lunedì 29 marzo 2010

Hamas ricorda a tutti che esiste ancora, e controlla Gaza

di Amos Harel e Avi Issacharoff


L’imboscata palestinese di venerdì scorso in cui sono morti due soldati israeliani e un terrorista palestinese costituisce un doloroso promemoria del problema che tutti cercano di dimenticare: la striscia di Gaza.
Fino a venerdì anche a Israele conveniva ignorare la dura realtà di Gaza e la bomba ad orologeria che essa è diventata. Autorità Palestinese e Stati Uniti si sono comportati come se l’unico problema che minaccia il processo di pace fra israeliani e palestinesi fosse quello degli insediamenti (e delle abitazioni ebraiche a Gerusalemme). Ma la situazione reale è un tantino differente. Un milione e 400mila palestinesi vivono nella striscia di Gaza sotto dure condizioni economiche e sotto il controllo di Hamas. Hamas non accetterà di sgombrare quel territorio tanto presto, neanche se Israele e Autorità Palestinese firmassero domani un accordo di pace. Così, nel contesto di questo gioco al fare “come se”, il governo può continuare a immaginare un accordo sulla base del principio “due stati per due popoli”, ma in pratica non c’è ancora nessuna soluzione per i problema di Gaza.
La tempistica dell’attentato di venerdì era ideale, per Hamas. Un giorno prima dell’apertura del summit della Lega Araba, dove non s’è nessuna rappresentanza di Hamas, gli stati arabi hanno ricevuto una sanguinoso memento dell’esistenza dell’organizzazione, e i mass-media arabi hanno dato più attenzione a ciò che accadeva a Gaza che al summit dei leader arabi.
I recenti scontri a fuoco, tuttavia, non significano che Hamas abbia interesse a fomentare adesso una guerra. Non v’è dubbio che Hamas è soddisfatta della rinnovata attenzione che i mass-media hanno dato a un territorio che aveva cessato di stare al centro dell’attenzione mondiale, ma non sembra che, a questo punto, vi sia la volontà da parte di Hamas di innescare una vera escalation. L’organizzazione islamista palestinese è principalmente interessata a ricordare a Israele. Autorità Palestinese e Stati Uniti che esiste ancora.
Uno dei problemi che Hamas deve oggi affrontare è che non ha quasi nulla da offrire agli abitanti della striscia di Gaza, a parte forse jihad (guerra santa) e istishhad (atto di martirio). Non è nemmeno certo che sia stata Hamas a riuscire a colpire i soldati delle Forze di Difesa israeliane vicino al confine dal momento l’attacco è stato rivendicato da ben quattro diverse organizzazioni palestinesi. Comunque, il fatto stesso che Hamas si sia attribuita il “merito” dell’incidente attesta la sua necessità di districarsi dal cono d’ombra dell’attenzione internazionale in cui la striscia di Gaza era finita.
Era be triset, sabato scorso, vedere le immagini via satellite da Gaza con diverse centinaia di abitanti palestinesi del nord della striscia che marciavano con volti impassibili verso l’abitazione del comandante di Hamas Mahmoud al-Mabhouh ucciso in Dubai, apparentemente per “celebrare” l’enorme “successo” militare consistente nell’aver ammazzato due soldati israeliani. In effetti non resta loro molto altro da celebrare, a Gaza.

(Da: Ha’artez, 28.3.10)
http://www.israele.net/articolo,2785.htm

sabato 27 marzo 2010

Gaza: ecco il risultato della politica pro-Hamas europea




Quando un personaggio dell’importanza della baronessa Catherine Ashton si reca a Gaza e parla di tutto fuorché del popolo palestinese oppresso da Hamas, quando da ogni parte arrivano inviti a riprendere il dialogo tra ANP e Israele e si fa finta di non vedere l’ingombrate presenza di Hamas, quando si attacca continuamente una sola parte (Israele) e si giustifica l’operato dell’altra (Hamas), allora succede quello che è successo ieri sera a Gaza quando un gruppo di terroristi di Hamas e di Jaljalat (un gruppo vicino ad Al Qaeda) attacca una pattuglia israeliana allo scopo di prendere prigionieri militari israeliani uccidendone due.

