativo dell’Autorità palestinese di imporre la propria sovranità: Abu Mazen cercava di cambiare la legge elettorale subordinandola per i partecipanti alle prossime elezioni all’accettazione di una clausola di riconoscimento dei precedenti accordi di Oslo. Ma se tutto ciò potrebbe estromettere Hamas, in caso di non accettazione, l’organizzazione rispondeva adducendo la differenza tra il nuovo governo nella Striscia e la precedente gestione dell’Autorità palestinese.

La strategia di Hamas è di far percepire alla popolazione un cambiamento molto netto. Parole come “ripristino di un ordine nuovo” da contrapporsi al disordine precedente instaurato attraverso il malgoverno dell’Autorità palestinese aiutato da Israele sono martellanti attraverso la propaganda.
Il presidente del Consiglio legislativo palestinese, Ahamad Bahar (Umberto De Giovannangeli, Chi ha tradito la causa palestinese, in Limes 5/2007, pag. 107) è molto chiaro: “Hamas sta riportando ordina a Gaza. E questo significa anzitutto riorganizzare le forze di sicurezza anche in funzione della resistenza all’occupazione israeliana e ai suoi progetti di attacco. E’ molto grave che i propositi aggressivi di Israele siano sostenuti da elementi di Fatah, che credono così di potersi prendere una rivincita. Ma agendo in combutta con il nemico, costoro non fanno che rinsaldare il legame tra Hamas e la gente palestinese.” Ma la domanda rimane sempre la stessa: può la lotta interna palestinese favorire la causa dei palestinesi? Si può continuare ad accumulare potere solo pensando alla distruzione e allo scontro con Israele e dimenticando i problemi della gente?

giovedì 12 febbraio 2009

Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 28 settembre 1993


Tratto dal libro “Il Nuovo Medio Oriente” di Shimon Peres e Arye Naor, edizione in italiano Morano editore, pagg. 211-217

Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 28 settembre 1993

Signor Presidente,
Ci congratuliamo per la sua elezione unanime alla direzione della 48° Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Siamo persuasi che sia giunto il momento per tutti noi – comunità, nazioni, popoli e famiglie – di posare l’ultima corona di fiori sulle tombe dei

combattenti caduti e i suoi monumenti dei nostri cari. Questo è il modo giusto di onorare la loro memoria e dare una risposta alle domande di quelli

che verranno. Dobbiamo gettare le basi per un nuovo Medio Oriente.
L’accordo di pace tra noi ed i palestinesi non è solo un’intesa firmata da leader politici. E’ un impegno importante e progressivo nei confronti della

generazione futura – di arabi ed israeliani, cristiani, musulmani ed ebrei. Sappiamo che non è sufficiente dichiarare la fine della guerra. Dobbiamo

cercare di estirpare le radici di tutte le ostilità.
Se eliminiamo solo la violenza, ma ignoriamo la miseria, potremmo scoprire di aver barattato una minaccia per un altro pericolo.
Le dispute territoriali possono costituire motivo di guerra tra le nazioni. Ma anche la miseria può costruire un nuovo seme di violenza tra i popoli.

Mentre firmavo i documenti sul prato della Casa Bianca, potevo respirare la brezza di una primavera fresca, e la mia fantasia ha cominciato a vagare

nei cieli della nostra terra, cieli che potevano diventare più luminosi agli occhi della gente, favorevole o meno che fosse all’accordo. Su quel prato era

possibile udire il rumore pesante di stivali che si allontanavano dopo centinaia di anni di ostilità; al loro posto era possibile sentire l’avvicinarsi di

passi leggeri ed in punta di piedi, in attesa di un mondo pacifico.
Eppure non si può perdere di vista la realtà. So che la soluzione al problema palestinese costituisce la chiave per un nuovo inizio. Ma non è in alcun

modo la soluzione alle molteplici necessità che attendono una risposta al nostro ritorno in patria.
Nel corso dell’ultimo decennio abbiamo assistito a grandi cambiamenti: la fine del confronto Est-Ovest che contribuisce alla progressiva scomparsa

della polarizzazione Nord-Sud; l’introduzione di proprie dinamiche economiche da parte del vasto continente asiatico e del pittoresco continente

sudamericano; i drammatici eventi prodottisi in Sudafrica. Pertanto, contrariamente a tutte le teorie, è stato dimostrato che né la geografia, né la

