giovedì 22 aprile 2010

Se saltano le regole al confine siro-libanese

di Jonathan Spyer


La convocazione al Dipartimento di stato americano del vice capo della missione diplomatica siriana a Washington, Zouheir Jabbour, per riferire sui trasferimenti di armi siriane a Hezbollah non è che l’ultima testimonianza del fatto che le rinnovate tensioni al confine settentrionale d’Israele sono tutt’altro che infondate. La Siria ha ripetutamente smentito i recenti rapporti secondo cui avrebbe autorizzazione il trasferimento ai libanesi Hezbollah di missili balistici Scud-D. Ma la questione degli Scud è solo un particolare, sebbene rilevante, all’interno di un quadro più ampio che è venuto chiaramente a galla sin dall’agosto 2006. Si tratta della realtà entro la quale la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che pose fine alla guerra fra Israele e Hezbollah dell’estate 2006, è stata trasformata in lettera morta dal “blocco della resistenza” costituito da Iran, Siria e Hezbollah.
Vale la pena ricordare che all’epoca la risoluzione 1701 venne sbandierata come un significativo successo della diplomazia. Era la risoluzione che avrebbe dovuto rafforzare la basi della rinnovata sovranità libanese, che allora sembrava possibile dopo il ritiro delle forze armate siriane dal Libano nel 2005. Le sue disposizioni erano assai chiare. La risoluzione prescrive il “disarmo di tutti i gruppi in Libano cosicché … non vi siano né armi né autorità in Libano oltre a quelle dello Stato libanese”. Essa inoltre proibiva esplicitamente “la vendita e fornitura di armi e materiale connesso in Libano ad eccezione di quanto autorizzato dal suo governo”.
Hezbollah e i suoi sostenitori hanno calcolato, a ragione, che né il governo libanese né le Nazioni Unite né la “comunità internazionale” avrebbero avuto la capacità o la volontà di far rispettare queste clausole.
Le Nazioni Unite stesse hanno ammesso la grave inadeguatezza degli arrangiamenti lungo il confine siro-libanese. L’Onu ha condotto due analisi della situazione su quel confine: una nel giugno 2007, l’altra nell’agosto 2008. Il secondo rapporto ha rilevato, per dirla nel linguaggio asciutto di questo genere di documenti, che “anche tenendo conto della difficile situazione politica in Libano durante lo scorso anno”, i progressi verso il conseguimento degli obiettivi enunciati nella risoluzione 1701 sono stati “insufficienti”. La “difficile situazione politica” del 2008 è un riferimento al fatto che l’unico tentativo del governo elettivo libanese di far rispettare la sua sovranità da parte degli alleati nel paese di Siria e Iran era finito nel maggio di quell’anno con la violenta disfatta del governo stesso. Hezbollah e i suoi alleati avevano semplicemente chiarito che qualunque tentativo di interferire con i loro dispositivi militari sarebbe stato affrontato con la forza pura e semplice, e in effetti nessun ulteriore tentativo venne più fatto. Il risultato è stato che negli ultimi tre anni e mezzo, sotto gli occhi indifferenti del resto del mondo, sulle strade che collegano la Siria al Libano è risuonato il rumore dei camion dei fornitori intenti a portare armamenti siriani e iraniani in Libano.
La reazione di Israele è stata quella di tenere d’occhio la situazione e mettere in chiaro che il superamento di certi limiti in termini di tipo, calibro e gittata delle armi messe a disposizione di Hezbollah, sarebbe stato considerato un casus belli. Il recente innalzamento della tensione è dovuto appunto all’emergere di prove che questi limiti vengono impunemente calpestati.
La cosa non è iniziata coi rapporti sugli Scud. Nei mesi scorsi erano già diventate di pubblico dominio le prove di tipi d’armi che indicano una volontà siriana e iraniana di trasformare Hezbollah in una fidata minaccia strategica contro Israele. Tali armi fornite a Hezbollah comprendono missili terra-terra M-600, sistemi missilistici portatili terra-aria Igla-S che possono costituire un pericolo per i caccia israeliani impegnati a monitorare i cieli del Libano meridionale, e ora i sistemi di missili balistici Scud-D. Se i rapporti circa tali armamenti sono corretti, ciò farebbe di Hezbollah il gruppo paramilitare non statale di gran lunga meglio armato al mondo.
Il che non significa che la guerra sia necessariamente imminente. Israele non sembra aver fretta di castigare Hezbollah e la Siria per essersi fatti beffe dei limiti stabiliti. A differenza dei suoi nemici, il governo israeliano deve rendere conto all’opinione pubblica e gli sarebbe difficile giustificare di fronte al pubblico israeliano un intervento preventivo, che potrebbe senz’altro sfociare in una nuova guerra. D’altra parte, anche Hezbollah e Siria non sembrano aver fretta di aprire le ostilità. Hanno semplicemente introiettato il fatto che nulla sembra poter seriamente ostacolare le loro attività attraverso il confine orientale del Libano, e quindi procedono a ritmo sostenuto.
La più chiara lezione di questi ultimi eventi è lo status fittizio di garanzie e risoluzioni internazionali quando non siano sostenute da una reale volontà di farle rispettare. Il fallimento dell’occidente nel garantire il governo elettivo libanese ha permesso di fatto a Hezbollah di impadronirsi del paese. Non aver insistito per l’attuazione della risoluzione 1701 ha consentito a quanto pare la trasformazione strategica di Hezbollah nel corso degli ultimi tre anni e mezzo. Anche se il “blocco della resistenza” non cerca un conflitto nell’immediato, tuttavia nulla indica che i suoi appetiti siano si siano saziati con i suoi recenti guadagni. Leggi, elezioni e accordi non lo ostacolano. Opera, piuttosto, secondo il dettato di un certo “condottiero” tedesco del XX secolo, che disse: “Voi state là con le vostre leggi, io starò qui con le mie baionette: vedremo chi vincerà”. La vera domanda naturalmente è quanto a lungo la vittima designata di tale atteggiamento sia disposta a lasciare che vada avanti.