Non si può non pensare che i vertici di Hamas (che ha rivendicato l’azione) e di Jaljalat non sapessero che Israele avrebbe reagito. Lo scopo era proprio quello, far reagire Israele e magari mettere sul piatto qualche decina di morti civili. Già da ieri sera fonti di Hamas riferivano che alcuni carri armati entrati nella Striscia di Gaza stavano sparando sulla popolazione, notizia chiaramente falsa ma sufficiente per scatenare i soliti noti nelle solite condanne all’esercito israeliano. Dell’attacco terroristico di Hamas nemmeno una parola. Di condanne poi non se ne parla.

Ma è normale, tutto normale. Hamas approfitta solo degli assist che gente come la Ashton gli lancia, approfitta che tutto il mondo in questo momento sia schierato dalla sua parte, non dalla parte del popolo palestinese che come sempre viene usato come carne da macello (anche dall’occidente), proprio dalla parte di Hamas che, fino a prova contraria, è considerato dall’Unione Europea un movimento terrorista. Questo qualcuno dovrebbe ricordarlo alla Ashton.

Ora speriamo che l’episodio di ieri sera sia solo un fatto isolato, ma obbiettivamente ci crediamo poco. Noi, come tanti altri, pensiamo che sia solo l’inizio di una strategia dell’escalation studiata a tavolino per costringere Israele a reagire, esattamente come successe prima dell’operazione Piombo Fuso. Per questo chiediamo all’Unione Europea di condannare senza mezze misure l’attacco terroristico di ieri sera, chiediamo che l’Europa lavori per il totale isolamento di Hamas e, quindi, per il bene della popolazione palestinese. Chiediamo che i politici europei smettano di sostenere il gruppo terrorista palestinese, un sostegno che danneggia la popolazione palestinese. Chiediamo che si smetta di strumentalizzare e usare la popolazione palestinese e che si lavori seriamente al suo benessere estromettendo da qualsiasi contesto Hamas, l’unico vero responsabile della attuale situazione di Gaza.

Per questo abbiamo inviato un esposto al Parlamento Europeo affinché emetta una dura condanna contro Hamas e affinché faccia chiarezza sul comportamento della baronessa Catherine Ashton che, nelle vesti istituzionali di rappresentante della politica estera europea, ha deliberatamente e apertamente sostenuto un gruppo considerato terrorista proprio dall’Unione Europea. Nell’esposto abbiamo chiesto che Catherine Ashton renda conto pubblicamente del suo comportamento e che chiarisca definitivamente la sua posizione o, in alternativa, che si dimetta dal suo incarico.

Miriam Bolaffi

Tratto da Secondo Protocollo Unconventional defender of Human Rights
http://www.secondoprotocollo.org/?p=740

