mercoledì 25 maggio 2011

“Non siamo gli inglesi in India, siamo il popolo ebraico nella terra dei suoi padri”



Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha tenuto martedì il suo attesto discorso di fronte al Congresso americano, che lo ha accolto con calorosi applausi ed ovazioni. Nel suo discorso, Netanyahu fra l’altro ha sollecitato il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha strappare il patto con Hamas e fare la pace con lo stato ebraico, sottolineando che Israele è pronto a ritirarsi da parte degli insediamenti in Cisgiordania.
“Sono profondamente commosso da questo vostro caloroso benvenuto – ha esordito il primo ministro israeliano – e sono profondamente onorato dell’opportunità che mi date di rivolgermi a questo Congresso per la seconda volta [dopo quella del 1996]. Vedo qui molti vecchi amici ed anche un bel po’ di amici nuovi, sia democratici che repubblicani. Israele non ha un amico migliore dell’America, e l’America non ha un amico migliore di Israele”.
“Come mai finora la pace ci è sfuggita? – si è poi domandato Netanyahu, passando ad analizzare il conflitto arabo-israeliano – Perché finora i palestinesi non sono stati disposti ad accettare uno stato palestinese se questo significa accettare uno stato ebraico al suo fianco. Noi desideriamo che i palestinesi vivano liberamente nel loro stato. Perché i palestinesi non sono disposti a riconoscere lo stato ebraico di Israele, e continuano a inculcare nei loro figli l’odio verso Israele? Abu Mazen deve fare quello che ho fatto io quando ho detto ai miei concittadini che avrei accettato uno stato palestinese: deve dire alla sua gente di accettare Israele come stato nazionale del popolo ebraico”.
Netanyahu ha rimarcato che Israele non è una potenza coloniale. “Il popolo ebraico – ha detto – non è un occupante straniero. Noi non siamo gli inglesi in India, o i belgi in Congo. Questa è la terra dei nostri padri: nessuna distorsione della storia potrà mai smentire il legame di quattromila anni tra il popolo ebraico e la terra ebraica”.
“La storia ci ha insegnato a prendere sul serio le minacce – ha continuato il primo ministro – Israele si riserverà sempre il diritto di difendersi. La pace con Giordania ed Egitto non è sufficiente: dobbiamo trovare un modo per fare pace con i palestinesi”. Riconoscendo che lo stato palestinese dovrà essere “abbastanza grande da essere vitale”, Netanyahu ha affermato: “Sono pronto a fare dolorose concessioni pur di arrivare alla pace. In quanto leader, è mia responsabilità guidare il mio popolo alla pace. Non è facile, perché mi rendo conto che per un’autentica pace ci verrà chiesto di cedere parti dell’ancestrale patria ebraica. Saremo generosi – ha continuato il primo ministro – circa le dimensioni dello stato palestinese, ma saremo molto determinati su dove porre i confini. Come ha detto il presidente Barack Obama, il confine definitivo sarà diverso da quello del 1948. Israele non tornerà alle linee del 1967”.
Gerusalemme, in ogni caso, “deve rimanere la capitale unita d’Israele”. Solo lo stato democratico d’Israele, ha sottolineato Netanyahu, “ha protetto la libertà di tutte le religioni” nella città santa.
Netanyahu ha dichiarato che lo status degli insediamenti (in Cisgiordania) verrà concordato nel quadro dei negoziati di pace, e ha aggiunto: “In qualsiasi vero accordo di pace che ponga fine al conflitto, una parte degli insediamenti finirà col trovarsi al di là delle frontiere di Israele”, e in ogni caso “l’esatto confine verrà stabilito nel negoziato”. Anche il problema dei profughi e dei loro discendi, ha aggiunto, dovrà trovare soluzione al di fuori delle frontiere di Israele.
Citando il ritiro israeliano dalla striscia di Gaza e dal Libano meridionale, “da dove Israele ha poi ricevuto solo missili”, il primo ministro ha messo in guardia rispetto al pericolo di un massiccio afflusso di armi nel futuro stato palestinese, che potrebbero essere usate contro Israele dopo che si fosse ritirato dai territori. Per questo, lo stato palestinese dovrà essere smilitarizzato e dovrà permanere una presenza militare israeliana nella Valle del Giordano, lungo il confine con la Giordania.
All’inizio del discorso Netanyahu si è congratulato con gli Stati Uniti per l’eliminazione del capo di al-Qaeda, Osama bin Laden: “Che sollievo!”, ha esclamato. Ed ha ringraziato il presidente Obama per il suo forte impegno verso la sicurezza di Israele. “Israele – ha poi aggiunto – non negozierà con un governo palestinese sostenuto dall’equivalente palestinese di al-Qaeda. Hamas non è un interlocutore per la pace, giacché rimane votata al terrorismo e alla distruzione di Israele. Hanno una Carta che non invoca soltanto l’annichilimento di Israele. Essa dice: uccidete gli ebrei”. Netanyahu ha anche ricordato che il capo di Hamas ha condannato l’uccisione del “martire” bin Laden. È vero che la pace va negoziata coi nemici, ha osservato Netanyahu, “ma solo coi nemici che vogliono fare la pace”.
A un certo punto il discorso è stato interrotto da una manifestante, alla quale il primo ministro israeliano ha reagito dicendo: “Sapete, io prendo come un onore, e sono certo che lo fate anche voi, il fatto che nella nostra società libera si può manifestare. Nei ridicoli parlamenti di Tripoli e di Tehran questo non potrebbe accadere: ecco la vera democrazia”. Netanyahu ha ricordato di nuovo al Congresso che Israele è la sola democrazia in un turbolento Medio Oriente. “In un Medio Oriente instabile, Israele è l’unica àncora di stabilità” ha affermato, ribadendo che Israele sarà sempre amico dell’America.
Infine Netanyahu si è rivolto direttamente al presidente Abu Mazen sollecitandolo a cancellare l’accordo di riconciliazione con Hamas. “Straccia quel patto con Hamas – ha detto – siediti a negoziare per fare la pace con lo stato ebraico, e Israele sarà fra i primi a dare il benvenuto a uno stato palestinese”.