razza costituiscono un impedimento o uno svantaggio per la realizzazione di promesse economiche.
Assistiamo alla fine di alcuni conflitti, solo per scoprire che coloro che hanno lottato non hanno raggiunto la loro terra promessa. Alcune popolazioni

soggette a colonizzazione hanno ottenuto l’indipendenza, ma ne hanno raramente goduto i frutti. I pericoli possono essere terminati, ma le speranze

di questi popoli si sono volatilizzate. Abbiamo imparato che la fine di una guerra costituisce un nuovo inizio, che mette fine alla belligeranza e ai

pregiudizi psicologici.
Nessuna Nazione, ricca o povera, è oggi capace di garantire la propria sicurezza, a meno che l’intera regione in cui vive la sua popolazione diventi

sicura. Lo scopo della sicurezza regionale deve andare oltre la gittata dei missili balistici, che potrebbero colpire ognuno di noi. Ci stiamo adoperando

per raggiungere una pace totale. Nessuna ferita deve restare aperta.
Dal punto di vista geografico, viviamo fianco a fianco con il regno di Giordania, e ciò che è così ovvio geograficamente deve diventare chiaro

politicamente. Abbiamo già concordato con il regno hascemita diverse questioni complesse e non ci sono dubbi che potremo risolverne altre, nonché

garantire una pace globale alle popolazioni di entrambe le sponde del fiume. Il Mar Morto può rappresentare la primavera di una nuova vita. Le

antiche acque del fiume Giordano possono essere fonte di una prosperità che scorre da una riva all’altra.
La nuova speranza – in realtà, la nostra determinazione – è quella di concludere la pace con la Siria. Tuttavia, abbiamo chiesto alla leadership

siriana perché, se ha scelto la pace, rifiuta di incontrarci apertamente. Se la Siria intende ottenere i medesimi risultati di pace conseguiti dall’Egitto,

essa deve seguire lo stesso percorso. I nostri due popoli devono guardare avanti e capire che le minacce di guerra non sono altro che l’illusione di

poter tornare ad un passato insostenibile.
Non dobbiamo abbandonare i negoziati con i nostri vicini libanesi. Per quanto riguarda il Libano, non abbiamo alcuna rivendicazione territoriale, né

pretese politiche. Preghiamo, insieme a molti libanesi, che il loro Paese non sia più teatro di istigatori al disordine. Il Libano deve operare una scelta

tra gli Hezbollah, che agiscono da questo Paese e ricevono ordini da un altro, oppure dotarsi di un esercito, di una polizia, e offrire concretamente

tranquillità al suo popolo e sicurezza ai suoi vicini. Il Libano non ha bisogno di un’autorizzazione per riottenere la propria indipendenza e non può più

rinviare il suo ritorno ad una politica di equilibrio.
Signor Presidente, non sono sicuro che vi sia un nuovo ordine nel mondo, ma tutti sentiamo che vi è un nuovo mondo in attesa di ordine.
Siamo incoraggiati dal nuovo tentativo delle Nazioni Unite di dare una risposta all’appello sociale ed economico dell’attuale epoca. Le Nazioni Unite

sono state create quale risposta politica. Oggi, esse devono far fronte ad impegni sociali ed economici. Il Medio Orient, che è stato spesso all’ordine

del giorno nella storia della Nazioni Unite, deve prosperare e non solo rimanere in pace. Per costruire un moderno Medio Oriente abbiamo bisogno

di saggezza non meno che di sostegno finanziario.
Dobbiamo liberarci dalle costose follie del passato ed adottare i principi della moderna economia. Chi pagherà – o dovrebbe sostenere – i costi di

una corsa agli armamenti che ha raggiunto il livello di 60 miliardi di dollari all’anno, l’inefficienza dei vecchi sistemi, la vecchia censura sulla posta, il

commercio ed i trasferimenti? E chi vorrebbe avere relazioni con uno Stato in cui il sospetto influenza lo spirito imprenditoriale della gente?
Possiamo e dobbiamo concretizzare le premesse di sviluppo scientifico, di economia di mercato e di educazione generale. Dobbiamo basare

l’industria, l’agricoltura, i servizi del nostro Paese sulle alte tecnologie moderne. Dobbiamo fare investimenti nel settore scolastico. Israele, Paese di

immigrazione, ha la fortuna di avere tra la sua gente molti scienziati ed ingegneri. Dobbiamo fare di questa ricchezza un contributo accessibile.
So che quando ci si riferisce al mercato comune in Medio Oriente, o si prende in considerazione un contributo israeliano, sorgono sospetti e si