mercoledì 24 marzo 2010

Giocare col fuoco a Gerusalemme e scottarsi a Ramallah

di Avi Dichter


Gerusalemme è il cuore della nazione ebraica. Eppure, nonostante il suo status di più sacro sito ebraico, lo Stato d’Israele ha fatto del Monte del Tempio di Gerusalemme un luogo di libertà religiosa: un fenomeno che non si era registrato per secoli, né sotto gli ottomani, né sotto gli inglesi e nemmeno sotto i giordani.
Ciò nondimeno esiste oggi una fazione di estremisti musulmani che istiga alla violenza sul Monte del Tempio, nel tentativo di dissuadere i fedeli ebrei dal recarsi al (sottostante) Muro Occidentale (“del pianto”) e per creare ad arte un’atmosfera di conflitto nella città e nell’intera regione.
A peggiorare le cose, questi facinorosi godono dell’appoggio dell’Autorità Palestinese, che incoraggia tale conflitto come evidente diversione dal suo perdente scontro interno contro Hamas nella striscia di Gaza. Anziché affrontare i veri problemi che ha in casa con Hamas, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) dedica tempo e risorse a fomentare un pericoloso gioco a Gerusalemme. La sua riluttanza ad fronteggiare le vere minacce interne per condurre piuttosto una superflua guerra religiosa e demagogica non farà altro che compromettere la stabilità del suo stesso governo in Cisgiordania, come già accaduto nella striscia di Gaza. Il cinismo dell’Autorità Palestinese combinato ai tentativi di Israele di garantire la libertà religiosa toccano un tasto inquietante. Mi fanno venire in mente ciò che disse il compianto filosofo americano Eric Hoffer: “Quelli che mordono la mano che dà loro da mangiare solitamente sono gli stessi che leccano lo stivale di chi li prende a calci”.
Se non verranno fermate, le manifestazioni violente al Monte del Tempio possono solo portare all’infelice scenario di Israele costretto a far rispettare la legge in maniera tale da rischiare di violare la libertà di religione di alcuni. Uno scenario che tuttavia va contro il tessuto stesso della democrazia israeliana. Pertanto Israele continuerà a proteggere la libertà di religione nella nostra capitale per i fedeli di tutte le fedi. Allo stesso tempo, però, il mondo deve capire chiaramente che Gerusalemme non tornerà alla condizione dei confini pre-’67 (che la spaccavano a metà come una Berlino mediorientale).
Tuttavia, benché questa sia una politica chiara e di importanza strategica che sta al cuore del più vasto consenso in Israele, il governo israeliano deve essere più sensibile sul piano tattico nei progetti edilizi a Gerusalemme: cosa essenziale per non compromettere la già fragile fiducia sulla questione di Gerusalemme (posto che vi sia della fiducia, in effetti). Gesti come l’annuncio da parte del governo di nuove unità abitative all’inizio di questo mese sono l’esatto esempio di una gaffe grossolana che ha messo in imbarazzo non solo i nostri alleati americani, ma anche molti israeliani, con effetti controproducenti.
Prima che vengano anche solo concepiti dei negoziati attorno a Gerusalemme, il livello di fiducia tra Israele e palestinesi deve elevarsi come mai prima d’ora, cosa che può essere ottenuta grazie a misure volte a costruire fiducia, e che sarà possibile solo dopo che saranno risolte le questioni di Gaza e Cisgiordania, dei blocchi di insediamenti e della Valle del Giordano.
Al momento ci troviamo di nuovo sul punto di iniziare colloqui, questa volta attraverso un mediatore. Sicché, dal momento che ci troviamo alla vigilia dell’avvio di un nuovo round di negoziati, è cruciale che questa volta si trovi una soluzione efficace, e per questo dovremmo tenerci tutti alla larga da gioco fin troppo familiare dello scaricabarile. Credo che l’unico modo per raggiungere questo obiettivo sia di condurre negoziati diretti, con il sostegno americano.
Navigati esponenti dell’Autorità Palestinese tra cui Muhammad Dahlan convengono che coinvolgere terze parti come mediatori intralcerà soltanto il processo. Per cui, ripeto: l’unica strada in assoluto verso un accordo durevole sono i negoziati diretti. Qualunque reale soluzione alle questioni nella nostra regione, con i palestinesi e soprattutto a Gerusalemme, può e deve essere risolta solo attraverso colloqui diretti. Sarà difficile, ci vorrà tempo, potrebbe essere necessario persino un miracolo: ma per fortuna nella città santa i miracoli sono sovente possibili.