(Da: YnetNews, Ha’aretz, Jerusalem Post, 24.5.11)
http://www.israele.net/articolo,3142.htm

giovedì 19 maggio 2011

Negoziato obbligato fra Palestina e Israele

ARRIGO LEVI

Basta un’assenza di qualche anno, e si ha l’impressione di arrivare in un altro Israele. Tel Aviv con i suoi spettacolosi nuovi grattacieli, Gerusalemme con una immagine inaspettatamente moderna, ancorché contenuta dal rispetto della legge d’epoca inglese sull’uso della pietra dorata anche per le nuove costruzioni, offrono una immediata conferma visiva dei dati che conosciamo su una crescita economica impetuosa; favorita, ci fanno osservare, anche dalla riduzione nel tempo delle spese militari, che si fa risalire agli anni di pace con l’Egitto di Mubarak.

Ma Mubarak non c’è più, e la rivoluzione araba si è presentata alla porta d’Israele con gli allarmanti scontri di frontiera su tre fronti, nel giorno della «naqba», la «catastrofe», per i palestinesi, mentre per gli israeliani è il glorioso anniversario della proclamazione dello Stato ebraico. Chi ha antiche memorie non può non ricordare che la «catastrofe» ebbe per prima causa il rifiuto arabo del piccolo Stato d’Israele creato dall’Onu, e l’attacco subito lanciato nel maggio ’48 dagli eserciti degli Stati confinanti, con l’obiettivo dichiarato di «buttare a mare gli ebrei» - che erano allora poco più di mezzo milione, piccolissima isola in un mare arabo-islamico. Ci vollero poi decenni, e ancora altre guerre, perché i categorici no a ogni ipotesi di riconoscimento d’Israele venissero abbandonati e seguiti dalla pace con l’Egitto e la Giordania, e dall’accettazione dell’esistenza d’Israele da parte di Arafat e dei palestinesi, anche se è poi emerso il nuovo rifiuto di Hamas.

Più incerto è il futuro, e questo è un momento di grande incertezza strategica per tutto il Medio Oriente come per Israele, e più si è portati a rievocare un passato che sembra non dover passare mai. E un ritorno in Israele oggi non offre certezze.

