venerdì 27 gennaio 2012

I rischi del cinismo e dell'indifferenza: perché è importante ricordare

Il Giorno della Memoria e il valore della testimonianza

Il brivido di orrore che hanno avvertito, poche settimane fa, i lettori dei giornali e la moltitudine planetaria dei frequentatori del web è la prova di quanto sia necessaria la mobilitazione, e non una sola volta all'anno, per difendere il valore della memoria. Il giovane titolare di una palestra di Dubai, a caccia di clienti, ha infatti ideato cartelloni pubblicitari con la foto dell'ingresso del più noto e sinistro campo di sterminio nazista. Accompagnandola con uno slogan agghiacciante: «Magri come fosse Auschwitz». Quel che raggela non è soltanto l'accostamento tra il culto del fitness e i lager dove si sterminavano gli ebrei, ma il fatto che l'ideatore si sia permesso quest'infamia, raccogliendo almeno all'inizio una confortante, e in qualche caso entusiastica risposta dai vecchi e nuovi frequentatori della palestra. È l'ultimo inquietante segnale che spiega come sia un obbligo vigilare per non dimenticare.

I negazionisti dell'Olocausto, a cominciare dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, sono sempre in agguato, e il pericolo più grande è che, dopo la scomparsa degli ultimi sopravvissuti-testimoni, si faccia strada un oblio generalizzato, magari lasciando spazio a teorie infamanti, alimentate da una diffusa (e da alcuni voluta) ignoranza. Con l'obiettivo di cancellare una delle pagine più terribili della storia dell'umanità: l'annientamento di sei milioni di ebrei. Colpevoli di un solo crimine: appunto, di essere ebrei.

Per aiutare i giovani a conoscere, e quelli meno giovani a non dimenticare quanto accadde meno di 70 anni fa in un grande Paese europeo, anche noi abbiamo deciso di offrire un contributo, ripercorrendo il sentiero della sofferenza e della morte, con il fondamentale aiuto di un gruppo di sopravvissuti (Guarda il docu-web). Per dare un titolo al nostro lavoro, abbiamo preso a prestito da Goti Bauer, una eroica e generosa donna uscita viva dal campo di sterminio di Auschwitz, una frase laconica e tragicamente vera: «Salvi per caso». È proprio così. I pochissimi che sono tornati alla vita, dopo aver attraversato l'intero tunnel dell'orrore e della bestialità umana, ce l'hanno fatta soltanto grazie ad alcune fortuite circostanze. Alcuni hanno pagato persino da sopravvissuti un atroce supplemento di dolore. Guardati, anzi scrutati con sospetto perché erano riusciti a salvarsi.

Lo sterminio fu pianificato, organizzato e realizzato in un Paese importante, quella Germania patria di filosofi, di intellettuali, di musicisti, di letterati di straordinaria grandezza. Non si può giustificare l'orrore di una cieca acquiescenza con le umiliazioni subite dal popolo tedesco alla fine della prima guerra mondiale, quando i vincitori dettarono ai vinti condizioni durissime e spietate. Nulla di razionale può spiegare come gente colta e fiera si sia lasciata sedurre fino a spingere «democraticamente» nelle stanze del potere un uomo spietato e complessato: quell'Adolf Hitler che, dopo aver attaccato militarmente e ferocemente il mondo, stabilì la scientifica eliminazione di tutta la popolazione ebraica: in Germania e nei paesi europei occupati dai nazisti.

Eppure è accaduto in Europa! A parte qualche apprezzabile e minoritario movimento di opposizione, a parte l'inconcludente ma abbastanza diffusa microresistenza raccontata da Hans Fallada nel libro Ognuno muore solo, e a parte il coraggio di pochi temerari che cercarono di eliminare l'aguzzino che aveva «sporcato e offeso l'onore della Germania», e che pagarono con la morte la loro ribellione, la lucida follia di Hitler riuscì a prevalere per oltre un decennio, tra la «quasi indifferenza» del mondo. Jan Karski, l'agente segreto polacco infiltrato nei campi e poi esfiltrato perché potesse raccontare ai potenti della Terra il genocidio degli ebrei purtroppo non fu ascoltato. Se lo avessero ascoltato, la guerra contro Hitler sarebbe forse cominciata prima.