(Da. Jerusalem Post, 21.4.10)

martedì 20 aprile 2010

Israele celebra 62 anni di indipendenza




19 aprile 2010

Il Giorno dell’Indipendenza d’Israele è celebrato ogni anno nella data dell’anniversario della fondazione dello Stato d’Israele, avvenuta, secondo il calendario ebraico, il 5 del mese di Iyar (quest’anno è stata posposta di un giorno a causa del Sabato). Il Giorno che precede questa celebrazione è dedicato alla memoria di coloro che hanno dato la propria vita, per il conseguimento dell’indipendenza del paese e per assicurare la sua esistenza. La vicinanza delle due date ha come intento quello di ricordare alla nazione il prezzo altissimo pagato per l’indipendenza. In questo giorno l’intera nazione ricorda il proprio debito ed esprime eterna gratitudine ai suoi figli e alle sue figlie che hanno pagato con la propria vita per ottenere l’indipendenza di Israele, e per far sì che esso continui a esistere.



22.682 uomini e donne, in tutto, sono stati uccisi mentre difendevano la terra d’Israele, a partire dal 1860, l’anno in cui i primi ebrei uscirono al di fuori delle mura sicure di Gerusalemme, per costruire nuovi quartieri ebraici.



Nell’ultimo anno, dal Giorno della Commemorazione del 2009, 112 membri delle forze di sicurezza, della polizia, dell’esercito, della polizia di confine, e dell’Agenzia per la Sicurezza d’Israele sono stati uccisi mentre servivano lo Stato.



Quest’anno, nel Giorno dell’Indipendenza, israele celebra anche il 150esimo anniversario della nascita di Theodor Herzl, padre del Sionismo politico moderno, nato a Budapest nel 1860.



Alla vigilia del 62esimo Giorno dell’Indipendenza di Israele, l’Ufficio Centrale per le Statistiche di Israele ha annunciato che la popolazione di Israele ammonta a 7.587.000, dei quali 5.726.000 ebrei (75,5% del totale) e 1.548.000 arabi (20,4% del totale). Alla fondazione dello Stato d’Israele nel 1948 la popolazione totale ammontava a 806.000. Oggi oltre il 79% della popolazione ebraica è costituita da “Sabra”, nati in Israele, rispetto al 35% di nativi del 1948.

Dal Giorno dell’Indipendenza dello scorso anno sono nati in Israele 159.000 bambini, e sono giunti in Israele 16.000 nuovi immigrati.