ipotizza il tentativo di cercare di ottenere preferenze o di stabilire un certo dominio. Vorrei dire, in tutta franchezza e serietà, che non abbiamo

abbandonato il controllo territoriale per impegnarci in una egemonia economica. L’era del dominio – politico o economico – è morta. Inizia il tempo

della cooperazione. In quanto ebreo, vorrei dire che la virtù e l’essenza della nostra storia, fin dai tempi di Abramo e dei Comandamenti di Mosè, è

sempre stata caratterizzata da una tenace opposizione a qualunque forma di occupazione, egemonia e discriminazione. Per noi, Israele non è solo

una patria dal punto di vista territoriale, ma anche un impegno morale permanente. Vi sono altre questioni concernenti l’edificazione di un mercato

comune in Medio Oriente. Come è possibile realizzarlo se Governi ed economie sono così diversi? Tale diversità non dovrebbero impedirci di

costruire insieme ciò che può essere fatto insieme, lottando contro il deserto ed offrendo fertilità ad una terra arida. La FAO ha dichiarato che, nei

prossimi venticinque anni, il Medio Oriente dovrà raddoppiare la sua produzione agricola. Tuttavia, nello stesso periodo di tempo raddoppierà

anche la popolazione della regione. Quest’area è divisa da numerosi e vasti deserti, e le sue risorse idriche sono scarse ed insufficienti. Ad ogni modo

sappiamo che nel corso di un tale lasso di tempo – i venticinque anni trascorsi dal 1950 al 1975 -, Israele è stato in grado di moltiplicare per 12 la

sua produzione agricola. Negli ultimi 10 anni, il 95 per cento dell’incremento della nostra agricoltura è stato il risultato di ricerche, pianificazione,

formazione professionale ed organizzazione.
L’alta tecnologia permette alle Nazioni di ottenere una reale indipendenza e di godere di autentica libertà politica ed economica. La carenza di acqua

nella nostra Regione non è affatto una novità. Giacobbe ed Esaù hanno bevuto dalla stesa fonte, anche quando le loro strade erano separate. Ma a

quell’epoca, a differenza di oggi, non potevano destalinizzare le acque del mare, computerizzare l’irrigazione o sfruttare il potenziale della

biotecnologia. Siamo di nuovo di fronte ad un’opportunità completamente diversa. L’azione di rendere fertile la terra può essere accompagnata dalla

creazione di nuovi posti di lavoro per molte persone in Medio Oriente. L’occasione più promettente può essere lo sviluppo del turismo. Nessun altro

settore dell’industria moderna assicura una crescita immediata del Medio Oriente come quest’ultimo.
La nostra Regione gode di tesori naturali e storici, una storia che è ancora viva: l’eternità di Gerusalemme, la magnificenza delle Piramidi, i simboli

di Luxor, i Giardini pensili di Babilonia, i Pilastri della Saggezza a Baalbek, i pilastri rossi di Petra, l’inimitabile fascino di Marrakesh, gli antichi venti

che soffiano ancora a Cartagine , senza trascurare le spiagge di Gaza ed il profumo dei frutti di Gerico.
Dobbiamo aprire strade ai viandanti ed offrire loro sicurezza ed ospitalità. Il turismo dipende dalla tranquilla e l’accresce. Rende l’amicizia un

interesse sacro. Dobbiamo costruire un’infrastruttura tramite strumenti moderni al fine di allontanare gli abissi del passato. Trasporti moderni e

sistemi di comunicazione rivoluzionari – che attraversano i cieli, coprono le vie terrestri e collegano i mari – trasformeranno la vicinanza geografica

in vantaggio economico. Non dovremmo chiedere ai contribuenti di altri Paesi di finanziare le nostre follie; siamo noi che dobbiamo correggerle. Non

abbiamo il diritto morale di chiedere il finanziamento di guerre inutili o di sistemi dispendiosi. Se i colpi del martello sostituiranno il fragore delle

armi, molti Paesi saranno più che ben disposti a prestare il loro aiuto ed investiranno in un futuro migliore. Daranno il loro contributo per sostituire

allo scontro ingiustificato una competizione economica molto più sottile. I mercati possono rispondere alle necessità dei popoli non meno di quanto le

bandiere possano segnare i loro destini. E’ giunto il momento di costruire un Medio Oriente per la gente e non solo per i governanti.
Signor Presidente, non è stato facile aprire porte che erano serrate alla pace. In nome di Dio, non lasciate che si chiudano di nuovo, cosicché la pace

