giovedì 28 gennaio 2010

Il giorno della memoria





Andrea Tarquini intervista Elie Wiesel, la Repubblica, 27-01-2010

«Io, Elie Wiesel, sopravvissuto e testimone, ricordo ancora oggi ogni singolo momento. Quando fummo chiusi nel Ghetto, quando vennero a prenderci, quando ci caricarono sui treni, quando arrivammo ad Auschwitz, quando vidi mia madre, mio padre e mia sorella portati a morire». Così Elie Wiesel, Nobel per la pace, attivista di primo piano per la pace e i diritti umani nel mondo, racconta l´Olocausto. Oggi, nella Giornata della Memoria, terrà un discorso al Parlamento italiano. Ascoltiamolo.

Professor Wiesel, come rammenta quegli anni tremendi?

«Rivedo ancora oggi ogni episodio. L´arresto in massa, la deportazione. Il viaggio atroce nei carri-bestiame fino ad Auschwitz. Ricordo cosa voleva dire sentirsi improvvisamente trattati come "Untermenschen", come subumani da eliminare. Ricordo quando, io ancora piccolo, restai solo ad Auschwitz. Fu terribile, è difficile descrivere cosa vuol dire restare solo, senza più la famiglia che hai visto sterminare, e al tempo stesso sentire che non sei solo, che non lo saresti stato mai più. Perché eri insieme a migliaia e migliaia di persone, trattati da subumani da eliminare come te, e al loro fianco sentivi la vicinanza della Morte. Ognuno di noi la sentiva, e al tempo stesso non vivevamo accanto alla Morte, vivevamo nella Morte».

Com´era possibile sopravvivere a questo sentimento?

«Penso ancora oggi che quando entrammo ad Auschwitz entrammo in un´altra Creazione, una dimensione speculare, parallela, opposta e negativa. Nella Creazione che conoscevamo la Germania era il cuore della cultura, la patria di una letteratura straordinaria espressa da una grande lingua, la terra dei migliori ingegneri. Ma là entrammo come in un mondo parallelo, fatto solo di "to kill and to die", di chi uccide e di chi muore».

Il genocidio pianificato con precisione industriale fu un crimine speciale, tutto tedesco?

«Vede, una delle cose più terribili che la Storia ci ha riservato è questa: nella prima guerra mondiale i tedeschi si comportarono bene, combatterono contro i pogrom zaristi all´Est. Per il popolo ebraico, la Germania era terra di cultura, di alta tecnologia, di grandi talenti letterari. Non ce lo aspettavamo. I nazisti riuscirono a mobilitare tutto il talento dei tedeschi - talento in ogni forma, di psicologi, scienziati, ingegneri, giornalisti - per l´Olocausto. Per questo quel crimine senza pari fu così atrocemente efficiente».

Lei oggi si fida dei tedeschi?

«Io non credo nella colpa collettiva. Solo i colpevoli sono colpevoli. Sono testimone, non giudice. Certo, purtroppo la Resistenza, l´opposizione al nazismo e alla Shoah, furono minoritari. Ma insisto, la colpa collettiva per me non esiste. E ammiro moltissimo Angela Merkel, perché lei che oggi guida la Germania sa parlare e agire nel mondo giusto: in nome della Memoria, e del diritto di Israele all´esistenza».

Qual è il significato della giornata della Memoria?

«Sono lieto di tenere un discorso al Parlamento italiano. E´ una giornata importante per tutto il mondo civile. Perché è fondamentale non solo ricordare, ma anche capire come e perché l´orrore assoluto accadde. E perché dimenticare è un grande pericolo, perché l´oblìo significa tradimento. Chi oggi chiede di dimenticare deve sapere che non sfugge a questa responsabilità: insisto, dimenticare vuol dire tradire la memoria delle vittime. E dai tradimenti non può mai derivare il bene».

E´ anche il pericolo posto dal negazionismo?

«Il più grande, pericoloso e attivo negazionista del mondo è Ahmadinejad, per questo conduco una campagna contro le sue posizioni. E´ il negazionista numero uno: nega in pubblico l´Olocausto, dichiara di volere bombe atomiche per distruggere Israele. Dovrebbe essere arrestato, dovrebbe venire tradotto davanti a un tribunale internazionale e processato dal mondo per incitamento a crimini contro l´umanità e all´odio razziale».

Una specie di Processo di Norimberga?

«Esiste già il Tribunale internazionale dell´Aja».

Lei è soddisfatto o no di come il mondo ricorda l´Olocausto?

«In Europa la situazione è migliorata. Gli Stati Uniti sono all´avanguardia: i due massimi memoriali sono a Washington e in Israele. In tutto il mondo percepisco più sensibilità di prima al tema. Forse perché alcuni di noi sopravvissuti sono ancora in vita. Il mondo comincia a pensare che un giorno, presto, non ci saremo più, e che è doveroso ricordare mentre siamo ancora in vita. Perché i sopravvissuti aiutano a tenere viva la Memoria, la comunicano al mondo di dopo l´Olocausto».