Fonte: http://roma.mfa.gov.il/mfm/web/main/document.asp?DocumentID=176222&MissionID=41

lunedì 12 aprile 2010

Quel contributo arabo alla Shoà

di Shlomo Avineri


Sempre più spesso si sente ripetere l’argomento dei palestinesi secondo cui vi sarebbe un’ingiustizia di fondo nel fatto che essi sembrano costretti a pagare il prezzo per i crimini commessi in Europa durante la Shoà.
Naturalmente è vero che i colpevoli d’aver perpetrato l’Olocausto sono la Germania nazista e i suoi alleati, non i palestinesi. Ma ogni argomento che lega la creazione dello Stato di Israele esclusivamente alla Shoà è viziato dal fatto di ignorare che il moderno sionismo precede di vari decenni l’annientamento degli ebrei nella seconda guerra mondiale, anche se chiaramente la Shoà ha rafforzato la rivendicazione di sovranità da parte ebraica.
Ma, oltre a questo, l’argomento arabo non è del tutto corretto nemmeno in se stesso nel momento in cui attribuisce tutte le responsabilità all’Europa. Quando, nel 1936, scoppiò la rivolta araba contro il governo britannico sulla Palestina Mandataria, il suo scopo era quello di modificare la posizione britannica, che aveva appoggiato l’immigrazione ebraica in Palestina sin dai tempi della Dichiarazione Balfour (poi inclusa nel testo del Mandato conferito alla Gran Bretagna dalla Società delle Nazioni). La rivolta mirava anche a colpire la comunità ebraica per dissuadere gli ebrei che intendevano immigrare.
Gli inglesi, secondo la secolare tradizione coloniale, repressero brutalmente la rivolta, coadiuvati dalla comunità ebraica locale e aiutati dal governo mandatario britannico. Ma nell’inverno 1938-39 gli inglesi mutarono politica, dopo che il governo del primo ministro Neville Chamberlain aveva capito che il suo tentativo di accondiscendere Hitler era fallito. La Gran Bretagna iniziò a prepararsi per l’ormai inevitabile guerra contro i nazisti e, in questo quadro, cambiò anche la sua politica in Medio Oriente. Londra reintrodusse la leva obbligatoria, avviò una produzione massiccia di aerei e carri armati, sviluppò il radar. Alla luce della necessità di garantire il collegamento cruciale dell’Impero con l’India attraverso il Canale di Suez, la Gran Bretagna temette che una protratta e violenta repressione della rivolta araba in Palestina avrebbe spinto tutti gli arabi della regione più vicino di quanto già non fossero alla Germania nazista e all’Italia fascista. Di conseguenza prese la decisione di avvicinarsi agli arabi allontanandosi dal sionismo. Come spiegò ai dirigenti sionisti il segretario alla colonie Malcolm MacDonald, il cambiamento non scaturiva da una convinzione britannica che le rivendicazioni arabe fossero giustificate, quanto da una pura scelta di realpolitik: c’erano più arabi che ebrei, e gli ebrei in ogni caso avrebbero appoggiato la Gran Bretagna contro i nazisti mentre gli arabi avevano l’opzione di schierarsi con la Germania.
Il crudele paradosso sta nel fatto che questo appeasement verso gli arabi prese avvio proprio quando la Gran Bretagna stava abbandonando la sua politica di appeasement verso Hitler e si stava preparando alla guerra contro la Germania.
Questo fu il motivo per cui venne pubblicato il Libro Bianco del 1939, che limitava drasticamente il diritto degli ebrei ad acquistare terre nel Mandato sulla Palestina e poneva un tetto di 75.000 unità all’immigrazione ebraica. Il messaggio agli arabi era chiaro:gli ebrei resteranno una minoranza in Palestina/Terra d’Israele.
Tale politica non ha completamente conseguito il suo obiettivo: il mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini imboccò comunque la strada per Berlino; in Iraq scoppiò una ribellione anti-britannica e filo-nazista, guidata da Rashid Ali. Ma per quanto riguarda gli ebrei, gli inglesi continuarono coerentemente ad applicare i principi del Libro Bianco per tutta la durata della guerra. Le porte della Palestina/Terra d’Israele restarono sbarrate all’immigrazione legale ebraica, la marina britannica combatté con determinazione l’immigrazione clandestina e le navi che cercavano di portare in salvo gli ebrei dall’occupazione nazista (come la Struma) vennero rispedite ai porti d’origine; alcuni dei loro passeggeri perirono in mare, altri nelle camere a gas.
La colpa della Shoà ricade sulla Germania nazista e sui suoi alleati. Ma un non calcolato numero di ebrei, forse nell’ordine di centinaia di migliaia – compresi i miei nonni, originari della cittadina polacca di Makow Podhalanski – non raggiunsero la Palestina Mandataria e non furono salvati a causa della posizione assunta dagli arabi, i quali riuscirono a far chiudere la porte del Paese durante gli anni più tetri della storia del popolo ebraico.
Chiunque persegua la riconciliazione fra noi e i palestinesi deve insistere che entrambe le parti siano sensibili alle sofferenze dell’altra, e questo vale per i palestinesi come per noi.

(Da: Ha’aretz, 11.4.10)
http://www.israele.net/articolo,2797.htm