giovedì 24 febbraio 2011

Libia, un Paese in frantumi

Il risiko delle tribù: i clan sono in tutto 140, 30 quelli con maggior influenza

mercoledì 23 febbraio 2011

Il Colonnello e lo spettro del golpe




PROSPETTA QUESTO SCENARIO il centro studi americano Stratfor

Gheddafi e la Libia: come è avvenuto a Tunisi e al Cairo, anche a Tripoli si potrebbero verificare cambi di alleanza.


WASHINGTON – Un gruppo di ufficiali potrebbe rovesciare Muammar Gheddafi? Gli esperti di questioni libiche dubitano che le forze armate ne abbiano la capacità ma il centro studi americano Stratfor, con buoni agganci nel mondo dell’intelligence, ha prospettato questo scenario. Il primo passo sarebbe l’imposizione da parte dell’Onu della no-fly zone sui cieli della Libia. Misura che impedirebbe a Gheddafi di usare i caccia e, soprattutto, gli elicotteri. A questo punto i golpisti uscirebbero allo scoperto, costituendo un comitato simile a quello che portò alla deposizione del re e alla salita al potere di Gheddafi nel lontano 1969. Quella di Stratfor è una teoria in un quadro piuttosto confuso, dove le informazioni sicure sono poche. Come è avvenuto a Tunisi e al Cairo, anche a Tripoli si potrebbero verificare cambi di alleanza.

L’EST – Nelle regioni orientali, al confine con l’Egitto, ci sono i ribelli: giovani, attivisti, professionisti e veterani della politica (monarchici compresi). Controllano importanti sezioni degli impianti petroliferi e del gas. Al loro fianco reparti dell’esercito ammutinatisi dopo i primi giorni di violenza. A Derna e Al Bayda è marcata la presenza degli islamisti, sia moderati che radicali.

L’OVEST – Nelle regioni occidentali Gheddafi ha un controllo parziale. Gli scontri in alcuni quartieri di Tripoli dimostrano che anche la capitale è a rischio. La residenza di Bab El Azizia, da dove il Colonnello lancia i suoi proclami, rappresenta l’ultima trincea. Un secondo avamposto è invece nel Fezzan, dove si troverebbe Khamis, il figlio del raìs, comandante dell’omonima Brigata.

LE TRIBÙ – La maggioranza delle tribù sembra aver preso le distanze dal dittatore. Tra le “famiglie” dissidenti vi sono anche quelle che hanno offerto in questi anni gli uomini per le forze di sicurezza (come la Magariha). Gheddafi conta sul suo clan e spera di potersi comprare la fedeltà degli altri o comunque di dividerli.

L’ESERCITO – Sempre relegato in secondo piano, mai efficiente, diviso, ha dovuto cedere il passo alle molte polizie segrete. Negli ultimi giorni si è sostenuto che almeno dieci membri del consiglio militare avrebbero preso posizione contro il raìs. Un’insubordinazione accompagnata dal rifiuto di diverse unità (aeree, navali, terrestri) di partecipare al massacro. Clamoroso il caso del ministro dell’Interno Younes Al Obeidi: il dittatore lo ha dato per ammazzato a Bengasi, invece è vivo e si è dimesso invitando i militari a far fronte comune con i manifestanti. E’ in questa fronda crescente che – secondo alcuni – potrebbe nascere la spinta per un golpe.

I PRETORIANI – Gheddafi, nel suo discorso, ha usato termini da ultima battaglia. Per sostenerla può contare sugli apparati di sicurezza – ma non è chiaro quanti uomini gli siano rimasti fedeli – e sui mercenari fatti arrivare dai paesi arabi e africani (impossibile stimarne il numero). Come i figli di Saddam, anche quelli di Muammar hanno un compito nella difesa del regime. Khamis comanda la sua Brigata, così come il fratello rivale Muatassim che ha voluto costituire la sua milizia. C’è poi l’unità Al Saika e gli agenti del Mukhabarat. Un ruolo importante potrebbe avere Abdullah Al Senussi, l’uomo che da tempo gestisce i servizi. Le ultime notizie sostengono che sia stato lui a salvare Khamis circondato dai ribelli nell’aeroporto di Al Bayda.