Ma quanto è grande il pericolo che, con sempre meno superstiti della Shoah ancora in vita, opinioni pubbliche e leader cedano alla tentazione di dimenticare, di "voltare pagina"?

«Io vedo che in molti paesi i giovani che studiano l´Olocausto sono più numerosi che mai. In America, e non solo, non c´è una scuola in cui la Shoah non sia materia d´insegnamento. Mai come oggi ho visto tanti corsi, seminari, mostre, programmi tv. Sono ottimista sulla capacità di ricordare. Ma c´è sempre da chiedere che uso si fa della Memoria, quanto la si usa per capire».

L´antisemitismo è vivo e spesso in ascesa, per esempio in Europa. Quanto è grave la minaccia?

«Sono trend pericolosi. Anche perché si manifestano spesso su uno sfondo l'indifferenza. Nel 2009, in tutto il mondo ma specie in Europa, si è registrato il numero più alto di manifestazioni di antisemitismo dal 1945. Recentemente sono stato in Ungheria, ho visto un aumento preoccupante dell´antisemitismo. E anche altrove, gli antisemiti conquistano nuove tribune. Come dico da decenni, spesso siamo di fronte a un antisemitismo senza ebrei, cioè a correnti antisemite in società dove quasi non vivono più ebrei. Poi c´è un violento, ingiusto odio verso Israele.
Il bisogno di un capro espiatorio non è morto. E tocca sempre agli ebrei. Intanto, per esempio, dell´eccezionale efficienza dell´aiuto umanitario israeliano a Haiti si parla poco o nulla».

Le élite in Europa sono conosce della minaccia dell´antisemitismo e dell´oblìo o no?

«Lo spero. In alcuni paesi - l´Ungheria, l´Ucraina, ma anche paesi dell´Europa occidentale - vediamo trend pericolosi. Umori antisemiti, il sorgere di partiti filonazisti. Alle leadership politiche toccano anche doveri e considerazioni morali. Non possiamo separare la politica dalla morale. Serve una visione etica del mondo, e deve venire dai leader».

L´antisemitismo come ricerca del capro espiatorio è un male europeo?

«L´antisemitismo è il più antico pregiudizio di gruppo della Storia.
Ed è presente tuttora, nel nostro quotidiano. Dobbiamo combatterlo, non illuderci che la lotta sia finita».

Tra i negazionisti ci sono anche esponenti religiosi, come il vescovo Williamson. Quanto sono pericolosi?

«Sono pericolosi prima di tutto per la Chiesa cattolica. Il fatto che papa Benedetto non abbia revocato la revoca della scomunica è al di là della mia comprensione. Parliamo di un negazionista dell´Olocausto, predica odio verso gli ebrei e Israele, come può essere ancora un vescovo? Scomunicato o perdonato, come può essere ancora vescovo? Angela Merkel ha avuto ragione a criticare il Papa su questo tema».

mercoledì 27 gennaio 2010

Liliana Segre: Erede della memoria è colui che ascolta




a cura di Pamela Foti.

“Comprendere è impossibile. Ricordare è necessario” scriveva Primo Levi.

Ricordare la Shoah, sterminio del popolo ebraico, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, e quella del popolo rom, degli omosessuali, dei diversi. Di tutti coloro che furono mandati dal nazi-fascismo a morire nei campi di sterminio.

Ma ricordare, non va dimenticato, “è sempre fatica e dolore. E non passa mai” dice Liliana Segre, che nel campo di sterminio di Auschwitz è stata deportata quando aveva 13 anni. “Ho cominciato a dare la mia testimonianza ai giovani circa 20 anni fa, dopo 45 di silenzio. Sono uscita dal silenzio per forza. E’ stata la coscienza a dirmi di parlare. Premeva dentro. Ed è uscita. E’ stato liberatorio. Ma è stato anche difficile trovare le parole per dirlo”.

Per dire di quando lei non aveva nulla.
Per dire di quando la mattina del 30 gennaio 1944, dopo quaranta giorni nel carcere di San Vittore, venne portata al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano. E portata ad Auschwitz.
Per dire di quando si è trovata “sola. In quel mondo impazzito. Dove io e le mie compagne abbiamo sempre avuto la forza anche dopo che a una compagna nel lager, è stata tolta la vita. Ma quella ragazza non aveva mai perso la forza e la voglia di vivere” ripete per due volte. Come a sottolineare che non si era arresa.

Liliana Segre oggi ha 78 anni. Son tanti i ricordi che “come ondate risalgono in superficie”. Quelli più intimi e per questo più dolorosi li tiene dentro. Ma lasciandosi andare sulla poltrona del suo salotto ricorda quando, fatto ritorno a Milano, dopo essere sopravvissuta ad Auschwitz per più di un anno (fu liberata il 30 aprile 1945), non ha più trovato una casa ad aspettarla. “Sono stati anni duri quelli – racconta - Avevo 15 anni, ma dentro ero vecchia. C’era un’incompatibilità profonda con le mie coetanee. Loro parlavano di vestiti e ragazzi. E io di cosa poteva parlare? Di niente. E per questo ero sola. Ho imparato con gli anni ad essere giovane. E poi adulta e matura. Sono guarita a 18 anni, quando ho incontrato mio marito. Siamo rimasti insieme 60 anni”. E il ricordo va a quell’uomo, mancato lo scorso anno, con il quale è tornata alla vita.