Pregavamo che arrivassero gli aerei a bombardare i campi di sterminio. Meglio morire così che nelle camere a gas», ha ripetuto più volte uno dei sopravvissuti più celebri, il premio Nobel Elie Wiesel. Siamo andati a cercare e abbiamo trovato alcuni di coloro che hanno vissuto per intero l'incubo che ha abitato l'«interminabile notte della ragione». Per gli ebrei greci, le deportazioni cominciarono alla vigilia della primavera dei 1943, da Salonicco, la città che è stata chiamata «Madre di Israele». Questo perché, allora, gli ebrei erano quasi il 50 per cento della popolazione della città, che contava 120.000 abitanti. I deportati furono circa 58.000. Ne tornarono poco più di 2.000. C'è chi si salvò perché conosceva il tedesco, come Heinz Kounio; o semplicemente perché, costretto ad adattarsi alla ferocia di Auschwitz-Birkenau, aveva una forza e un carattere d'acciaio come Benjamin Kapon; chi si salvò perchè poteva contare su un passaporto spagnolo - come Nina Benroubi, Rachel Revah e Raul Saporta - e quindi fu deportato in un campo, quello di Bergen Belsen, dove si moriva di fame e di freddo ma non vi era la spietata macchina della selezione di Auschwitz: cenno con la mano destra dell'ufficiale medico nazista per indicare camera a gas immediata per bambini, anziani e disabili; cenno con la mano sinistra per chi, a un primo esame, poteva servire per i più duri lavori manuali.

Per gli italiani, i treni dell'infamia partivano generalmente dal binario 21 della stazione centrale di Milano. Carrozze per il trasporto-animali stipate di ebrei, che prima raggiungevano il campo di Fossoli, vicino a Carpi, in provincia di Modena, dove avveniva la turpe consegna dei prigionieri ai nazisti. E si preparava il viaggio-in condizioni disumane- verso Auschwitz. Liliana Segre racconta come abbia cercato di sopravvivere tappandosi le orecchie per non sentire le grida, in tante lingue, di bambini strappati ai genitori, pur sapendo qual era il loro destino. Nedo Fiano racconta di come si salvò perchè conosceva il tedesco, e poi perché sapeva cantare e spesso doveva intrattenere gli aguzzini, ottenendo un po' di cibo oltre al rancio della vergogna: un litro di zuppa semiputrescente e 60 grammi di pane al giorno. Franco Schönheit racconta del vantaggio di avere un cognome tedesco e di avere soltanto il 50 per cento di sangue ebraico. Molti episodi dettagliati che spiegano quel «Salvi per caso»: prima la cattura, poi il viaggio, la vita nel campo di sterminio, il lavoro massacrante, le frustate al primo errore, il fumo dai camini, l'odore della carne bruciata. Poi il cammino della morte, al quale i deportati furono obbligati dai nazisti in fuga. E infine la liberazione, l'inizio di una nuova vita, il desiderio di dimenticare.

Per molto tempo questi sopravvissuti hanno taciuto. Da qualche anno si sono decisi a parlare, a raccontare, a spiegare, a dare puntigliosa, sofferta e dolorosa testimonianza di quel che hanno vissuto. Di quel «mostro» che da qualche parte, nel mondo, potrebbe ancora rinascere: perché quel «mai più!», gridato una volta all'anno, il 27 gennaio, Giorno della Memoria, non basta. Sta diventando quasi un esercizio retorico. Tutti sappiamo che riprodurre le condizioni di quell'orrore è purtroppo possibile se non si sorveglia costantemente. Se non ci si trasforma in intransigenti guardiani della democrazia e del rispetto dei diritti umani.
Ai sopravvissuti che abbiamo incontrato vogliamo dire un grazie di cuore e mandare un forte abbraccio. Le loro testimonianze aiuteranno a non cadere nell'abisso del cinismo, della menzogna, dell'indifferenza e dell'ignoranza.

Antonio Ferrari
Alessia Rastelli

http://www.corriere.it/cultura/12_gennaio_26/ferrari-memoria_57119422-483d-11e1-9901-97592fb91505.shtml

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