sabato 29 ottobre 2011

Ma la storia di Ariel è solo da rivalutare






di Fiamma Nirenstein

Il migliore augurio che si può fare alla nuova biografia di Ariel Sharon, ad opera di uno dei suoi figli, Gilad, è che essa ristabilisca almeno una parte della verità su Sharon. Perch´ questo significherebbe ristabilire la verità su Israele, la cui intera storia di difesa e di utopia Arik incarnava perfettamente, significherebbe togliergli quella cappa di delegittimazione che si è accanita in maniera parossistica sulla sua figura come sul suo Paese.
È impossibile dimenticare la famosa vignetta che nel 2003 vinse la gara di Londra mostrando, à la Goya, uno Sharon che nudo divora, inzaccherandosi di sangue, teste di bambini palestinesi. Non fu mai perdonato a Sharon il semplice principio che la difesa di Israele fosse un indiscutibile dovere. Non gli fu mai perdonato anche di non essere di sinistra quanto è richiesto dal gusto corrente. Il libro di Gilad può aprire qualche nuova conoscenza: per esempio non sembra peregrina l'idea che Sharon abbia favorito una fronda di Abu Mazen contro Arafat, o almeno abbia sentito con favore dell'incontro di Abu Mazen con Shimon Peres. N´ sembra fuori luogo l'idea che abbia cercato di evitare la commissione su Sabra e Chatila, presago del fatto che la strage sarebbe diventata il parametro di un giudizio sballato contro di lui. Sharon non aveva istinti aggressivi contro i palestinesi, e si impegnò per «due stati per due popoli» con la road map del 2003. Era un grande amico di Rabin, come Rabin era un eroe civile ma anche militare, come lui non avrebbe mai accettato di dividere Gerusalemme, ma disse alla cronista in un'intervista nel novembre 2003: «Io solo posso fare la pace, e la farò». La sua ispirazione nasce da bambino in un villaggio comunitario Kfar Malal, dove giunsero da Brest Litovsk i suoi genitori negli anni '20, nella fame e nel lavoro disperato, ma nella più felice fedeltà all'ideale. Dalla guerra del '48 in avanti, quando ha fondato l'unità 101, il primo corpo speciale, lungo tutte le guerre che combatteva in prima linea, quando ha guidato nel Sinai il battaglione che nel '73 ha salvato Israele creando, ferito alla testa, un passaggio sulla riva occidentale del Canale di Suez, Sharon è stato un comandante umanista e amato dai suoi uomini. Ha reinventato la lotta contro il terrorismo quando Israele boccheggiava negli anni dell'Intifada. Ha fatto lo sgombero di Gaza e fondato Kadima. La cronista ha testimoniato in quegli anni lo strazio di un uomo attaccato dalla parte del Paese che gli era più cara, i disperati coloni di Gaza strappati dalle loro case, ma che non ha esitato a agire per quello che credeva il bene di Israele. Nel libro si parla della sua personale antipatia verso Netanyahu. È del tutto realistico che Arik abbia detto parole dure a Bibi che si opponeva al suo disegno per Gaza. Ma forse lo scontro non ha più senso oggi. Dicono di Arik anche che se sapesse che da Gaza da lui sgomberata sono piovuti solo missili e terrore, agirebbe subito per fermare lo scempio.

http://www.ilgiornale.it/esteri/ma_storia_ariel_e_solo_rivalutare/28-10-2011/articolo-id=553924-page=0-comments=1

martedì 18 ottobre 2011

Discorso del Primo Ministro Binyamin Netanyahu dopo la liberazione di Gilad Shalit

Cittadini di Israele, in questo giorno siamo tutti uniti nella gioia e nel dolore.


Due anni e mezzo fa ho assunto di nuovo l’incarico di Primo Ministro. Uno dei compiti principali e più difficili da svolgere che ho trovato sulla mia scrivania, e che ho riposto anche nel mio cuore, è stato quello di portare il nostro soldato rapito, Gilad Shalit, sano e salvo a casa. Oggi la missione è compiuta.