(Da: Jerusalem Post, 21.3.10)
http://www.israele.net/articolo,2781.htm

domenica 21 marzo 2010

Mo: dopo kamikaze, un faro di speranza da Jenin


La cooperazione fra un discepolo di Arafat e uno di Rabin
20 marzo (di Aldo Baquis)

JENIN (CISGIORDANIA) - La statua di un cavallo rampante prodotto saldando le parti di carrozzeria di automobili distrutte durante la rivolta, in bella mostra in una piazza del centro: così la città cisgiordana di Jenin - un tempo considerata la 'capitale dei kamikaze' palestinesi - rende omaggio alla intifada. Ritenuta luogo di disperazione, Jenin è divenuta col tempo un faro di speranza. Nelle sue strade pattuglie della polizia palestinese mantengono l'ordine, il crimine è stato azzerato e i responsabili locali dell'Anp stanno lavorando a progetti che in un prossimo futuro - in una zona afflitta da alti tassi di disoccupazione - potrebbero dare lavoro a 15 mila operai. Dietro a questi sviluppi, che non hanno eguale in altre zone della Cisgiordania, ci sono due uomini che in passato hanno combattuto per i rispettivi popoli e che adesso cercano di costruire una cooperazione sui due versanti della Barriera di sicurezza.

A Jenin il motore pulsante della operazione è il governatore Qadoura Mussa, membro del Consiglio rivoluzionario di al-Fatah. Ha alle spalle 12 anni di reclusione nelle carceri israeliane. "Gli israeliani chiedevano che a Jenin tornasse la stabilità. Lo abbiamo fatto. Adesso - dice all'ANSA e ad altri cronisti in visita - è giunto il momento di costruire il futuro". Alle sue spalle una grande immagine di Jenin e le fotografie di Yasser Arafat e di Abu Mazen. Era il 2005 quando in questo ufficio il telefono squillò. Dall'altro capo della linea c'era Dani Atar, responsabile del Consiglio regionale Gilboa, la zona israeliana che confina con la provincia di Jenin. Ex comandante militare, Atar è entrato nella politica negli anni Novanta per sostenere Yitzhak Rabin alla guida del partito laburista. Come Rabin, Atar ritiene che i presupposti della pace con i palestinesi vadano gettati in casa, più precisamente con gli arabi israeliani. Per anni ha provveduto ad elevare i servizi per la popolazione araba nella sua Regione, con gli aiuti degli insediamenti agricoli ebraici. "Gli arabi israeliani possono e devono essere un ponte di pace fra Israele e i palestinesi" conferma il suo vice, Eid Salim.

Nel moderno ufficio del Consiglio regionale Gilboa, in una zona verdeggiante di prosperose aziende agricole collettive, ai cronisti vengono illustrati i progetti definiti in questi anni dal volitivo tandem Mussa-Atar, col sostegno entusiasta del ministro spagnolo degli esteri Miguel Angel Moratinos e di Tony Blair, l'emissario del Quartetto. "Da quando abbiamo eretto la Barriera di sicurezza, la violenza è stata eliminata e possiamo progettare il futuro" spiega Atar. Nei pochi chilometri compresi fra Jenin e la Barriera dovrebbe sorgere una vasta area industriale. I prodotti passeranno poi in territorio israeliano: quando sarà pronta la ferrovia, le merci arriveranno in 45 minuti al porto di Haifa o in un tempo analogo al Ponte Sheikh Hussein, porta di ingresso per la Giordania. Da alcuni mesi il valico di Gilboa è inoltre aperto alla popolazione araba israeliana che compie adesso i suoi acquisti a Jenin: le vendite sono subito cresciute, la disoccupazione è calata, un cauto ottimismo ha cominciato a mettere radici. Se la comunità internazionale vuole dare una mano, Atar e Mussa non chiedono di meglio. Ad esempio il turismo potrebbe rafforzare le loro iniziative: Gilboa e Jenin propongono pacchetti turistici comuni per chi (studenti, sindacalisti, religiosi) voglia studiare l'edificazione della pace. "Non tutto però fila liscio" aggiunge Mussa, scuro in volto. "Di giorno parliamo di cooperazione con Atar, ma di notte le incursioni dell'esercito e le provocazioni dei coloni ci fanno compiere passi indietro". Eppure Jenin, la città che forse ha più sofferto per la intifada, ha una gran voglia di normalità. Alla periferia si sta completando uno stadio di calcio e su una collina vicina si staglia un moderno villaggio turistico circondato da uliveti, dotato di un albergo, di parchi giochi, di un museo di cultura palestinese e di un teatro da 2000 posti. "Sarebbe il posto migliore per firmare il trattato di pace fra Palestina ed Israele", sogna ad occhi aperti il proprietario.