Ora non le interessa parlare di quando era solo “un corpicino scheletrico. Il mio impegno etico e morale è trasmettere forza”. Perché “ricordare è necessario” ribadisce. “E io parlo di chi mi ricordo. Dei nomi, degli odori, dei colori”.

Di Violetta ad esempio. “Una ragazza di 19 anni che aveva gli occhi di un colore indefinito proprio tra il blu e il viola”. Nel raccontare, la voce di Liliana Segre si fa calda, il tono si abbassa. “Violetta aveva una treccia nera e lunga. Come la bella ebrea che la Bibbia descrive. Mi è stata vicino quando mi hanno arrestata nella prigione di Varese. Io piangevo. Disperata. Cos’altro può fare una ragazzina di 13 anni? E’ stata lei a venirmi incontro sulla porta della cella e mi ha abbracciata. Lei e sua mamma mi hanno tenuta stretta per tutto il viaggio che sul vagone di quel treno - partito dal Binario 21 della stazione Centrale di Milano - ci ha portato ad Auschwitz. Arrivate al campo, Violetta e sua madre sono state mandate al gas”.

“Ma da mamma e nonna quale sono, non voglio usare parole di orrore”. E non lo farà nemmeno oggi, davanti ai ragazzi che la aspettano al Conservatorio di Milano. “Andrò dal parrucchiere prima dell’incontro. Perché non voglio presentarmi a loro con aria dimessa.”.

“Le mie parole sono protese a dare forza. Io sono una donna libera e una donna di pace”. Ma le parole possono essere pietre, che restano e segnano. E cambiano. “Non sono preoccupata dalla teorie negazioniste, che sono ampiamente smentite. E non provo nemmeno rabbia, quella l’ho digerita da giovane. C’è amarezza, quella sì. E dispiacere. Ho solo paura dell’omologazione tra buono e cattivo. Tra vero e falso”.

Scuote la testa Liliana Segre, e abbozza un sorriso. Rassegnato. “Il tema della Shoah da qualche anno a questa parte è di moda. Quando ho iniziato a parlare, quando i sopravvissuti hanno iniziato a parlare, eravamo in un mondo di sordi” mi dice mentre continua a ricevere telefonate da chi la vorrebbe come ospite nel Giorno della Memoria. “Ora la Shoah ha invaso le biblioteche, il grande schermo, Internet. E’ stata anche istituito un giorno per ricordare. Un atto giusto, ma che può diventare anche limitazione consumistica”.

Che ne sarà della memoria domani? Quando sul 27 gennaio si saranno spente le luci dei riflettori e quando i sopravvissuti non avranno più voce per raccontare?
“E’ come una persona che affoga. E viene sommersa dalle acque. Tutto viene nascosto. Si dimentica. E’ sommerso. Chissà, forse un giorno riemergerà… magari nella pancia di una balena”.

Subito dopo, però, il ricordo torna indietro al 2005. A quei 7.500 giovani che nel PalaDozza di Bologna l’hanno ascoltata in rigoroso silenzio per un’ora e mezza. Mi mostra la foto di quel giorno.
Ritrae un palazzetto gremito di luci e colori. A guardarlo di sfuggita parrebbe l’atto finale di un concerto. La gente in piedi, che sorride e batte le mani. La Segre ricorda quella standing ovation. “Sono 7.500, ho pensato. Spero che 5 di loro riescano a ricordare questo momento".

Perché “erede della memoria è colui che ascolta”. E ammonisce: “Tutti i giorni sono della memoria”.

Fonte: Sky TG24

Il senso del Giorno della Memoria




Renzo Gattegna, Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane

Sessantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945, venivano aperti i cancelli di Auschwitz. Le immagini che apparvero agli occhi dei soldati sovietici che liberarono il campo, sono impresse nella nostra memoria collettiva. Ad Auschwitz, come negli innumerevoli altri campi di concentramento e di sterminio creati dalla Germania nazista, erano stati commessi crimini di incredibile efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella Storia.

L’uomo contemporaneo, con il suo grande bagaglio di conoscenze, nel cuore del continente più civile e avanzato, era caduto in un baratro. Aveva utilizzato il suo sapere per scopi criminali, tramutando quelle conquiste scientifiche e tecnologiche, di cui l’Europa era allora protagonista indiscussa, in strumenti per annichilire e distruggere intere popolazioni, primi fra tutti gli ebrei d’Europa.

Da quel trauma l’Europa e il mondo intero si risvegliarono estremamente scossi. Si domandarono come era stato possibile che la Shoah fosse avvenuta. E, soprattutto, quali comportamenti e azioni mettere in atto per scongiurare che accadesse di nuovo.