Guido Olimpio
23 febbraio 2011

http://www.corriere.it/esteri/11_febbraio_23/libia-varie-posizioni-olimpio_cdd9ab38-3f17-11e0-ad3f-823f69a8e285.shtml

lunedì 14 febbraio 2011

Lettera aperta a un intellettuale egiziano

Di Yair Lapid

Ho cercato il tuo viso fra le masse, in tv, per più di due settimane. Per un attimo mi è sembrato di vederti in piazza al-Tahrir, circondato da estranei, mentre fotografavi i soldati con il tuo cellulare, ma forse è stata solo la mia immaginazione.
Come molti israeliani, la vostra rivoluzione mi riempie sia di speranza che di preoccupazione. Spero che funzioni, perché ve la meritate, esattamente come ogni persona al mondo si merita di vivere da libero cittadino, in un regime democratico, con la possibilità di determinare il proprio destino. Tuttavia sono anche preoccupato, e lo sono proprio a causa tua e dei tuoi colleghi, gli intellettuali egiziani, che per anni sono stati alla testa delle campagne di odio e di paura contro Israele. E non posso fare a meno di domandarmi: è in questa direzione che intendete portare il vostro nuovo Egitto?
Annullerete il nostro trattato di pace? Intendete continuare a dare agli israeliani la colpa di tutti gli insuccessi del vostro paese? Andrete a unire le vostre forze a quelle dei Fratelli Musulmani per dare vita a un altro bellicoso stato mediorientale, fondato sull’odio contro le donne, contro la democrazia, contro gli ebrei? O forse dovrei innanzitutto farti un’altra domanda: qual è la tua definizione di intellettuale?
Non mi aspetto neanche per un momento che tu condivida la nostra politica verso i palestinesi. Spesso non la condivido neppure io. Ma gli intellettuali sono persone che dovrebbero essere in grado di rispondere alla domanda “chi sono io?” non soltanto rispondendo alla domanda “contro chi sono io?”. Gli intellettuali dovrebbero saper rispondere alla domanda “in che Dio credo?” non solo dicendo “quale Dio detesto”. Gli intellettuali dovrebbero poter rispondere alla domanda “quale bandiera impugno?” senza dover dire “quale bandiera do alle fiamme”.
L’Egitto esiste da più di cinquemila anni, avete inventato la geometria, l’astronomia e la carta; siete un popolo antico e fiero, responsabile del proprio destino. Nessuno, tranne voi stessi, è responsabile di ciò che vi è accaduto. Nessuno, tranne voi stessi, è responsabile per ciò che deve ancora avvenire.
Leggo pubblicazioni cariche di odio sui vostri giornali, appelli al boicottaggio, proclami apertamente antisemiti, e invece di arrabbiarmi mi domando: come può essere che la pretesa di dare agli israeliani la colpa di tutti i vostri guai non risulti insultante innanzitutto a te stesso? Sei una persona istruita, amico mio, hai letto tutte le grandi opere dal “Contratto sociale” di Rousseau alla “Trilogia del Cairo” di Naguib Mahfouz, e sai bene quanto me – forse anche più di me – che l’odio è la consolazione patetica e pericolosa di coloro che non stimano se stessi. Guardati dentro per un momento, dai un lungo sguardo in profondità e dimmi: è davvero Israele la causa di tutti le pene dell’Egitto? Non hai consapevolezza, in fondo al cuore, che si tratta di una pretesa ridicola? È forse Israele che impedisce ai giovani egiziani di trovare un onesto lavoro che dia loro uno stipendio decoroso? Siamo forse noi israeliani che spingiamo i vostri funzionari pubblici a saccheggiare le casse dello stato? Siamo forse noi che abbiamo contraffatto i risultati delle vostre elezioni? Siamo stati forse noi ad impedirvi di realizzare un sistema sanitario pubblico? E che dire di un sistema educativo? Di una agricoltura moderna? Di un’industria sviluppata? E se anche avessimo voluto fare tutto questo, pensi davvero che ne avremmo avuto modo? Credimi, amico mio, non siamo poi così capaci. Anche noi abbiamo i nostri problemi, i nostri poveri, e persino le pallottole che uccidono leader che hanno osato inseguire un sogno.
Voi oggi avete l’opportunità di ricostruire il vostro paese. Ma volete fondarlo sulla verità, o su una menzogna perversa e patetica che vi condannerebbe ad altri cento anni di inutile rabbia? Il nostro comune antenato Abramo disse: “Non ci sia discordia tra me e te, né tra i miei pastori e i tuoi pastori, perché siamo fratelli”. Non c’è nessun conflitto fra noi, amico mio. E non abbiamo alcuna pretesa di decidere al vostro posto come debba essere il vostro paese, o chi debba governarlo. Vi offriamo la nostra amicizia, la continuazione della pace fra eguali che predomina fra noi, e il nostro riconoscimento del fatto che nessuno, tranne voi, può gestire la vostra vita da uomini liberi.
La risposta che ci offrirete sarà decisiva per molto più che non semplicemente le future relazioni con un piccolo stato separato da voi da un deserto; giacché, dopo che avrete completato la vostra battaglia contro il regime, avrà inizio una battaglia molto più grande: in che genere di paese tipo volete vivere? Su quali principi sarà fondato? Quale sarà il suo carattere? Sceglierete la facile soluzione di addossare ad altri tutta la colpa dei vostri problemi? O sceglierete la soluzione difficile e coraggiosa di guardare in faccia la vostra gente e dire: dipende soltanto da noi.