Ciò ha implicato una decisione difficile, molto difficile. Davanti a me si poneva la necessità di far tornare a casa chi viene inviato dallo Stato di Israele verso il campo di battaglia. Da soldato e comandante delle Forze di Difesa israeliane sono stato spesso inviato in missioni pericolose. Ma ho sempre saputo che, qualora io o i miei compagni fossimo stati fatti prigionieri, il governo israeliano avrebbe fatto del suo meglio per riportarci a casa; e questo è ciò che ho fatto adesso in qualità di Primo Ministro di Israele. Da leader che invia ogni giorno dei soldati a proteggere i cittadini di Israele, io credo che la “responsabilità reciproca” non sia solo uno slogan, ma che è una delle pietre angolari della nostra esistenza qui.


Ma mi si poneva di fronte anche un’altra necessità, quella di ridurre al minimo il pericolo per la sicurezza di Israele. E per questo sono stati posti due requisiti chiari. Il primo: la leadership di Hamas, che comprende dei pluriomicidi, rimarrà in carcere. Il secondo: la stragrande maggioranza dei detenuti rilasciati sarà espulsa o rimarrà al di fuori dei territori di Giudea e Samaria, in modo da impedire loro di essere in grado colpire i nostri cittadini.


Per anni Hamas ha fermamente contestato questi requisiti. Ma pochi mesi fa abbiamo ricevuto indicazioni chiare sulla disponibilità a ritirare le sue obiezioni. Per giorni e notti al Cairo è stato condotto un pervicace negoziato con la mediazione del governo egiziano. Siamo rimasti saldi sui nostri principi e, dal momento in cui è stata accolta la maggior parte dei nostri requisiti, ho dovuto prendere una decisione.


So bene che il dolore delle famiglie delle vittime del terrorismo è insopportabile. È molto difficile vedere i criminali che hanno ucciso le persone più care a queste famiglie, mentre vengono rilasciati prima di aver scontato a pieno la loro pena. Ma sapevo anche che con le circostanze politiche attuali questo era il miglior accordo che potessimo conseguire, e non vi era alcuna garanzia che le condizioni che hanno consentito il suo conseguimento vi sarebbero state anche in futuro. Allora probabilmente per Gilad non ci sarebbe stato più nulla da fare e, purtroppo, questa è un’eventualità che si è già verificata in passato.


Ho pensato a Gilad e ai cinque anni in cui ha languito in isolamento nelle celle di Hamas. Non volevo che il suo destino fosse come quello di Ron Arad. Ron è stato catturato esattamente 25 anni fa, e non è più ritornato. Mi sono ricordato della nobile Batya Arad, e della sua preoccupazione per il figlio, fino al momento in cui è mancata. Sapevo di portare una gravosa responsabilità. Conoscevo tutte le implicazioni della decisione. In momenti come questi un leader si ritrova da solo e deve prendere una decisione. Ho riflettuto e ho deciso. I Ministri del mio governo hanno sostenuto la decisione a larga maggioranza.


E oggi, in questo momento, Gilad torna a casa, dalla sua famiglia, dal suo popolo e al suo paese. Questo è il momento più emozionante. Pochi istanti fa l’ho abbracciato dopo la sua discesa dall'elicottero e l’ho accompagnato dai suoi genitori Aviva e Noam, ai quali ho detto: ho riportato vostro figlio a casa. Ma questa è anche una giornata difficile. Il prezzo pagato, seppur ridotto, è ancora pesante.


Voglio precisare: noi continueremo a combattere il terrorismo. E ogni terrorista rilasciato che dovesse tornare a compiere atti terroristici, è responsabile della propria vita. Lo Stato di Israele è differente dai suoi nemici. Qui non celebriamo il rilascio di assassini, non portando sulle spalle coloro che hanno reciso delle vite umane. Al contrario, noi crediamo nella sacralità della vita, noi santifichiamo la vita. Questa è l’antichissima tradizione del nostro popolo, il popolo ebraico.