possa essere completa, riguardare tutte le questioni, tutti i Paesi e tutte le generazioni. Propongo di procedere tutti ai negoziati su un piano di

parità. Offriamo un terreno comune, costituito da rispetto e compromessi reciproci. Sono passati tredici anni da quando abbiamo avviato rapporti di

pace con l’Egitto. Siamo grati a questo Paese ed al suo Presidente per aver approfondito la comprensione, manifestamente o meno. In un mondo

caratterizzato da molteplici problemi insolubili, i palestinesi e gli israeliani hanno finalmente dimostrato che, in realtà, non vi sono questioni prive di

soluzioni. Abbiamo realizzato un accordo su una delle questioni più complesse degli ultimi cent’anni. Siamo grati agli Stati Uniti per il loro supporto e

per la loro guida, al presidente Clinton ed al segretario di Stato Christopher per il loro ruolo rilevante . Abbiamo apprezzato il ruolo svolto dall’Egitto

e l’incoraggiamento dato dalla Norvegia, il contributo europeo ed il favore asiatico. Forse, ora dovremmo dire agli altri popoli in conflitto: “Non

arrendetevi. Non cedete alle vecchie ossessioni e non manifestate nuovi malcontenti in modo precipitoso”. Ciò che abbiamo fatto noi lo possono fare

anche gli altri.
Signor Presidente, siamo determinati a fare questo accordo con i palestinesi un successo permanente. Israele considererà il successo economico dei

palestinesi come fosse proprio; e ritengo che una nuova sicurezza risponderà alle aspirazioni degli israeliani ed alle necessità dei palestinesi. Gaza,

dopo settemila anni di sofferenza, può emanciparsi dal bisogno. Gerico, dopo il crollo delle mura, può finalmente vedere fiorire di nuovo i suoi

giardini.
Al volgere del XX secolo, abbiamo appreso dagli USA e dalla Russia che non vi sono risposte militari ai nuovi pericoli militari, ma solo soluzioni

politiche. Le economie vincenti non sono più monopolio dei ricchi e dei benestanti. Esse rappresentano un chiaro invito ad ogni Paese pronto ad

adottare la combinazione di scienza ed apertura mentale. Assistiamo alla fine di questo secolo ad un fenomeno per cui la politica può ottenere molto

di più tramite la cordialità, che tramite il potere; e che la generazione dei giovani che guarda la televisione confronterà il proprio destino con le

fortune e sfortune degli altri. Vedrà la libertà, osserverà la pace e la prosperità in tempo reale. Saprà di poter ottenere di più, lavorando più

duramente. Se vogliamo rappresentare le loro speranze, dobbiamo combinare politiche sagge e sicurezza regionale con le economie di mercato. Da

un punto di vista storico siamo nati tutti uguali, e su un piano di uguaglianza possiamo dare vita ad una nuova era.
“Osservate, verrà il giorno in cui” dice il Signore “il contadino lascerà la zappa e la pigiatura dell’uva e non dovrà gettare i semi, e le montagne

verseranno vino dolce e tutte le colline daranno frutto” (Amos 9: 13)

martedì 10 febbraio 2009

Intervista al Primo Ministro Palestinese Salam Fayyad


Riporto un’ interessante intervista, apparsa su Famiglia Cristiana n 6/2009 a firma de giornalista Fulvio Scaglione, a Salam Fayyad premier dell’ANP. Emerge dalle parole del premier la giusta visione che solo la politica, i negoziati e l’implementazione degli stessi porteranno alla giusta soluzione di due popoli per due Stati.


Intervista al Primo Ministro Palestinese Salam Fayyad

“Basta con la violenza da entrambe le parti”

I razzi di Hamas sono inaccettabili e la reazione di Israele è sproporzionata: “Ma dobbiamo risorgere dalle ceneri”.

Ramallah

Forse solo uno che si è occupato di problemi planetari alla Banca mondiale (1985- 1995) e al Fondo monetario internazionale (1996-2001) poteva ritrovarsi a gestire uno Stato che non c’è. Salam Fayyad è dal 2007 primo ministro dell’Autorità palestinese. Dicono che abbia messo un argine ai mille rivoli che dissestavano, in dollari, la burocrazia di qui. Intanto, mi riceve con puntualità svizzera, in un ufficio dall’ordine teutonico. Gaza sembra lontana ed è invece vicinissima.

Signor primo ministro, che cosa c’è nei suoi pensieri in queste settimane?