(Da: YnetNews, 12.2.11)
http://www.israele.net/articolo,3060.htm

venerdì 11 febbraio 2011

Mubarak si arrende: "Mi dimetto" In Egitto il potere passa ai militari

L'annuncio del vicepresidente
Suleiman. E la piazza festeggia

CAIRO
Il vicepresidente egiziano Omar Suleiman ha annunciato in televisione che il presidente Hosni Mubarak ha rinunciato al suo mandato presidenziale e ha incaricato le forze armate di gestire gli affari dello stato.

Scene di giubilo e di gioia sono scoppiate a Medan Tahrir al Cairo subito dopo l'annuncio da parte di Suleiman. Decine di migliaia di persone che affollano la piazza del centro della capitale egiziana, sventolano esultanti la bandiera egiziana. La folla ha reagito con un immenso boato.

«Solo la Storia potrà giudicare il nostro presidente Mohammad Hosni Mubarak», ha commentato la tv di Stato egiziana. «Il presidente Mubarak si è dimesso e questa è stata la principale richiesta dei manifestanti», ha aggiunto l’annunciatore. «Fino alla fine il nostro rais si è dimostrato saggio e lungimirante nel fare la scelta migliore per la nostra cara patria», ha detto, mentre una voce in sottofondo proveniente dal suo auricolare gli dettava le frasi da ripetere ai telespettatori.

Mubarak ha lasciato questa mattina il Cairo per recarsi, insieme alla famiglia, nella sua residenza di Sharm-el-Sheikh. L’aereo del presidente egiziano è atterrato all’aeroporto mentre era in corso la preghiera del venerdì islamico. Il capo di stato si è recato «sotto un ingente dispiegamento di uomini della sicurezza verso il palazzo presidenziale di Sharm, a pochi passi da un importante hotel della zona. Poco dopo è atterrato nell’aeroporto locale anche un elicottero carico di bagagli che sono stati portati con l’ausilio di 3 auto verso il palazzo presidenziale». Fonti sostengono che Mubarak era accompagnato da un alto ufficiale dell’esercito ma non dai suoi familiari. Secondo il sito «il fatto che abbia portato molte valigie può voler dire che dovrebbe espatriare direttamente dall’aeroporto di Sharm».

http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/388616/

sabato 5 febbraio 2011

"Errori sull'Egitto come con l'Iran" Su Obama lo spettro di Carter

Le accusa di idealismo affiorano nei commenti di stampa e sui blog specializzati. Nuova apertura del presidente Usa ai manifestanti: "Sentiamo la vostra voce"

di VITTORIO ZUCCONI

C'È uno spettro che si aggira nella Casa Bianca: il suo nome è Jimmy Carter. È il volto dell'uomo che incarnò dolorosamente i limiti delle buone intenzioni. A ogni ora che sgocciola via senza uno happy ending in Egitto, Obama deve camminare al buio, grazie a servizi di intelligence ancora una volta addormentati e colti di sorpresa, come nella Russia del dopo Breznev, come nell'Iran dello Scià, come nell'Egitto di Mubarak, sul filo esilissimo teso fra le pressioni per cambiare l'amico di ieri e la sensazione che l'America voglia cucirsi un dopo-regime su misura, sapendo che non esistono opzioni militari da sganciare sul Cairo per cambiare regime a forza.
Il ricordo del disastro del 1979, che come oggi ha visto la Cia e i servizi di spionaggio clamorosamente colti alla sprovvista da un evento epocale, torna come brividi di una febbre che puntualmente riaffiora quando Washington misura la distanza che corre fra predicare la democrazia in casa altrui e ottenerla. Sono giorni che qui ricordano troppo da vicino il trono dello Scià spazzato via dalle piazze in rivolta a Teheran, e l'Iran trasformato dal più solido alleato americano nella regione al mortale nemico dell'Occidente satanico, mentre Carter esitava e si torceva impotente le mani, fino alla cattura degli ostaggi e alla disastrosa spedizione per liberarli. Gli eventi che diedero il colpo di grazia alla vacillante presidenza di Carter.