I palestinesi sembrano decisi e sinceri nell’offerta di un’alternativa fra la ripresa dei negoziati e l’ipotesi di un voto in autunno all’Assemblea dell’Onu che sancirebbe, a grande maggioranza, il riconoscimento di un nuovo Stato palestinese, anche se con incerti confini, e incerte conseguenze. I più autorevoli giuristi israeliani sono divisi sugli effetti di quello che viene definito uno «tsunami legale». Alcuni sono convinti che all’indomani della proclamazione di uno Stato palestinese Israele diverrà «un Paese che occupa un Paese vicino» e che qualsiasi iniziativa israeliana nei territori situati al di là dei confini del 1967 (compreso l’allargamento degli insediamenti) verrebbe sottoposta alla giurisdizione dei tribunali internazionali. Altri giudicano che il quadro giuridico sia molto meno allarmante per Israele, «almeno non subito».

Quanto al governo attuale d’Israele, di fronte a tante incertezze, non sembra che la prospettiva autunnale della proclamazione o autoproclamazione di uno Stato palestinese costituisca un incentivo a riprendere in anticipo il negoziato con Abu Mazen, anche per l’incerta credibilità di Hamas (non impossibile vincitore di future elezioni palestinesi nella West Bank e a Gaza) sull’accettazione dello Stato d’Israele.

La ripresa dei negoziati, che comporterebbe però un nuova sospensione degli insediamenti israeliani, è ritenuta necessaria al più presto dall’opposizione israeliana guidata da Tzipi Livni, e inevitabile in prospettiva dal presidente israeliano Shimon Peres. Non sembrano esserci dubbi che, al di là delle posizioni dei politici, siano molti gli israeliani e i palestinesi convinti che il ritorno al negoziato presto o tardi si farà, e che questa sia la sola prospettiva ragionevole per ambo le parti, come per il futuro di tutto il Medio Oriente. Ci si sente anche dire, dagli uni e dagli altri, che le grandi linee di un possibile accordo di pace sono ormai note a tutti, e che pochi mesi di seria trattativa basterebbero per arrivare all’intesa.

E tuttavia, per quanto sincera sia questa convinzione, e per quanto convinti della necessità di una ripresa del negoziato siano gli alleati d’Israele, a cominciare dall’America e dai Paesi amici europei, con l’Italia in prima linea, le prospettive future rimangono incerte. Si spera nello spirito realista del politico Netanyahu, e ancor di più in una forte pressione di Obama su Israele. Ma Israele appare più che mai in dubbio fra le sue antiche e nuove paure esistenziali, e la ovvia fiducia nella sua forza militare, nella sua evidente superiorità tecnologica, economica, scientifica, isola democratica «occidentale» nel mare di un mondo arabo ancora «in via di sviluppo». Non è chiaro quale effetto avrà questa mescolanza di paure e sicurezza di sé.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8747&ID_sezione=&sezione=