Cittadini di Israele, negli ultimi giorni tutti noi abbiamo visto la coesione tra la gente, così come non si vedeva da tempo. E questa unità è fonte di forza per Israele, nel presente e per il futuro. Oggi tutti noi esultiamo per il ritorno di Gilad a casa, nel nostro libero paese, lo Stato di Israele. Domani celebriamo la vigilia di Simchàt Toràh. Sabato, nelle sinagoghe, assieme al brano settimanale della Genesi, leggeremo anche le parole del profeta Isaia (42,7): “Perché tu … faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”. In questo giorno io posso dire, a nome di tutti noi cittadini di Israele, nello spirito degli eterni valori del popolo di Israele: “i figli sono tornati nei loro confini” (Geremia 31,17). ‘Am Israel chài! (Il popolo d’Israele vive!)

http://rome.mfa.gov.il/mfm/web/main/document.asp?DocumentID=201221&MissionID=41

mercoledì 12 ottobre 2011

Il Governo approva l'accordo per la liberazione di Gilad Shalit





12 ottobre 2011

Il Governo israeliano ha approvato l’accordo per la liberazione di Gilad Shalit a larga maggioranza (26 ministri a favore e 3 contrari).


Il Primo Ministro Netanyahu: “Riporto Gilad Shalit a casa, dai suoi genitori Noam e Aviva, da suo fratello Yoek, da sua sorella Hadas, da suo nonno Zvi, e al popolo d’Israele”.


Nel comunicato precedente alla seduta straordinaria di governo, Netanyahu aveva dichiarato: “Questa mattina ho invitato Noam Shalit nella mia residenza, e ho parlato al telefono con la madre Aviva e col nonno Zvi. Ho detto loro che sto mantenendo la promessa e sto riportando a casa il loro figlio e nipote. Sono felice di aver potuto adempiere con successo il precetto ebraico del “riscatto dei prigionieri” e, se tutto va come pianificato, nei prossimi giorni Gilad sarà di nuovo in Israele con la sua famiglia e con il suo popolo.


Israele è un popolo unico. Siamo tutti mutualmente responsabili l’uno dell’altro, e, come dissero i nostri saggi: “Colui che salva una vita, è come se salvasse il mondo intero”. Stasera io presento al Governo una prosta per salvare Gilad Shalit, e riportarlo finalmente a casa, in Israele, dopo cinque anni”.


Durante la seduta sono stati ascoltati i pareri dei vertici dei servizi di sicurezza, il direttore dello Shin Bet Yoram Cohen, il Capo di Stato Maggiore Benny Gantz, il direttore del Mossad Tamir Pardo, e l’inviato speciale del Primo Ministro per i negoziati David Meidan. I vertici dei servizi di sicurezza hanno presentato l’accordo e i suoi vari aspetti e hanno espresso il loro sostegno in merito.


Il Primo Ministro Netanyahu ha aggiunto: “Questa è una decisione difficile da prendere, ma una leadership è messa alla prova proprio in momenti come questi, per la sua capacità di prendere decisioni difficili”.


http://roma.mfa.gov.il/mfm/web/main/document.asp?DocumentID=201135&MissionID=41

martedì 4 ottobre 2011

Abu Mazen: "Nessuno potrà fermare la nascita della Palestina

«Se Obama mette il veto va contro i principi stessi dell’America»

RACHIDA DERGHAM

Presidente, come si è sentito a parlare davanti all’Assemblea Generale? Che cos’ha provato in un momento simile?


«Sentivo di essere testimone di un evento storico, di essere lì a presentare una richiesta giusta e sacrosanta: il diritto di ottenere uno Stato che sia a pieno titolo membro delle Nazioni Unite, come tutti gli altri. Mi è sembrato che se si fosse votato in quel momento avremmo avuto un appoggio unanime. Ma purtroppo ci sono persone che vogliono impedire al popolo palestinese di raggiungere questo traguardo e l’unica cosa da fare è essere pazienti».

Teme le reazioni? Pensa che quest’avventura possa avere conseguenze indesiderate?
«Non è un’avventura. Al contrario, è uno sforzo ben calcolato. Per oltre un anno abbiamo discusso la questione e l’abbiamo esaminata da ogni angolo. Ne abbiamo parlato con le altre nazioni arabe e con la Lega Araba, che sono sempre state al corrente di ogni nostro passo. Siamo stati chiari con tutti, senza trucchi. Nei nostri incontri e nelle nostre dichiarazioni, è sempre stata palese la nostra posizione».

L’eventuale veto degli Stati Uniti vi pone davanti a un bivio. State valutando delle alternative?
«Torneremo in patria e studieremo tutte le possibilità. Ogni proposta che riceveremo sarà presa attentamente in considerazione, ferme restando le condizioni che abbiamo posto. La realtà è che vogliamo tornare a negoziare. Ma senza il riconoscimento delle frontiere del 1967 e senza che gli insediamenti si fermino, non ci siederemo ad alcun tavolo. Attendiamo che la decisione del Consiglio di Sicurezza venga presa e tutti i passi formali. Ma rifiutiamo ogni gioco politico, ogni tentativo di fare ostruzionismo o temporeggiare».