Comincia, sulle pagine dei giornali, nelle chat e nei blog della Rete, nelle domande dei giornalisti che ieri sera hanno confrontato
il Presidente in diretta teletrasmessa, a riaffiorare la maledizione di una domanda che ricorre a ogni crisi internazionale, dagli anni della vittoria dei comunisti di Mao Zedong sui nazionalisti di Chang Kaishek in Cina (altra "sorpresa"): chi ha perso l'Egitto? Per ora, sulle pubblicazioni come il National Journal o nei blog degli esperti di cose mediorientali come il professor Juan Cole, la risposta è ancora negativa, o cauta. Barack Obama non è Jimmy Carter, l'Egitto non è l'Iran, la piazza del Cairo non è pilotata dai chierici sciiti fondamentalisti e, soprattutto, l'Egitto non è ancora stato perso da nessuno.

Anzi, la sterzata che Obama e Hillary Clinton hanno impresso alla posizione americana passando dall'attendismo pilatesco e chiaramente spiazzato delle prime ore alla richiesta pubblica di andarsene subito, ripetuta anche ieri sera a Mubarak, fanno credere che questa volta, a differenza di trentadue anni or sono, l'America abbia virato per non trovarsi a veleggiare controvento.

Ma il confine fra invocare l'intervento politico degli Usa e maledirne l'ingerenza nel resto del mondo, è sempre labilissimo, perché i precedenti contano. Nell'identificazione fra il detestato regime del "Pavone", il trono dei Pahlavi, e quell'America che aveva organizzato il rovesciamento del presidente eletto, Mossadeq, per controllare il petrolio iraniano, immediatamente collocò Washington fra i demoni da esorcizzare. Anche nell'Egitto del 2011 i trent'anni di sostegno a Hosni Mubarak appannano la credibilità della Casa Bianca, come quella degli europei.

"Sentiamo la vostra voce", ha ripetuto ieri Obama. Per ora, anche l'opposizione repubblicana a Obama si affida alle scelte del Presidente senza contestarle, come ha fatto uno dei massimi leader repubblicani, il senatore Mitch O'Connell. Emergono, ma senza acuti isterici o scatti di islamofobia, le paure per il movimento dei Fratelli Mussulmani, la sola grande forza organizzata nell'opposizione a Mubarak. Si sa, e rassicura, che l'Egitto, con modeste riserve di greggio, per sopravvivere deve necessariamente affidarsi al resto del mondo e ai suoi buoni rapporti internazionali, così come il suo esercito si regge sui due milioni di dollari americani annui per esistere.
Eppure, un elemento in comune fra il 2011 e il 1979 che spalancò la porta a Reagan dopo l'umiliazione di Carter esiste e inquieta i giorni della Casa Bianca. Come Carter, uomo di impeccabile reputazione e di immensa buona volontà tradotte nella pace di Camp David fra Begin e Sadat, anche Obama appare come un uomo mosso dalle migliori intenzioni, ma incapace di tradurle in azione. Israele, con Netanyahu troppo debole in casa propria, gli ha sbattuto la porta in faccia alla richiesta di congelare la propria espansione nelle terre che dovrebbero formare il futuro stato palestinese. L'Iran ha continuato a muoversi sulla strada dell'energia nucleare. La Cina non dà alcun segno di allentare la morsa sul dissenso né di permettere alla propria moneta di flottare sui mercati e quindi di ridurre la competitività delle sue esportazioni drogata dal basso valore del renminbi.

Obama predica bene, come bene predicava il devotissimo insegnante di dottrina georgiano, Jimmy Carter, ma il mondo non ascolta. Resta la sincera, solenne invocazione alla "democrazia" ripetuta anche ieri sera, senza sapere che cosa la democrazia possa produrre. Negli anni del dopoguerra, quando in Grecia si tennero libere elezioni che i comunisti sembravano certi di vincere, fu chiesto al presidente Eisenhower se si rendesse conto del rischio. "È il rischio della democrazia - rispose imperturbabile il vecchio generale - quando la si invoca, poi di deve essere pronti a vivere con i suoi risultati".