Dalla consapevolezza dei crimini di cui il nazismo si era macchiato nacque nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti umani, promulgata dalle Nazioni Unite allo scopo di riconoscere a livello internazionale i diritti inalienabili di tutti gli uomini in ogni nazione.

La consapevolezza di ciò che era stato Auschwitz fu tra gli elementi fondamentali per la costruzione, identitaria prima ancora che giuridica, della futura Europa unita.

Scriveva il filosofo Theodor Adorno che dopo Auschwitz sarebbe stato “impossibile scrivere poesie”, intendendo rendere l’idea di quali implicazioni radicali comportava assumersene la responsabilità, negli anni della ricostruzione e della nascita dell’Europa unita.

Era indispensabile stabilire con esattezza ciò che l’Europa non sarebbe stata. Alle radici dell’impostazione ideale dell’attuale Unione Europea c’è il rispetto per la dignità umana e il rigetto per ciò che era accaduto, sia prima che durante la guerra, a causa di idee razziste e liberticide. Auschwitz è la negazione dei principi ispiratori dell’Europa coesa, economicamente, socialmente e culturalmente avanzata che conosciamo oggi.

Il 27 gennaio 2010 il Giorno della Memoria si celebra in Italia per la decima volta. Dieci anni sono passati da quando fu chiesto all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane di partecipare all’attuazione delle iniziative, promosse dalle istituzioni dello Stato italiano e in particolare dal Ministero dell’Istruzione, che avrebbero caratterizzato lo svolgimento di questa giornata. Oggi il Giorno della Memoria è diventato un’occasione fondamentale, per le scuole, di formare tanti giovani tramite una importante attività didattica e di ricerca.

Da allora l’ebraismo italiano si è a più riprese interrogato sul modo di proporre una riflessione che non fosse svuotata dei suoi significati più profondi, riducendosi a semplice celebrazione. Al di là delle giuste, necessarie parole su Shoah e Memoria, crediamo infatti che occorra cercare di perpetuare il senso vero di questo giorno.

Molti sono stati in questi anni gli studi, gli articoli, le riflessioni, le pubblicazioni di studiosi e intellettuali che hanno tentato di definire e ridefinire costantemente il senso della Memoria.

Esiste infatti una problematica della relazione tra Storia e Memoria. La Shoah è ormai consegnata ai libri di Storia, al pari di altri avvenimenti del passato. Pochi testimoni sono rimasti a raccontarci la loro esperienza. Si potrebbe ipotizzare una Memoria cristallizzata nei libri, come un evento importante ma lontano nel tempo, da studiare al pari di qualsiasi altro capitolo di un libro scolastico, con il rischio di rendere distante il significato e la ragione vera per cui il Giorno della Memoria è stato istituito per legge.

L’umanità esige che ciò che è avvenuto non accada più, in nessun luogo e in nessun tempo. E’ di enorme importanza che le nuove e future generazioni facciano proprio questo insegnamento nel modo più vivo e partecipato possibile, stimolando il dibattito, le domande, i “perché” indispensabili per la comprensione di quei tragici eventi.

Scriveva la filosofa Hannah Arendt, che il male non ha né profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale.

La filosofa che forse più in profondità ha studiato le aberrazioni del nazismo, coniando quella ormai famosa espressione, “la banalità del male”, riferita a uno dei principali esecutori della Shoah, dà una definizione di tetra neutralità e ignavia a chi non pensa, a chi non riflette, a chi non ha idee proprie, a chi non dà valore e giudizio alle proprie azioni e alle loro conseguenze. La Arendt collega il “bene” direttamente al pensiero, fonte vitale di comprensione del mondo.

Favorendo noi una riflessione vivace nei ragazzi, renderemo forse il servizio migliore a questo Giorno che, per essere vissuto nel modo più autentico, necessita di un pensiero non statico, non nozionistico.

Occorre fornire alle nuove generazione gli strumenti, anche empirici, per riflettere su cosa l’umanità è stata in grado di fare, perché non accada mai più.

Questo, forse, è il senso più vero del Giorno della Memoria, ed è un bene prezioso per tutti.


http://www.ucei.it/giornodellamemoria/index2.htm

giovedì 7 gennaio 2010

Interview with Tzipi Livni (Wall Street Journal)



Joshua Mitnick and Charles Levinson
(Wall Street Journal 03/01/2010)

Late last month, Tzipi Livni was back in the news. Despite finishing first early last year in parliamentary elections, Ms. Livni declined to join a right-wing dominated coalition led by Benjamin Netanyahu and instead went into the opposition. Then, just before Christmas, Mr. Netanyahu courted her, inviting her into his government. She ultimately refused. The Wall Street Journal's Joshua Mitnick and Charles Levinson caught up with Ms. Livni days before Mr. Netanyahu's offer. Below is an edited transcript of the interview.

Tzipi Livni speaks to reporters after her meeting with French President Nicolas Sarkozy at the Elysee Palace in Paris last month.