Se la decisione del Consiglio di Sicurezza sarà rinviata, c’è la possibilità che per la Palestina vi sia un posto nell’Onu come «Stato osservatore»?
«Non è una soluzione che stiamo considerando in questo momento. Ripeto: rifiutiamo ogni tipo di rinvio o ostruzionismo.

Se il veto statunitense fosse confermato, la Palestina non sarà riconosciuta come Nazione e non potrà appellarsi alla Corte Penale Internazionale.
«Gli Stati Uniti, la roccaforte della democrazia, farebbero un torto al popolo palestinese negandogli la libertà e il diritto all'autodeterminazione. E dovrebbero rispondere di questa scelta».

Ma c’è chi dice: perché perdere l’appoggio di un presidente americano favorevole alla vostra causa?
«È stato il presidente degli Stati Uniti a parlare dello stop agli insediamenti, di confini del ‘67. Ora dovrebbe dare seguito alle sue parole».

Il presidente francese Sarkozy può essere l’alternativa giusta, se avanzerà delle proposte più dettagliate?
«Apprezziamo il suo impegno, ma daremo una risposta solo dopo aver consultato la leadership palestinese. Solo in quella sede verrà presa una decisione».

L'esperienza del Quartetto può dirsi conclusa? È deluso dalle sue posizioni?
«Purtroppo nell’ultimo anno il Quartetto non è riuscito a produrre alcun documento, come invece era avvenuto in passato. Quest’anno il Quartetto ha fallito, almeno fino ad oggi. È stato il Quartetto a rifiutare le proposte americane, non noi. La Russia, l’Europa e l’Onu hanno rifiutato le istanze americane e questo significa che erano inaccettabili per chiunque. Proposte che parlano di uno stato ebraico e del blocco degli insediamenti come se fossero un fatto compiuto e lasciano la gestione della sicurezza in mano israeliana. Di fatto è stato l’inviato del Quartetto, Tony Blair, a portare sul tavolo le idee che lo stesso Quartetto ha rigettato».

Sarkozy ha proposto di fissare un calendario per i negoziati.
«I negoziati sono la vera priorità, vengono prima della tempistica. Quello che conta è la sostanza. Se la sostanza è adeguata, allora siamo disposti a fissare una roadmap e una scadenza».

Hamas è stata critica con il suo discorso.
«Fin dall’inizio, Hamas ha detto che si sarebbe trattato di una mossa unilaterale. È vero, forse non li abbiamo consultati. Dicono “se tu non ci consulti, siamo contro di te”, ma è assurdo. Capisco il succo delle loro posizioni, ma ne hanno fatto una questione di orgoglio. Rifiutano ogni compromesso, anche con pretesti: sostengono che il discorso conteneva contraddizioni, quando invece tutto il mondo ha capito quello che abbiamo detto. È deprecabile».

Lei ha proposto qualcosa di simile a una nuova intifada.
«Non ho parlato di intifada, quella appartiene al passato. Oggi c’è invece una pacifica resistenza popolare a Bil’in, a Ni’lin e in altre città della Palestina vicine al Muro. È una resistenza condotta dai palestinesi, ma anche da israeliani e volontari internazionali. Queste proteste non violano alcuna legge internazionale, le appoggiamo perché si oppongono all’occupazione e solo finché saranno pacifiche. Ora, abbiamo imparato dai nostri fratelli arabi e dalla primavera araba. Le loro proteste pacifiche si sono dimostrate il metodo più efficace per ottenere i propri diritti».

Teme che Benjamin Netanyahu possa minacciare nuove misure?

«Dal punto di vista militare, anche senza minacce, Netanyahu può fare qualunque cosa: non siamo in grado di confrontarci con Israele su quel piano e non vogliamo farlo. Ma se lo vorrà, la nostra porta è aperta».