giovedì 12 maggio 2011

Israele propone la pace, Hamas promette guerra per generazioni




IL MINISTRO DELLA DIFESA ISRAELIANO EHUD BARAK ha parlato martedì di un possibile piano per un accordo di pace coi palestinesi, accennando quelli che potrebbero essere i punti principali che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu illustrerà questo mese nel suo prossimo discorso davanti al Congresso americano e al presidente Barack Obama. Parlando al ricevimento tradizionalmente organizzato per i soldati in servizio nel quartier generale delle Forze di Difesa israeliane a Tel Aviv, Barak ha detto che Israele è pronto a compiere “passi coraggiosi” pur di arrivare alla pace. “Alla vigilia di questa 63esima Giornata dell’Indipendenza – ha detto – Israele si presenta come il paese più forte e più stabile nel raggio di 1.500 chilometri attorno a Gerusalemme. Questa posizione di forza e di fiducia in se stessi richiede che Israele formuli un piano ampio e coraggioso per bloccare quella sorta di tsunami politico che sta per arrivare il prossimo settembre”. Il riferimento è al proposito dell’Autorità Palestinese di dichiarare alle Nazioni Unite l’indipendenza dello stato palestinese unilateralmente, cioè senza negoziato né accordo con Israele. Barak ha detto che Israele è pronto a prendere “decisioni difficili” fintanto che rimangono integre la sua sicurezza e i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Dopodiché ha presentato i punti salienti del suo piano:
– Un confine permanente, definito sulla base dei vitali interessi di sicurezza e demografici, tale che i grandi blocchi di insediamenti a ridosso della ex linea armistiziale e i quartieri a maggioranza ebraica di Gerusalemme rimangano sotto sovranità israeliana, accompagnato da scambi di terre tali da lasciare nelle mani dei palestinesi una quantità di territorio analoga a quella che stava al di là della linea armistiziale prima del 1967.
– Misure di sicurezza che prevedano una presenza militare israeliana permanente lungo il fiume Giordano, a protezione del confine orientale, e garanzie che lo stato smilitarizzato palestinese non possa diventare un’altra striscia di Gaza o un altro Libano.
– Insediamento dei profughi palestinesi (e loro discendenti) nello stato palestinese.
– Intese concordate per l’area santa di Gerusalemme.
– Infine, ma più importante, una esplicita dichiarazione che, con l’accordo di pace, il conflitto è terminato e con esso cessa ogni ulteriore rivendicazione fra le parti, unita a un riconoscimento formale di Israele come stato nazionale del popolo ebraico e dello stato palestinese come stato nazionale degli arabi palestinesi.
Barak ha spiegato che questi principi corrispondo in pratica alle richieste che Israele avanza sin dall’anno 2000. Ha chiesto inoltre alla comunità internazionale di adoperarsi per lo “smantellamento delle strutture terroristiche nella striscia di Gaza” e di fare propri i principi stabiliti dal Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Ue, Russia,Onu), e cioè: riconoscimento del diritto di Israele ad esistere, riconoscimento degli accordi precedente sottoscritti da israeliani e palestinesi, ripudio della violenza e del terrorismo. “Ai quali aggiungerei – ha concluso Barak – la richiesta perfettamente comprensibile per qualunque persona civile che, prima di ogni altra cosa, venga permesso alla Croce Rossa di vedere Gilad Shalit”, l’ostaggio israeliano trattenuto da Hama nella striscia di Gaza sin dal giugno 2006.

L’ORGANIZZAZIONE ISLAMISTA PALESTINESE HAMAS sarebbe anche disposta ad accettare uno stato palestinese nelle linee del 1967, ma non accetterà mai di riconoscere lo stato di Israele perché questo significherebbe contraddire l’obiettivo del movimento di “liberare tutta la Palestina” e privare le future generazioni palestinesi della possibilità di “liberare tutte le loro terre”. Lo ha detto mercoledì all’agenzia di stampa palestinese Ma'a Mahmoud al-Zahar, uno dei più alti esponenti di Hamas nella striscia di Gaza.
Alludendo alla possibile linea politica del costituendo governo di unità nazionale palestinese Fatah-Hamas, al-Zahar ha detto che riconoscere il diritto ad esistere di Israele significa “precludere il diritto delle future generazioni di liberare le terre”, e si è domandato (con un riferimento quasi esplicito al principio palestinese di riservarsi il “diritto di “invadere” Israele con i discendenti dei profughi palestinesi): “Quale sarebbe in quel caso il destino di cinque milioni di palestinesi in esilio?”
Al-Zahar ha spiegato che, nel frattempo, Hamas è disposta ad accettare uno stato palestinese “su qualunque parte di Palestina”, senza con questo contraddire il suo obiettivo proclamato di arrivare a uno stato palestinese “dal fiume Giordano al mar Mediterraneo”.
Al-Zahar ha anche parlato della tregua militare con Israele, confermando che il movimento islamista palestinese è disposto ad andare avanti col cessate il fuoco, purché sia chiaro che “la tregua fa parte della lotta armata, non di un suo ripudio”, e che “in ogni caso tregua non significa pace”.
Al-Zahar ha poi affermato che, pur avendo riposto molte speranze nell’unità della fazioni palestinesi e nel suo impatto sull’imminente creazione di uno stato palestinese, egli tuttavia dubita che tale progetto possa essere portato a termine il prossimo settembre, una scadenza che l’Autorità Palestinese ha posto prima di siglare l’accordo con Hamas. “Tutto questo parlare di uno stato palestinese – ha detto al-Zahar – è un tentativo di pacificarci”, per poi domandarsi quale sarebbe la natura di tale stato palestinese, se venisse proclamato fra pochi mesi: “Quale sarebbe il suo territorio? Quelli che vivono in Cisgiordania e striscia di Gaza sarebbero i suoi cittadini? E che ne sarebbe dei cinque milioni di palestinesi in esilio? Intendiamo forse rinunciare al loro diritto al ritorno?”