Fonte: http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/associata/2010/03/20/visualizza_new.html_1735642037.html

giovedì 4 marzo 2010

La forza di Israele è necessaria per la pace

di Alexander Yakobson

Ci sono domande che sarebbe meglio non fare. Una volta fatte, però, non si possono più eludere.
In un articolo pubblicato su Ha’aretz lo scorso 21 febbraio, Dmitry Shumsky si domanda cosa accadrebbe alla popolazione ebraica d’Israele se Israele venisse sconfitto e conquistato da una coalizione arabo-iraniana. E risponde descrivendo uno scenario simile a quello dell’occupazione israeliana nei territori: amministrazione militare, posti di blocco, ordinamenti d’emergenza, repressione della resistenza del popolo occupato. In questo modo Shumsky vorrebbe sollecitare i suoi lettori israeliani ad immedesimarsi con le sofferenze dei palestinesi sotto occupazione, affinché comprendano come mai i palestinesi guardano con tanto rancore alla deprivazione della loro indipendenza nazionale.
In realtà, per comprendere il naturale desiderio d’indipendenza dei palestinesi e la loro rabbia verso l’occupazione non occorre affatto avventurarsi in arditi esercizi intellettuali. Tutte le ricerche mostrano che una larga maggioranza del pubblico ebraico israeliano condivide l’idea che debba essere creato uno stato palestinese nel quadro di un accordo di pace. In un sondaggio, più del 60% degli intervistati ha affermato di considerare la richiesta d’indipendenza palestinese perfettamente legittima. Ma un’analoga maggioranza afferma anche di non credere che i palestinesi permetterebbero a Israele di vivere in pace dopo che avessero ottenuto il loro stato indipendente.
Dunque coloro che predicano all’opinione pubblica israeliana nel suo complesso (in quanto distinta dalla destra ideologica) continuano a insistere nel tentativo di convincerla di qualcosa di cui è già convinta da tempo: che i palestinesi hanno diritto a un loro stato. E continuano a ignorare, invece, la questione che preoccupa davvero quell’opinione pubblica: e cioè se gli israeliani, una volta ritirati dai territori, riceveranno in cambio una ragionevole misura di pace. C’è da dubitare che questa opera di “persuasione” contribuisca minimamente alle chance di raggiungere un accordo e di porre fine all’occupazione.
Per quanto riguarda, poi, la questione di cosa c’è da aspettarsi in caso di sconfitta, ebbene: se mai esiste un modo per garantire che il pubblico israeliano non si identifichi affatto con le sofferenze dei palestinesi, è proprio quello di spingerlo a concentrarsi su questo interrogativo. Tutti coloro che vivono qui sanno benissimo che cosa toccherebbe in sorte agli israeliani in caso di sconfitta: certo non un’occupazione con posti di blocco e insediamenti o leggi d’emergenza, bensì un totale massacro.
Non c’è modo di verificare se questa previsione sia corretta, e speriamo di non doverla mai verificare nei fatti. Ma in ogni caso, non ci si può aspettare che gli ebrei israeliani – come qualunque altro popolo in una situazione analoga – pensi nulla di diverso. È un crudo dato di fatto che numerosissime guerre interne del mondo arabo, nel corso degli ultimi decenni, sono state accompagnate da stragi generalizzate di civili. E se questa è la sorte che devono attendersi arabi e musulmani per mano di altri arabi e musulmani, inevitabilmente l’israeliano medio si domanda: cosa capiterebbe alla “entità aliena” sionista? Giacché gli ebrei israeliani sanno bene che i loro vicini non li considerano un elemento legittimo in Medio Oriente, quanto piuttosto degli invasori colonialisti. Nemmeno Saddam Hussein considerava i curdi iracheni a questa stregua, eppure li ha trattati come li ha trattati. Stando così le cose, gli ebrei d’Israele semplicemente non possono supporre che una sconfitta porterebbe loro niente di diverso.
Pertanto, chiunque voglia contribuire alla pace farebbe meglio ad evitare di spingere gli israeliani a considerare possibili scenari di sconfitta, spiegando piuttosto che quegli scenari non sono realistici grazie alla forza di Israele: una forza che gli può permettere, fra l’altro, di correre dei rischi per un accordo di pace.
Finché questa forza è garantita, e a condizione che essa venga garantita, non c’è bisogno di approfondire cosa accadrebbe in caso di sconfitta. Basta farci solo un pensierino di tanto in tanto.