“Tristezza. Il numero dei morti e l’ampiezza delle distruzioni sono senza precedenti , il mondo intero se n’è reso conto. Con il passare dei giorni, però dietro lo shock si affaccia un pensiero più inquietante: che sarà dei sopravvissuti? E i giovani, come reagiranno? Credo che i fatti di Gaza resteranno a lungo impressi nelle loro menti, e non senza conseguenze. E’ una grande preoccupazione per il futuro”.

Le proteste, le trattative, l’inviato di Obama che viene e va, gli aiuti per la Striscia di Gaza. Riesce ancora a governare?

“Certo che sì. Alcune cose sono troppo importanti, meritano comunque la precedenza: una maggiore coinvolgimento degli Usa, per esempio, è da ricercare con forza. Ma c’è molto più di questo nel mio lavoro. L’anno scorso ho convocato un convegno mondiale di imprenditori, per stimolare le attività economiche in Palestina. Lo slogan era: “C’è un party a Betlemme, siete tutti invitati”. Molti qui mugugnavano : “Ma come, c’è l’occupazione, il Muro, e tu parli di party…”. Però nella serata finale 1.300 persone mangiavano insieme , davanti alla basilica della Natività, allegre e serene”.

Sospetto che ci sia una morale?

“Eccola: risorgiamo dalle ceneri. Come possiamo superare una crisi come quella di Gaza se non trasformiamo tristezza e rabbia in energia e speranza? Non metteremo fine all’occupazione da parte di Israele sentendoci miserabili. E non arriveremo mai a uno Stato autonomo, che viva in pace con tutti i vicini, Israele incluso, inserito nella comunità mondiale, tollerante, aperto, se non crediamo nelle nostre possibilità”.

Una bella serata in piazza , però, non fa Stato…

“Ovvio. Lì c’era il simbolo. Nella realtà quotidiana bisogna scegliere la concretezza al posto dei discorsi o , peggio,delle avventure. Bisogna cambiare le cose sul terreno, in senso letterale: la prima condizione per far finire l’occupazione è che la nostra gente resti sulla terra, e per farla restare devi aiutarla a vivere meglio. Un Governo onesto, ospedali, linee elettriche, asili, scuole, ecco le cose che ci daranno un futuro”.

Ancor più frustante, quindi, vedere le macerie di Gaza. Là, inoltre, gli uomini fedeli al presidente Abu Mazen e al suo Governo se la stanno vedendo piuttosto brutta…

“E’ pazzesco . Ma c’è una lezione anche qui. Il nostro compito è fare l’opposto di ciò che ci ha portati a tutto questo. Distruggono? E noi ricostruiamo. Sparano? Rinunciamo alla violenza. Non si parlano? Parliamo con tutti . Solo così arriveremo a far capire che il problema è l’occupazione israeliana, punto. E non “l’occupazione israeliana, ma…”


Nella crisi di Gaza, però, ci sono alcuni dati certi. Uno è che c’era una tregua e Hamas l’ha denunciata, sparando poi centinaia di missili…

“La violenza di Hamas contro Israele è inaccettabile e ingiustificabile. In più, l’ho detto prima e lo ripeto, i palestinesi otterranno il loro scopo solo se i metodi saranno non violenti. Proprio per questo, però, dico che la reazione sproporzionata di Israele non solo non risolve il problema ma lo aggrava. Guardiamo a quel che è successo finora. Da ani un milione e mezzo di palestinesi vive a Gaza come una prigione. Questo ha forse contribuito a ridurre la violenza? No, la strategia israeliana ha provocato ancor più rabbia. E ha dato ai palestinesi di Gaza la sensazione di non aver nulla da perdere. Bisogna fare l’opposto: dare alla gente qualcosa da perdere per spingerla a scegliere la pace”.

Dal 2007 l’Autorità palestinese ha perso il controllo di Gaza. Una fetta non piccola del budget del suo Governo, però, va ancora alla Striscia…

“Là c’è la nostra gente . Hamas passerà, loro restano e noi dobbiamo aiutarli. Per questo ogni mese spendiamo a Gaza 120 milioni di dollari”.

E’ sicuro che tutti questi soldi non finiscono a Hamas?

“Abbiamo dei meccanismi di garanzia. Uno è far gestire gli interventi a organizzazioni di fiducia. E poi la Striscia ha esigenze particolari: per esempio, il 65 per cento dell’elettricità le arriva da Israele, il 25 dall’Egitto e solo il 10 è prodotto lì. Noi paghiamo i fornitori”.