(05 febbraio 2011) http://www.repubblica.it/esteri/2011/02/05/news/errori_sull_egitto_come_con_l_iran_su_obama_lo_spettro_di_carter-12081081/?ref=HREA-1

giovedì 3 febbraio 2011

IL MONDO ARABO E LE RIVOLTE DEL PANE

di Giulio Albanese, missionario comboniano

La "rivolta del pane" che sta interessando trasversalemnte il Nordafrica, dall'Algeria all'Egitto, con epicentro in Tunisia, è sintomatica del malessere che attanaglia quei Paesi del mondo arabo che, più di altri, hanno instaurato in questi anni buoni rapporti con l'Occidente. Stiamo parlando di potenti oligarghie capaci di seminare il terrore attraverso la repressione tipica dei governi dittatoriali, quella che soffoca, per sua stessa natura, qualsiasi istanza democratica sollevata dalle opposizioni.
Emblematico è l'esempio del ventennale regime tunisino di Ben Alì, un personaggio capace di monopolizzare la vita politica nazionale, facendo credere, a certe sprovvedute cancellerie europee, di avere il sostegno delle folle. La sicurezza rappresentava per l'ex presidente tunisino un "chiodo fisso", non solo per assicurare la protezione dei turisti, ma soprattutto per garantire al suo Governo il pieno controllo della nazione nelle sue molteplici articolazioni. Sta di fatto che da quelle parti la questione sociale è davvero rovente e potrebbe, prima o poi, manifestarsi in molti altri Paesi del Sud del mondo, considerati al momento fuori pericolo.
Il timore nasce dal pericoloso sommarsi, su scala planetaria, dei costi eccessivamente elevati delle derrate agricole con effetti devastanti sui ceti meno abbienti.
Si tratta di una crisi economica generale e persistente, che priva milioni di persone, particolarmente i giovani, del proprio posto di lavoro. A ciò si aggiunga il fatto che ogni variazione benchè minima di prezzi e tariffe, dal costo del carburante ai servizi della telefonia cellulare, intacca inesorabilmente i redditi, ormai ridotti all'osso, della povera gente. Nel frattempo, molti giovani sono costretti a "raschiare il barile" per far fronte alla spesa pubblica, falcidiati come sono dalla crisi finanziaria globale e dall'incertezza di un sistema che fa acqua da tutte le parti.
Qualcuno, anche da noi qui in Italia, vorrebbe che l'economia nel suo complesso fosse sempre e comunque un cane sciolto. Questi sono i risultati.

Tratto da famiglia cristiana n. 6/2011

martedì 1 febbraio 2011

La gran marcha contra Mubarak reúne a cientos de miles de egipcios

Ola de cambio en el mundo árabe

El Baradei insta a Mubarak a abandonar el poder antes del viernes para evitar "un baño de sangre".-Jóvenes, estudiantes, profesionales y familias enteras se reúnen en la plaza de Tahrir, donde la oposición espera juntar a más de un millón de personas

ENRIC GONZÁLEZ / NURIA TESÓN - El Cairo - 01/02/2011


Cientos de miles de personas participan a estas horas en la gran marcha convocada por el movimiento opositor en el centro de El Cairo para exigir la dimisión del presidente egipcio, Hosni Mubarak, y el final de sus 30 años de régimen. La cadena de televisión Al Yazira, cuyas cámaras siguen en directo el desarrollo de la marcha, asegura que la protesta ha reunido a un millón de personas. Desde las once de la mañana (hora española), la plaza de Tahrir (de la Liberación), epicentro de las protestas para exigir reformas democráticas en el país árabe, es escenario de la multitudinaria manifestación bajo el lema "Abajo Mubarak, todos contra Mubarak".

El líder opositor y premio Nobel de la Paz Mohamed El Baradei, que participa en la marcha, ha instado al presidente egipcio a que abandone el poder y salga del país antes de este viernes para evitar "un baño de sangre". Toda la oposición, incluido los Hermanos Musulmanes, la gran fuerza islamista de Egipto, acaba de llegar a un acuerdo basado en cuatro puntos: 1) Que Mubarak deje el poder 2) Disolución del Parlamento 3) Nueva Constitución 4) Creación de un Gobierno de transición.

Además, se constituirá un grupo de sabios encargado de establecer los mecanimos de diálogo para ordenar la transición, en el que participarán El Baradei, Amr Musa (secretario de la Liga Árabe) y Ahmed Zewail (premio Nobel de Química en el año 1999), que reside actualmente en Estados Unidos y ha sido llamado para participar en este cónclave. Se espera su llegada a El Cairo esta misma tarde.