(Da: Ha’aretz, YnetNews, 11.5.11)
http://www.israele.net/articolo,3132.htm

martedì 10 maggio 2011

Oggi il 63esimo anniversario della nascita dello Stato di Israele


Le celebrazioni iniziate ieri con l'accensione delle torce al cimitero sul monte Herzl. In migliaia affollano parchi e spiagge


Roma, 10 mag. (TMNews) - Migliaia di israeliani affollano oggi i parchi e le spiagge del Paese per festeggiare il 63esimo anniversario dello Stato di Israele. Come da tradizione, le celebrazioni sono cominciate ieri sera con la cerimonia dell'accensione delle torce al cimitero militare sul monte Herzl, aperta dal presidente della Knesset, Reuven Rivlin, con un discorso nel quale ha esortato i suoi connazionali a tenere ben presente che gli israeliani condividono un destino comune nonostante tra essi vi saranno sempre divergenze di opinioni.

In occasione della festa d'Indipendenza, riporta il sito Web del quotidiano "Haaretz", il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha espresso i suoi migliori auguri allo Stato d'Israele, ricordando che gli Usa furono il primo Paese a riconoscere lo Stato ebraico, quando nacque il 14 maggio del 1948. "Sessantatré anni fa, quando Israele proclamò la sua indipendenza, il sogno di uno Stato per il popolo ebraico nella loro storica madrepatria divenne realtà", ha affermato Obama in un comunicato. "Quello stesso giorno gli Stati Uniti furono il primo Paese del mondo a riconoscere lo Stato ebraico".

Peres: “Abu Mazen è ancora il partner per la pace”




Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) è ancora “certamente” un interlocutore per la pace con Israele, nonostante abbia firmato un accordo di riconciliazione con Hamas. Lo afferma il presidente israeliano Shimon Peres in un’intervista al Jerusalem Post in occasione della 63esima Giornata dell’Indipendenza dello Stato d’Israele.
Definendo “un ponte provvisorio" l’accordo Fatah-Hamas siglato dal scorsa settimana, Peres afferma d’aver criticato Abu Mazen per quel passo, ma aggiunge: “Questo non mi esime dalla necessità di dialogare con lui. Non ho intenzione di voltare le spalle al campo per la pace palestinese, anche se lo devo criticare. Abu Mazen era e rimane un interlocutore – dice Peres – perché vuole intrattenere negoziati con Israele, si oppone alla violenza e desidera la pace”.
A proposito della nuova leadership palestinese che scaturirà dall’accordo Fatah-Hamas, Peres fa appello alla comunità internazionale affinché tenga ferme le condizioni poste a Hamas per la sua legittimazione: che gli islamisti riconoscano il diritto di esistere dello stato d’Israele, che accettino gli accordi precedentemente firmati fra Israele e palestinesi, e che ripudino violenza e terrorismo. Secondo il presidente israeliano, su questi principi dovrebbe incentrarsi l’iniziativa israeliana nei discorsi e negli incontri che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu terrà negli Stati Uniti questo mese.
Peres sottolinea la necessità che la comunità internazionale tenga in considerazione le vitali esigenze di sicurezza di Israele nel momento in cui prende in considerazione gli appelli palestinesi per una dichiarazione di indipendenza unilaterale. “Andare alle Nazioni Unite soltanto con una dichiarazione di indipendenza senza dare le necessarie risposte alle preoccupazioni di sicurezza d’Israele significa la continuazione del conflitto, non la soluzione e la fine del conflitto”.
Alla domanda se Israele dovrebbe a sua volta riconoscere l’indipendenza palestinese, il presidente israeliano risponde: “Sono favorevole al riconoscimento, a patto che i palestinesi riconoscano le necessità di sicurezza d’Israele”, e spiega: “Vi sono due componenti: uno stato palestinesi e le necessità di sicurezza di Israele. Se noi parliamo soltanto delle esigenze di sicurezza di Israele, facciamo solo metà della strada. Se loro parlano soltanto dello stato palestinesi, fanno solo metà della strada. Ma fare solo metà della strada per la pace significa continuazione del conflitto. L’ho detto anche al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon – continua Peres – Gli ho detto: signori, volete decidere per uno stato palestinese? Bene, ma siete in grado di fermare il terrorismo? Siete in grado di fermare gli attacchi e le aggressioni? Potete far cessare l’istigazione all’odio e alla violenza? Oppure, vi sarà uno stato palestinese e tutto questo andrà avanti come prima? E questa sarebbe la pace? È questo che volete?”.
Peres risponde con un deciso “sì” alla domanda se definirebbe in modo inequivocabile il presidente Usa Barack Obama un autentico amico di Israele, e ricorda come Obama abbia detto, a lui e ad altri in varie occasioni: “Finché sarò alla Casa Bianca, la sicurezza di Israele sarà in cima al mio ordine di priorità”.
Forte sostenitore della spinta per la democrazia nel mondo arabo, Peres afferma tuttavia che gli esiti della crisi attualmente in corso possono essere soltanto due: “O il mondo arabo torna al tribalismo e alla miseria, o fa il suo ingresso nel ventunesimo secolo. Non ci sono vie di mezzo. Naturalmente – aggiunge – è interesse d’Israele che il mondo arabo entri nel ventunesimo secolo. Non siamo ottusi. Tutto l’ebraismo si regge sul principio che ogni essere umano è creato a immagine di Dio: i nostri valori sono e devono essere più forti anche delle nostre politiche”.
Alla domanda se immagina che la sollevazione rivoluzionaria possa raggiungere l’Iran, Peres risponde in modo asciutto: “L’Iran è un buon candidato. E gli iraniani certamente lo meritano”.

(Da: Jerusalem Post, 9.5.11)

lunedì 2 maggio 2011

Ucciso Bin Laden, il discorso integrale di Obama

Il presidente americano annuncia in televisione la morte del leader di Al Qaeda: "Ho dato indicazioni alla Cia di considerare questo come il nostro obiettivo prioritario".

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato al mondo la morte di Osama Bin Laden con questo discorso:

"Buona sera. Questa notte posso riferire alla gente d'America e al mondo che gli Stati Uniti hanno portato a termine un'operazione in cui è stato ucciso Osama Bin Laden, il leader di Al Qaida, un terrorista che è responsabile dell'omicidio di migliaia di uomini, donne e bambini innocenti. Sono passati quasi dieci anni da quel giorno luminoso di settembre oscurato dal peggiore attacco della nostra storia contro americani. Le immagini dell'11 settembre sono scolpite nella nostra memoria nazionale: aerei dirottati comparire all'improvviso in un limpido cielo di settembre; le torri gemelle collassare al suolo; un fumo nero alzarsi dal Pentagono; il disastro del volo 93 in Shanksville, in Pennsylvania, dove le azioni di cittadini eroici hanno consentito di evitare una distruzione e un dolore ancora maggiori".

"Tuttavia sappiamo che le immagini peggiori sono quelle che non sono state viste alla luce del sole. La sedia vuota di una famiglia a tavola. I bambini che sono stati costretti a crescere senza la madre o il padre. I genitori che non proveranno mai più l'abbraccio del figlio. Quasi tremila persone strappate da noi, che hanno lasciato un vuoto nei nostri cuori. L'11 settembre 2001 la gente d'America nel momento del lutto si è stretta insieme. Abbiamo offerto una mano ai vicini, il sangue ai feriti. Abbiamo riaffermato i legami che ci uniscono l'uno all'altro e il nostro amore per la comunità e il Paese. Quel giorno, non importa da dove venissimo né quale Dio pregassimo o di quale razza fossimo, noi eravamo uniti come una sola famiglia di americani. Eravamo uniti anche nella determinazione di proteggere la nostra Nazione e di di rendere alla giustizia coloro che avevano commesso questo attacco spregevole. Venimmo rapidamente a conoscenza che gli attacchi dell'11 settembre erano stati portati da Al Qaida, un'organizzazione terroristica guidata da Osama Bin Laden, che aveva apertamente dichiarato guerra agli stati Uniti e che era determinata ad uccidere innocenti nel nostro paese e nel mondo. Così siamo andati in guerra contro Al Qaida per proteggere i nostri cittadini, i nostri amici, i nostri alleati".