Q: Your parents were part of Herut, the forerunner of today's Likud party. As a champion of the two-state solution, is it difficult to break with that past?

A: This is a misperception. I believe that what I'm doing is implementing the values that my parents taught me are essential for the state. It was never only about the land of Israel , but it was also about our values. The idea was not only to create a state. The vision, then and now, is being a Jewish and democratic state, or being a homeland for the Jewish people. Since the realities are such that, in order to keep Israel as a homeland for the Jewish people, we need to give up part of the land, it doesn't mean that I don't believe in the rights of the Jewish people to the entire land. I still do. I believe the Jewish people have the right to the entire land -- judicial, biblical historical, moral, whatever.

But my vision, as I believe the vision of my parents was, is to keep the state of Israel as a homeland for the Jewish people. And since they also believed in the values of democracy, there's a need for a Jewish majority. In order to have peace, we need to give up part of the land. The whole vision is to keep Israel a Jewish and democratic state living in peace and security in the land of Israel . And the only way to keep all these together, is to give up part of the land. Because without giving up part of the land, it means we give up the idea, or the essence, of Israel as a homeland for the Jewish people. And this is something we cannot afford.

In terms of left and right, I know there are those saying, "Okay, you came from a right-wing party, and now you represent the left wing.'' And this is not the way I see it. Even though I fully believe in the idea of two nation states, which was basically the slogan of the left wing in Israel for many years, I still come from what is basically the right wing, and this is the need to keep Israel as the homeland for a Jewish people.

Q: Do you remember a pivotal moment when you first realized you had to support a two-state solution?

A: Ever since I entered politics this was my best understanding [of the solution to the conflict.] But I do remember when I decided to get into politics. It was in 1995, a few weeks before [former Israeli Prime Minister Yitzhak] Rabin was murdered. And society was divided between two different camps. One was called camp of the land of Israel and the other one was the camp of peace. And I heard politicians, and also some of my friends, talking about the need to fight against the Oslo agreement and Rabin -- who represented this need to divide the land -- because, "we love this land,'' and because "this is heritage of our forefathers.''

I had the same connection as they did to the land. But I understood we needed to divide the land in 1995. But on the other hand, I heard other friends of mine, that put on their nice T-shirts with a glass of wine in their hands, waiting for the "New Middle East'' to fall on their heads "because we are going to live happily ever after.'' And I thought, "I'm in between these two camps.'' On one hand I have the same feelings toward the land … and on the other hand I wanted to live in peace.

But I was more realistic in my understanding that the Oslo agreement, tactically, was not going to bring peace the next day. I don't believe in something that is vague…. [it said,] "take some [territory], but we will speak about Jerusalem , refugees and borders afterwards.''

Q: Isn't it a problem for you that, even though Israelis support a two-state peace agreement, they don't believe it's possible.

A: I think that a deal is possible. I believe it is. This is the reason for me to be in politics and to be in the opposition, because of the need to keep this alternative.

Q: What would you do, or what needs to be done?

A: To re-launch the negotiations from the point that I stopped with Abu Ala (Palestinian peace negotiator Ahmed Qureia) and Abu Mazen (Palestinian president Mahmoud Abbas) a year ago. … I think it was November of '08. We were in Sharm el Sheikh. Abu Mazen and I presented to the Quartet and the entire international community, and the Arab world the basic understandings in terms of the negotiations -- not the substance, but what we agreed on regarding how to negotiate.

The Palestinians said they trusted the process. I said the same. We decided that it would be a complete and concrete agreement. Not a partial one. Not an interim one. And that we are going to give an answer to all the outstanding issues. That nothing is agreed until everything is agreed. That it is discrete. And after reaching an agreement, it was agreed that implementation is going to be subject to the Road Map and to other conditions that are going to be part of a final status peace treaty.

We said at Annapolis that the right thing to do is to negotiate with those that -- I hope -- we can reach an agreement with that will give all the answers and issues, so we can have a complete border and not just a formula that relates to '67 border. … But to define the border exactly.

The idea is as follows: We start now the final status negotiations, OK? And we change realities on the ground in the West Bank . We do this simultaneously. And then at some point in time we reach an agreement. But now it's only a piece of paper. Then we see what the situation on the ground is, and whether the situation [meets] the conditions that are needed in order to create a state -- a state which is not a terror state, which is not a failed state, and which is not an extremist Islamic state. [Rather], subject to the conditions that we can agree upon …

So if [the situation on the ground] is not ready yet, we have this shelf agreement. But we have a period of time in which we are continuing in changing the realities on the ground. During this period of time there are things we can do. Since we know where the borders are, we can remove settlements and put them as part of Israel or the blocs of settlements that are going to be part of Israel . But it is clear what the borders are.

This is a period of time where we can work, because we can take [down] settlements. We can keep our forces [there] until the changes make it possible to create the state.

Now, you can ask me, "What about Hamas?''