(Da: Ha’aretz, 02/03/2010)
http://www.israele.net/articolo,2763.htm

lunedì 1 marzo 2010

Arabi alla Knesset: la grande occasione mancata

di Seth J. Frantzman

I parlamentari arabo-israeliani che siedono alla Knesset non garantiscono ai loro elettori una rappresentanza di buona qualità. Se si deve giudicare unicamente in base ai loro proclami e alle loro sceneggiate, si deve concludere che operano per conto dei nazionalisti palestinesi più di quanto non facciano nell’interesse dei cittadini arabi israeliani che li hanno eletti. È una delle tante tragedie di questa realtà: il fatto che gli arabi israeliani partecipino a un florido sistema democratico e che tuttavia i loro rappresentanti eletti abbiano reso loro un pessimo servizio nel corso degli ultimi decenni.
Secondo il sito internet della Knesset, dalla nascita dello Stato vi sono stati 45 parlamentari arabi (accanto agli 872 parlamentari ebrei, e senza contare i 13 parlamentari arabi della comunità drusa). Tre di essi erano donne, sebbene due di esse siano state elette nelle liste di partiti ebraici (Hosniya Jabarra nel Meretz e la laburista Nadia Hilou).
Nella Knesset attuale (come sempre formata da 120 seggi), siedono nove parlamentari arabi, e cioè: per il partito Hadash, Muhammad Barakei e il cristiano Hanna Sweid; per la Lista Araba Unita-Ta’al, il beduino Talab a-Sanaa, Masud Gnaim, Ibrahim Sarsour e Ahmed Tibi; per il partito Balad, Said Nafa (in realtà druso, ma che si definisce arabo tout-court), Jamal Zahalka e Haneen Zoabi.
La prima Knesset (eletta il 25 gennaio 1949) comprendeva tre arabi: Tawfik Toubi (un personaggio straordinario, nato nel 1922 a Haifa, che sedette come comunista nel parlamento israeliano per dodici legislature), Amin-Salim Jarjura (ex militare dell’esercito ottomano e sindaco di Nazareth) e Seif e-Din e-Zoubi (che sedette alla Knesset dal 1949 al 1979 come eletto nelle liste di vari partiti). Due dei tre rappresentanti arabi nella prima Knesset erano membri del Partito Democratico di Nazareth, che faceva parte della coalizione di governo.
Il partito arabo Kidma Ve’avoda entrò nella seconda e terza Knesset con due membri, anch’esso partecipando alla coalizione di governo. Anche due altri due partiti arabi, la Lista Democratica per gli Arabi Israeliani e il Partito per l’Agricoltura e lo Sviluppo, sostenevano il governo nei primi anni dello Stato.
Nella quarta e quinta Knesset (1959-1977), il partito arabo Kidma Ufituah faceva parte della coalizione di governo. Il partito Shituf Ve’ahva partecipò ai governi e sedette alla Knesset per quattro legislature. Con l’ottava Knesset entrò nella coalizione di governo la Lista Araba per i Beduini e i Villaggi, guidata da Hamad Abu Rabiah.
Questa lunga lista di arabi – musulmani e cristiani – che non solo sedettero alla Knesset, ma portarono anche i loro partiti all’interno delle coalizioni di governo guidate dai laburisti, è un fenomeno unico dei primi decenni di vita dello Stato. Con la vittoria elettorale del Likud nel 1977 queste formazioni scompaiono. Anche quando il partito laburista ricomparve a capo del governo negli anni ’90, nessun partito arabo entrò con esso nella coalizione di governo. Motivo della scomparsa dei partiti arabi dalla maggioranza di governo è che, nel frattempo, la comunità araba israeliana aveva iniziato a eleggere rappresentanti sempre più estremisti.