"Negli ultimi dieci anni grazie al lavoro eroico delle nostre Forze Armate e del nostro antiterrorismo, abbiamo ottenuto grandi risultati in questo sforzo. Abbiamo smantellato attacchi terroristici e rafforzato la nostra difesa interna. In Afganistan abbiamo rimosso il governo dei Talebani, che aveva dato a Bin Laden e ad Al Qaida rifugio e sostegno. E nel mondo abbiamo lavorato con i nostri amici e alleati per catturare o uccidere membri di Al Qaida, compresi molti di quelli che presero parte al complotto dell'11 settembre. Tuttavia Osama Bin Laden era riuscito ad evitare la cattura e a fuggire dall'Afganistan in Pakistan. Nello stesso tempo Al Qaida ha continuato ad operare da quella zona di confine nel mondo attraverso i suoi affiliati".

"Per questo poco dopo aver assunto l'incarico ho dato indicazioni a Leon Panetta, il Direttore della CIA, di considerare la cattura o l'uccisione di Bin Laden la priorità della guerra contro Al Qaida, anche se noi continuavamo il nostro più ampio impegno per distruggere, smantellare e sconfiggere la sua rete. Poi nell'agosto scorso dopo anni di lavoro senza sosta della nostra Intelligens mi è stato riferito di un possibile accesso a Bin Laden. Non era certo e ci sono voluti molti mesi per abbattere questa minaccia. Mi sono riunito ripetutamente con la mia squadra di sicurezza nazionale per raccogliere più informazioni sulla possibilità che Bin Laden era stato localizzato in un rifugio nascosto in Pakistan. La scorsa settimana ho deciso che avevamo informazioni di intelligens sufficenti per agire e ho autorizzato l'operazione per prendere osama Bin Laden e assicurarlo alla giustizia".

"Oggi, sotto la mia direzione, gli Stati Uniti hanno lanciato un'operazione mirata contro quel rifugio ad Abbottabad, in Pakistan. Una piccola squadra di americani ha portato a termine l'operazione con coraggio e capacità straordinarie. nessun americano è rimasto ferito. Hanno fatto attenzione a evitare vittime civili. E dopo un conflitto a fuoco hanno ucciso Bin Laden e hanno preso in custodia il suo corpo. Per oltre due decenni Bin Laden è stato il leader e il simbolo di Al Qaida e ha continuato a pianificare attacchi contro il nostro paese e alleati. La morte di Bin Laden segna il risultato significativo nell'impegno della nostra nazione di sconfiggere Al Qaida. Tuttavia la sua morte non segna la fine del nostro impegno. Non ci sono dubbi sul fatto che Al Qaida continuerà a perseguire attacchi contro di noi. Noi dobbiamo rimanere vigili in patria e fuori, e lo saremo".

"Nel fare questo, dobbiamo anche riaffermare anche che gli Stati Uniti non sono in guerra con l'Islam e non lo saranno mai. Ho sempre detto in modo chiaro, così come ha fatto il Presidente Bush dopo l'11 settembre che la nostra guerra non è contro l'Islam. Bin Laden non era un leader musulmano: era un assassino di massa di musulmani. Al Qaida ha davvero ucciso musulmani in molti paesi incluso il nostro. Per questo la sua sconfitta dovrebbe essere accolta con favore da tutti coloro che credono nella pace e nella dignità umana. Nel corso degli anni ho ripetutamente chiarito che noi avremmo agito in Pakistan se avessimo saputo dove Bin Laden si trovava. E' ciò che abbiamo fatto. Ma è importante precisare che la cooperazione del nostro antiterrorismo con il Pakistan ha contribuito a portarci a Bin Laden e all'edificio in cui si nascondeva. Bin Laden aveva dichiarato guerra contro il Pakistan e contro i pakistani".