Mosaico social

En la protesta participa un amplio espectro de la sociedad egipcia: gente joven, estudiantes, profesionales, familias enteras con sus hijos, muchos de ellos bebés, y egipcios con mayor poder adquisitivo que están aportando dinero para sufragar la comida y el agua para la multitud. Cada uno cuenta su historia, cómo está viviendo estos ocho días de revolución ciudadana contra la opresión de un régimen que parece tocar a su fin. Muchos de los congregados cantan y llevan flores y pancartas con lemas como "Amo Egipto".

En el centro de la plaza, además de pancartas en las que se reclama la salida de Mubarak y el regreso de la democracia, se ha instalado una gran pantalla en la que se están proyectando fotos de las protestas para romper así la censura de la prensa oficial egipcia, que no está informando de lo que ocurre en la calle.

Entre la multitud, hay muchos extranjeros. A la entrada de la plaza se reparten octavillas en árabe, inglés, francés e italiano que muestran el respaldo de "la comunidad internacional residente en Egipto" a las demandas de los ciudadanos. "Hemos hecho la parte más difícil tomando las calles. Ahora depende de los intelectuales y los políticos que lleguen a un acuerdo y nos ofrezcan alternativas", asegura Walid Abdel-Muttaleb, un hombre de 38 años que ha secundado la marcha.

Ya desde primera hora la plaza ha ido llenándose de miles de personas que se han unido a aquellos que, una noche más, han acampado en la plaza desafiando el toque de queda impuesto por el Gobierno cuando se iniciaron las protestas hace ocho días con el balance provisional de 125 muertos. Poco después del mediodía, el lugar estaba a rebosar aunque seguía llegando gente.

El Ejército, testigo de la protesta

Después de que ayer el Ejército considerara "legítimas las protestas" y anunciara que "no recurrirá al uso de la fuerza contra el pueblo", el despliegue de soldados que está alrededor de la plaza ha tenido como misión canalizar la entrada de los miles de manifestantes. La gente se agolpa en torno a las dos únicas vías para acceder al recinto, porque las otras cinco calles que culminan en la plaza han sido cerradas por los soldados como medida de seguridad. Los uniformados se ciñen a identificar a los manifestantes y a revisar mochilas y bolsas pero en ningún momento han utilizado la fuerza. Los cientos de periodistas internacionales que cubren la crisis en Egipto tampoco están teniendo problemas para entrar e informar desde el interior de la plaza.

Marchas en Alejandría y Suez

El Cairo no es la única ciudad donde el movimento anti Mubarak exhibe hoy su fuerza. En Alejandría (al norte del país) se desarrolla otra marcha del millón, al igual que en Suez, donde alrededor de 200.000 personas se han concentrado y han gritado lemas como "revolución por todas partes". Para amortiguar el impacto de estas movilizaciones, el Gobierno ha decretado el cierre del servicio ferroviario y de muchas carreteras.

Entretanto, El Baradei, en declaraciones recogidas por The Independent, se ha mostrado convencido de que Estados Unidos, tradicional aliado de Mubarak, ha perdido la confianza en él y es consciente de que sus días "están contados", al tiempo que ha condenado los "actos criminales" cometidos por el régimen para perpetuarse.

De hecho, el Gobierno estadounidense ha exigido, a través de un comunicado en su página web , que todo su "personal no esencial" destinado en Egipto salga del país: "El 1 de febrero, el Departamento de Estado ha ordenado la salida de Egipto de todo el personal gubernamental estadounidense no esencial y de sus familias a la luz de los últimos acontecimientos". Además, ha asegurado que el Departamento de Estado seguirá facilitando la evacuación de los ciudadanos estadounidenses que necesiten ayuda para salir del país egipcio. También ha advertido a sus ciudadanos de que, aunque el aeropuerto de El Cairo está abierto y está operativo, los vuelos pueden verse interrumpidos y los traslados verse "afectados por las protestas".

A la cascada de peticiones de libertad se ha unido hoy el primer ministro turco, el islamista moderado Recep Tayyip Erdogan, que ha recomendado a Mubarak que "escuche las demandas" de sus ciudadanos. "Escucha las protestas y las demandas extremadamente humanistas de los ciudadanos", ha señalado Erdogan durante un discurso ante los miembros del partido gobernante AKP."Atiende sin dudarlo las demandas de libertad de los ciudadanos", ha añadido.

http://www.elpais.com/articulo/internacional/gran/marcha/Mubarak/reune/cientos/miles/egipcios/elpepuint/20110201elpepuint_5/Tes