Ancora l’estate scorsa molti pensavano che un accordo con Israele fosse possibile. Sono successi fatti gravi e tutto è cambiato. Le chiedo solo: si era davvero vicini?

“Devo deluderla . No, non ho mai pensato che fossimo vicini a un accordo. Il Governo uscente di Israele ha fatto molti bei discorsi diplomatici ma, come le devo, a me interessa ciò che avviene sul terreno. E lì ci sono stati più insediamenti e più posti di blocco, a dispetto di quanto era stato stabilito e ribadito ad Annapolis. Il problema è che la pace sia fa solo tra uguali. E noi questa uguale dignità dobbiamo ancora vedercela riconosciuta”.

giovedì 15 gennaio 2009

IN LIBRERIA

NEL NOSTRO TEMPO TRA TERRORISMO E CONFLITTO ISRAELO - PALESTINESE
  • Categoria: Saggistica
  • Autore: Salvatore Falzone
  • Editore: Salvo Bonfirraro
  • ISBN: 8862720009
  • ISBN-13: 9788862720007
  • Pagine: 144
  • Prezzo di copertina: 14,95 €
RECENSIONE

Una ricostruzione incisiva e chiara delle vicende storico-politiche che hanno scosso l’intero pianeta: lo Stato d’Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Lo Stato d’Israele che vede la luce nel maggio del ’48 dopo la Risoluzione 181 dell’ONU e gli Stati arabi che rifiutano, a tutto campo, qualsiasi decisione internazionale dichiarando immediatamente guerra. Ne segue un lungo periodo di guerre arabo – israeliane. Il libro descrive, molto saggiamente, la paradossale realtà palestinese: condizionamenti e calcoli politici nelle mani delle Nazioni che avevano rifiutato il piano di spartizione. Sullo sfondo il cambiamento e la presa di coscienza del popolo palestinese di essere responsabile del proprio destino, da qui l’evolversi da conflitto arabo – israeliano a arabo-palestinese-israeliano. Dietro l’emergere del terrorismo e l’analisi delle difficoltà connesse all’utilizzazione del termine, ai cambiamenti negli anni ‘90 davanti ad uno scenario nel quale i due leader politici delle due parti, Arafat e Rabin, si mostreranno molto più realisti. Scenario che porterà alla Dichiarazione dei Principi e alla nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese come una forma embrionale di Stato. Il libro poi descrive dettagliatamente il fallimento dello status finale tra i due contendenti con la conseguente seconda intifada e l’emergere di un terrorismo devastante che toccherà il culmine con gli attacchi dell’11 settembre 2001. L’autore nota come “la minaccia del terrorismo internazionale connota con i suoi vari attentati l’attuale fase di trasformazione del sistema politico internazionale in particolar modo per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, con il suo intreccio, al fenomeno terroristico e le sue ricadute planetarie”. Evidenzia, anche la parti dei messaggi di Al Qaeda che fanno espressamente riferimento alla situazione tra israeliani e palestinesi, utilizzata strumentalmente contro l’Occidente ed Israele, per cercare di legittimarsi come i veri difensori della causa araba o palestinese. Gli argomenti che sono trattati da questo libro si collocano tra la storia e la geopolitica; inoltre il testo è corredato da mappe e documenti che vanno da alcune Risoluzioni ONU sino alla Road Map, comprese le riserve israeliane. Il testo può essere definito come un´ interessante guida alla comprensione del nostro periodo carico di tante e troppe tensioni pronte a sfociare in nuove e sanguinose guerre. Un libro per tutti coloro che intendono avvicinarsi allo studio dei problemi di questa regione con le idee più chiare. D’altronde i fatti del Medio Oriente sono spesso nelle prime pagine dei telegiornali e dei quotidiani come una realtà molto vicina a noi. Non sono rare le immagini di cruda violenza, che scuotono la parte intima e profonda di una persona umana, e generano l’acceso dibattito politico e lo scontro sulle versioni contrastanti sui motivi che hanno portato a tutto ciò. La capacità di comprendere meglio il presente è un’esigenza per capire le varie posizioni delle varie parti in causa di un’area che resta uno dei tasselli fondamentali di un ordine internazionale turbato dai gravi fatti succedutisi sino ai nostri giorni. Una fotografia del nostro tempo, composta dai colori più variopinti, vista da un autore che è un appassionato di Storia contemporanea e attento osservatore degli eventi mediorientali.