Osama Bin Laden ucciso in Pakistan Barack Obama: "Giustizia è fatta

Colpito alla testa in un blitz
dei servizi speciali americani
Festa nelle strade degli Usa


NEW YORK
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato a Washington che Osama Bin Laden, il cervello degli attacchi dell’11 Settembre contro le Torri Gemelle e il Pentagono, è stato ucciso domenica nei pressi di Islamabad, la capitale del Pakistan, in una operazione dei Servizi speciali Usa, grazie ad informazioni di intelligence statunitensi. Nel blitz sono state uccise 5 persone, tra cui un figlio di Bin Laden. Nessun americano è rimasto ferito. Bin Laden è stato colpito da una pallottola alla testa. Le tv pachistane hanno mostrato le foto del cadavere sfigurato e l'emittente Geo ha mostrato in esclusiva le immagini della casa nella quale si sarebbe trovato il leader di al-Qaeda, Osama Bin Laden, nel corso del blitz condotto dai militari americani. Le riprese, girate nella notte, mostrano la casa di Abbotabad, a oltre 50 chilometri da Islamabad, avvolta dalle fiamme.

Affermando in un intervento televisivo in diretta che «giustizia è stata fatta», Obama ieri sera ha dato qualche dettaglio sull’operazione, una delle priorità della sua presidenza. Il raid è stato autorizzato una settimana fa, dopo mesi di indagini. Osama è stato ucciso con un colpo di arma di fuoco alla testa.

La morte di Osama Bin Laden è il «risultato più significativo raggiunto finora nella nostra lotta ad Al Qaeda», ha detto Obama. L’uomo più ricercato dai servizi segreti di tutto il mondo, ha aggiunto, è stato ucciso nel corso di un’operazione condotta dalle forze americane vicino Islamabad, dove Bin Laden si nascondeva.

«Oggi, dietro mie istruzioni, gli Stati Uniti hanno sferrato un’operazione mirata contro un compound a Abbottabad, Pakistan. Una piccola squadra di americani ha condotto l’operazione con coraggio e capacità straordinarie. Nessun americano è rimasto ferito. Sono stati attenti ad evitare vittime civili. Al termine di uno scontro a fuoco, hanno ucciso Osama Bin Laden e preso in custodia il suo corpo». Con Obama sono stati uccisi altri membri della sua famiglia, ha reso noto un funzionario americano citato dalla Cnn.

Secondo fonti giornalistiche americane, Osama si trovava insieme con alcuni familiari in una proprietà dei pressi della capitale del Pakistan. Non ci sarebbero stati feriti Usa nell’operazione condotta dalla Cia, come ha implicitamente confermato Obama, spiegando di avere incaricato dell’operazione il numero 1 dell’agenzia, Leon Panetta, sin dall’inizio della presidenza.

L’annuncio dell’uccisione di Osama ha avuto conseguenze immediate, anche economiche: il dollaro è risalito sui mercati asiatici, dopo una scorsa settimana difficile.

A Washington, centinaia di persone sono accorse di fronte ai cancelli della Casa Bianca, cantando «Usa, Usa» e sventolando, tra urla di gioia, bandiere a stelle e strisce. Centinaia di newyorchesi si sono radunati a Ground Zero, il sito delle Torri gemelle distrutte dagli attentati dell'11 settembre, e a Times Square, nel cuore di Manhattan, per festeggiare. «Ci sono voluti dieci anni ma l'abbiamo preso», ha commentato il capitano dei vigili del fuoco Parice McLead da Ground Zero. «Ora possiamo finalmente essere felici. Spero che questo ci consentirà di mettere la parola fine, per tutti noi, compresi i musulmani».

A poco più di un anno dalle elezioni presidenziali del novembre 2012, Obama ha tenuto a dare la dovuta solennità all’annuncio, effettuato in diretta dalla East Room della Casa Bianca, dopo avere informato alcuni leader mondiali e i principali leader politici degli Stati Uniti.

http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/400357/