It is clear that Hamas is not partner for peace talks, because Hamas does not represent the national aspirations of the Palestinians. Hamas represents this extremist ideology. It is clear that they are not going to accept the "end of conflict.'' And I'm sure they are going to say whoever signs an agreement with Israel are traitors. OK? But assuming we have this agreement -- a "shelf agreement'' as it is called. I know that in order to sign the agreement the Palestinians are going to need the support of the entire Arab world, and this will need to get the support of the entire world, and the Security Council. And then Hamas is going to be isolated. And they now will have to choose whether they want to be isolated with Iran , Hezbollah, and maybe Syria -- I don't know.

But since everyone is going to support it, I think its going to make it more difficult for Hamas to fight against it. And at the end of the day, for the Palestinians -- when there is an agreement -- because there is lack of trust on the Palestinian side of the agreement. But it is clear. They have borders, they will have a state, and all the conditions to create the state will be there. It's not a just a vague idea of re-launching the negotiations. And then they need to choose between Hamas and a state.

By the way, I'm not optimistic. I want to say that this is a realistic approach. Because I feel that this is a tough neighborhood. So, it's not a vague agreement or a vague vision.

Q: Do you foresee a third-party security force in the Palestinian territories?

A: Part of the discussions was our security needs. And I believe that the security needs of Israel are not only our interest, because I don't think that the world wants a terror state here. It's a mutual interest, it's an international interest to end the conflict. And the only way to end the conflict is: one, to understand that the implementation of the idea of two nation states means that the creation of Palestinian state is the end of conflict. And it [fulfills] the national aspirations of the entire Palestinian people, including the refugees. Because we don't what to have a Palestinian state [while] Israel has ongoing demands of Palestinian refugees to come to Israel . Since everybody wants to end the conflict, the idea that the creation of the Palestinian state is answer to their national aspiration is something that the world can support.

And when it comes to Israel 's security needs, we discussed it. They raised this idea of international forces. We had our own internal debate on this. It was not agreed yet for international forces.

But what was discussed, and I feel that I don't want to betray the trust that we built during negotiations, but basically we built an understanding. … At the end of the day, the idea was to reach an understanding on a list of arms which are needed in order to confront internal terrorism, and which cannot be accepted by Israel because it can threaten Israel , or at least can be an ongoing conflict afterward. And this is something that doesn't affect the sovereignty or independence of a future Palestinian state, just like other states: like Germany has some limitations on its arms. Egypt accepted limitations in Sinai in the agreement with Israel that was signed by (Israeli Prime Minister Menachem) Begin and (Egyptian President Anwar) Sadat. ...

Q: Was it a mistake of the Obama administration to focus on a settlement freeze and are the Palestinians being too stubborn by insisting on a full freeze as a condition for talks?

A: The Palestinians never loved settlement activity. This is the understatement of the year. They never accepted when Israel built in blocs. Also the U.S. never accepted settlement activity. But when we negotiated there was trust and understanding that we were going to end this conflict in the shortest period of time possible. We were not suspected that we wanted to grab more land, or to change realities on the ground in order to have a different border in the future. And I tell it also to Palestinians in the past, that the way I see settlements, is in terms of a final status agreement. Since I made my choice. I believe that my role, or the most important role of any Israeli is to define the borders and to have a legitimate border. Regardless of what you think of settlement activity in the past – whether you think its Jews building in their ancient homeland or it is against international law. It's not important. Because we have what we call ``blocs of settlements,'' and most of them are very close to the Green Line. It takes only a few percentages [of the territory]. Whether we like it or not, we have to give an answer to these realities in any peace agreement. The way I see it this is the thing that is the most important thing for any Israeli leader. It's not about building now, but to keep the blocs of settlements as part of Israel in the future. There's no need for me to expand or build more, but to give an answer for this. And since we built this trust, and they knew that this is what we want. … It's not like you asked me to say '67 and said that I want a reduction. I don't want to make a better deal. I need to give an answer for the realities on the ground, so we need to define together where are the places in which most of the Israelis live. I know that, you don't like it, but without it, the ability to perform, or implement this agreement is going to be zero. So since we had this trust during the negotiations, and they understood that we sometimes we build, and it was not saying, like ``we are continuing.'' It's not ideology. Our ideology was to end the conflict, to define the borders, and to make a decision. And this is the way we acted. And I think that the situation now is different.

Q: Has Netanyahu marginalized you by accepting the two-state solution? How do you explain public opinion polls shows support shifting to the right?

A: Basically Kadima gets in all the polls in the newspaper the same 28 or 29 seats in Parliament. So this is one thing. We keep our support. I was glad to hear Netanyahu say "two states'' because of what I just told you. Since I understand the nature of the decision, and its going to be difficult, I want what Israelis call the "Right [political] camp'' to change even the words. Because people that never said these words and thought it was against their ideology, for the first time, they are now hearing it from the right-wing leader in Israel . So this is nice. It's good because any decision that any leader is going to make in order to end the conflict is going to is going to be difficult as hell for everybody. So I want people to understand that there is no other option. And for the first time they understand there is no other option. Netanyahu was speaking about security peace and economic peace, and for the first time he said the words.