Durante l’ottava Knesset (1974-1977) i due partiti arabi Kidma Ufituah e Lista Araba per i Beduini e i Villaggi si fusero dando vita alla Lista Araba Unita, che è durata in varie forme fino ad oggi. Hadash, che si reclamizza come partito comunista arabo-ebraico, si è formato nel 1977 dall’unione fra Rakach (il Partito Comunista Arabo) e i suoi alleati ebrei dell’estrema sinistra (antisionista). Da allora è stato presente alla Knesset in tutte le legislature.
Nel 1988 venne creato il Partito Arabo Democratico ad opera di Abdul Wahab Darawshe, originario di Iksal. Negli anni ’90, insieme a Taleb a-Sanaa si unì alla Lista Araba Unita. La piattaforma programmatica del partito prevedeva: riconoscimento dell’Olp, ritiro dai territori occupati e istituzione di uno stato palestinese.
Alla fine degli anni ’90 e all’inizio del 2000 entrò alla Knesset Ahmed Tibi come membro del Movimento Arabo per il Rinnovamento (Ta’al). Sempre alla fine degli anni ’90 entrò alla Knesset il partito Balad, sotto la leadership di Azmi Bishara di Nazareth. Balad è tuttora presente nella Knesset senza tuttavia Azmi Bishara, che è fuggito all’estero dopo essere stato incriminato alcuni anni fa per spionaggio a favore di Hezbollah.
La storia dei parlamentari arabi della Knesset è la storia di una grande occasione fallita. In altri paesi le minoranze nazionali, come i baschi, gli irlandesi nel Regno Unito, gli abitanti del Quebec o gli afro-americani [e si potrebbero citare esempi anche in Italia], hanno generalmente eletto rappresentanti che si sono presi cura dei loro interessi e hanno operato a loro vantaggio. Ma quando Tibi, condannando la negazione della Shoà, la mette in stretta relazione ai guai di Gaza (“vittima delle vittime”), sta forse favorendo la sua comunità di elettori? Quando Bishara passava informazioni di intelligence a Hezbollah, stava forse facendo gli interessi della sua gente a Nazareth che veniva bersagliata in quello stesso momento dai razzi Hezbollah insieme al resto della popolazione del nord di Israele? Quando Said Nafa del Balad ha incontrato in Siria il capo di Hamas Khaled Mashaal, stava forse aiutando i suoi elettori?
I parlamentari arabi israeliani da ascoltati consiglieri delle coalizioni di governo sulle questioni di interesse delle loro comunità, sono diventati rabbiosi estremisti farneticanti che impegnano la maggior parte del loro tempo a protestare per i “fratelli palestinesi” e curandosi pochissimo dei loro veri fratelli e sorelle che vivono in Israele.
Il loro fallimento danneggia la comunità arabo-israeliana che meriterebbe di meglio, ma è stata convinta essere “arabi leali” significa votare per le voci più estremiste e mai per i “collaborazionisti” della moderazione. La loro scomparsa dalla scena politica, la loro crescente estraneità da Israele e gli incessanti dubbi gettati sulla loro lealtà dalla destra israeliana continueranno finché loro, gli arabi israeliani, si rifiuteranno di svegliarsi da trent’anni di sonno elettorale.

(Da: Jerusalem Post, 16.2.10)