And I know the perception is that he said so because of the American pressure. So what? I mean I believe that this represents the Israeli interests. But if the people think that there is no other option because of the American pressure, so let it be. This is good news for peace, not for me personally.

And I believe that the only reason for him to say these words is because I was not part of this government. Because for the first time, this group of right-wing parties … are alone in the government and need to give answers to the best friend of Israel and its ally, which every Israeli citizens understands that the relationship between Israel and the U.S. is crucial for the future of Israel. It's not something you can give up. For the first time, I was not the excuse, or I was not the fig leaf of the government, and Netanyahu needed to say it himself.

Being the alternative there and not inside, not part of, not representing something with the prime minister saying, "Well she represents her own view, and I think that we need to do something else…'' For the first time they needed to say something which was obvious to me. And the only reason for them to do so is because they needed to give some answer. I'm glad that this happened. But it's not enough.

Q: Will that continue to happen if you stay in the opposition, or would it be better to join Netanyahu?

A: I'll make this short. Since I am familiar with the decisions needed, and since I entered politics to end this conflict, this is my basic drive to be in politics… If any Israeli prime minister, including Netanyahu, is willing to make the decisions to end this conflict, I'm ready to be there to hold his hand and to help him in order to it. I cannot be part of a never-ending process without me understanding what the willingness is to make decisions. This is my test. It's not about words, it's about [actions]. The moment I know I can change, I can make a difference, that I can help make real decisions, it's not important what the position is, I will be there. If not, what's the use? It could lead Israelis to lose hope. If everybody is there, and nothing happens, then what? There's no chance for peace.

La strana “pace” degli arabi con Israele

di Herb Keinon (Jerusalem Post, 3.1.10)

Invitato a una conferenza sulla pace in Medio Oriente sponsorizzata dalla Russia, che si teneva in una località sulla sponda orientale del Mar Morto, con altri quattro israeliani ho avuto il permesso speciale di attraversare il confine per entrare in Giordania al valico del Ponte di Allenby, un privilegio che normalmente non viene concesso ai cittadini israeliani: una visita durante la quale siamo stati testimoni del senso di insicurezza e di vulnerabilità che gli israeliani provano quando si recano anche semplicemente in un paese come la Giordania, col quale abbiamo (da 16 anni) un trattato di pace e buone relazioni a livello governativo.
Sottolineo “a livello governativo”, giacché quello che ho sentito tutt’attorno a me da parte della gente che partecipava alla conferenza non era esattamente ciò che chiamerei amicizia.

Secondo alcune notizie, un certo numero di giornalisti giordani ha contestato la presenza della piccola delegazione israeliana (si noti: a una conferenza sulla pace in Medio Oriente) semplicemente disertando il convegno. La presenza di israeliani pare abbia costretto anche i rappresentanti di altri paesi – Iran, Bahrain e Libano – a cancellare la loro partecipazione.
Si poteva dunque pensare che, per contro, le persone che avevano fatto appello a tutto il loro coraggio per venire alla conferenza e sedere allo stesso tavolo con dei delegati israeliani sarebbero state aperte ed eccezionalmente garbate. Errore.
Sedendo al mio posto al tavolo della conferenza, mi sono ritrovato fra una professoressa statunitense e una signora straordinariamente affascinante, delegata da un paese arabo, il cui nome non sono riuscito a leggere sul suo badge. Dopo aver scambiato qualche battuta con l’americana, mi sono rivolto alla signora alla mia sinistra per fare lo stesso. Pessima idea. Come risposta al mio saluto, mi ha girato le spalle bofonchiando. Per tutto il tempo della sessione, durata circa cinque ore, siamo rimasti seduti uno accanto all’altra senza scambiare una parola, e nemmeno uno sguardo.
Ma la mia esperienza con quella signora è stata un autentico festival dell’amore in confronto alle dichiarazioni che intanto venivano fatte, uno dopo l’altro, dai relatori provenienti dal mondo arabo: Autorità Palestinese, Arabia Saudita, Giordania, Iraq, Egitto.

Finché ce ne stiamo in Israele a parlare di noi e fra di noi, perdiamo il contato e siamo ben poco esposti ai sentimenti di aperta ostilità verso di noi che circolano fra i nostri vicini. Lo sappiamo bene che questi sentimenti esistono, ma non ne facciamo esperienza di prima mano. Eppure è un’ostilità reale e concreta, veemente e allarmante.

Per due giorni ho partecipato a quella conferenza sulla pace in Medio Oriente ascoltando un relatore arabo dopo l’altro che, in sostanza, gettava tutti i mali del mondo sulle spalle di Israele, mettendoli tutti sul nostro conto.
I miei più fedeli lettori probabilmente ricordano che il mese scorso, dopo un viaggio negli Stati Uniti e in Canada, avevo scritto che in Nord America Israele ha molto più sostegno di quanto generalmente non si creda, e che questo sostegno si può trovare anche nei posti più impensati come ad Austin, Texas, o a Florence, Alabama. Il mese scorso, insomma, ho percepito amicizia per Israele a diecimila chilometri da casa, nel profondo sud americano. Questo mese, invece, ho percepito profondo odio a soli cinquanta chilometri da casa, in Giordania. Ed ecco perché, quando ho riattraversato il Ponte di Allenby, ho provato un improvviso struggimento… per l’Alabama.

lunedì 4 gennaio 2010

" Sui monti della penisola arabica il vivaio della nuova jihad "

di Renzo Guolo, la Repubblica 3 gennaio 2010.






Che lo Yemen fosse un importante fronte di Al Qaeda, si sapeva prima che Umar Farouk Abdul Matullab tentasse di farsi esplodere nel cielo di Detroit. Nei giorni che precedevano l´imbarco del nigeriano sul volo Delta l´America aveva effettuato raid.
Raid contro le locali basi qaediste che il governo di Sana´a non avrebbe mai potuto condurre. Ma la storia è di più lunga data: non risale nemmeno all´attentato che segna l´epopea jihadista nella regione, l´attacco alla nave Usa "Cole". Rimanda ancora più in là nel tempo.
Inizia con il ritorno degli islamisti radicali dal jihad afgano contro i sovietici. Reduci, ma non troppo, dai campi gestiti da Bin Laden, hanno elaborato una comune ideologia e figura del Nemico. Una minoranza attiva che le conseguenze della guerra del Golfo radicalizza ed espande. Anche perché Riad punisce il vicino Yemen, appena riunificato, per la mancata condanna all´invasione del Kuwait, espellendo un milione di yemeniti che lavorano in Arabia Saudita. Settecentomila di loro saranno costretti a vivere nei campi per rifugiati di Hodeida e Bajil nel sud del paese, divenuti presto ideale ricettacolo della propaganda binladiana contro i "governanti empi" sauditi e yemeniti.
Quando Bin Laden fonda Al Qaeda parte degli yemeniti, e dei suoi fedelissimi sauditi rifugiatisi nel paese oltrepassando una frontiera che le stesse mappe ufficiali definiscono indefinita, lo seguono in Afghanistan. È il caso del giovanissimo Nasir al Wahishi, attuale leader di «Al Qaeda nella Penisola Arabica», che diventa l´assistente di Osama, ma non solo: come rivela l´alto numero di yemeniti catturati ai piedi dell´Hindu Kush e spediti a Guantanamo. Altri rimangono nell´area, come le menti dell´attacco alla "Cole", che sfuggono alla cattura, trovando rifugio tra le tribù beduine del nord, use all´ospitalità verso estranei in cerca di protezione. Tribù che accentuano l´ostilità verso il governo centrale quando il presidente Saleh, schieratosi su pressione di Bush nella "guerra al terrore", cerca di riprendersi il controllo del territorio. Ostacolando così l´esercizio del tradizionale potere tribale. Violazione che, come in ogni realtà tradizione, Afghanistan, Somalia, Yemen che sia, mette in discussione il secolare rapporto tra centro e periferia, generando conflitto.
La debolezza di Sana´a si accentua quando la rivolta delle periferie investe le tribù sciite. Nel paese, a maggioranza sunnita, gli sciiti zaiditi sono circa sei milioni. Contrariamente ai loro confratelli iraniani, libanesi, iracheni, seguono una pratica religiosa che li distingue assai poco dai sunniti. Ma la pretesa di Saleh di negare la loro storica autonomia, la crescente influenza che il wahhabismo, ferocemente antisciita, esercita nel paese, conduce gli zaiditi, guidati dal clan degli Houthi, alla ribellione. Per sedarla Saleh chiede l´interessato intervento militare di Riad, che teme un possibile contagio nell´intera Penisola. Tra le minoranze sciite della stessa Arabia Saudita, e degli altri paesi del Golfo, da sempre ostili al potere sunnita e alla sua declinazione religiosa in chiave wahhabita. Situazione che rischia di offrire una sponda all´Iran, che di quelle minoranze si vuole protettore anche se nega uno specifico legame con gli zaiditi, con il quale Riad si affronta già, per interposti attori, negli scenari libanese e palestinese. Un conflitto che storna l´attenzione verso i qaedisti, che ne approfittano per radicare la loro organizzazione.
Lo Yemen è strategicamente rilevante per Al Qaeda: confina con l´odiato regno dei Saud, è ideale ponte tra l´area afgana e pakistana e quel Corno d´Africa che spalanca le porte del Continente nero attraverso la vicina Somalia, paese senza Stato dilaniato dalla guerra civile. E, soprattutto, terra di quegli Shebab la cui fazione più " internazionalista" si mobilita ora per fornire aiuto ai confratelli yemeniti. Contando anche sul fatto che lo Yemen è abitato da una minoranza somala. Un corridoio, quello yemenita, che permette la saldatura con Al Qaeda nel Maghreb, che non opera solo in riva al Mediterraneo ma, ormai, in Mauritania, in Mali, in Niger. In quella che si vuole una guerra senza territori, quel territorio conta sempre di più.