I primi a congratularsi con lei per il suo discorso sono stati il primo ministro turco Erdogan e l’Emiro del Qatar. Qual è la natura delle vostre relazioni, considerando la rivalità tra Iran e Turchia? E qual è il vostro rapporto con Iran e Siria?
«Qui a New York abbiamo incontrato la delegazione iraniana e quella siriana. Il ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad è venuto a congratularsi con me. Non siamo in alcun modo in cattivi rapporti. Per quanto riguarda Erdogan, la nostra relazione è eccellente, così come quella con l’Emiro del Qatar. Non abbiamo problemi con nessuno».

C’è qualcosa che teme?
«Di chi dovrei aver paura? Se Netanyahu vuole attaccarci, lo faccia. Se vuole annullare gli accordi, lo faccia. È libero di fare quello che preferisce perché è Israele la nazione occupante. Netanyahu occupa la nostra terra e può fare ciò che vuole. Ma non ci sottometteremo alla sua volontà. E ci opporremo con mezzi pacifici».
30.09.2011
http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/422696/

I palestinesi all' Onu sbagliano da uomo di pace vi spiego perché

Levy Bernard Henri

Da oltre quarant’ anni sono favorevole all’ avvento di uno Stato palestinese funzionante e alla soluzione «due popoli, due Stati». Per tutta la vita - fosse solo patrocinando il piano israelo-palestinese di Ginevra e accogliendo a Parigi, nel 2003, Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo, i suoi principali autori - non ho smesso di dire e ripetere che è l’ unica soluzione conforme alla morale non meno che alla causa della pace. Eppure, oggi sono ostile alla strana domanda di riconoscimento unilaterale che dovrà essere discussa nei prossimi giorni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a New York, e sento il dovere di spiegare perché. La richiesta palestinese si fonda, innanzitutto, su una premessa falsa: la presunta «intransigenza» israeliana che non lascerebbe alla parte avversa altre possibilità se non di ricorrere a tale atto di forza. Non parlo dell’ opinione pubblica israeliana: un sondaggio dell’ Istituto Truman per la pace, all’ Università ebraica di Gerusalemme, ha appena ricordato che la maggioranza (il 70%) dà per scontata l’ idea di una spartizione del territorio. Parlo del governo israeliano stesso, e del cammino percorso dai tempi in cui il suo capo credeva ancora alle pericolose chimere del Grande Israele. Beninteso, oggi resta aperta la questione degli «insediamenti» in Cisgiordania. Ma il disaccordo, in questa vicenda, oppone coloro che, dietro a Mahmoud Abbas, esigono che essi siano congelati prima di tornare al tavolo dei negoziati e coloro che, con Netanyahu, rifiutano che si ponga come condizione ciò che dovrà essere uno degli oggetti di negoziato: esso non concerne né la questione stessa, né la necessità di giungere a un accordo. Ciascuno, io per primo, ha la propria opinione sull’ argomento. Ma presentare questa controversia come un rifiuto di negoziare è una contro-verità. La domanda palestinese si fonda, inoltre, su un’ idea preconcetta che è quella di un Mahmoud Abbas miracolosamente e integralmente convertito alla causa della pace. Lungi da me l’ idea di negare la strada che anch’ egli ha percorso dai tempi in cui esprimeva una «tesi», dai forti toni negazionisti, sulla «collusione fra sionismo e nazismo». Però ho letto il discorso che ha tenuto all’ Onu, a New York. E se pur vi trovo accenti di vera sincerità, se mi commuovo, come tutti, all’ evocazione del troppo lungo calvario palestinese, se intuisco perfino, fra le righe, come l’ uomo che l’ ha pronunciato potrebbe in effetti divenire, appena lo volesse e venisse incoraggiato, un Sadat palestinese, un Gorbaciov, non posso impedirmi di udire anche segnali più inquietanti. L’ omaggio insistente ad Arafat, per esempio. L’ evocazione, nella stessa sede Onu e nella stessa occasione, del «ramo d’ ulivo» brandito da chi, una volta almeno, a Camp David, nel 2000, rifiutò la pace concreta, a portata di mano, che gli era offerta. Poi, l’ assordante silenzio sull’ accordo che lui, Abbas, ha concluso cinque mesi fa con un Hamas la cui sola Carta basterebbe, ahimè, a chiudergli le porte dell’ Onu, che in linea di principio accetta solo «Stati pacifici» e contrari al terrorismo. È con questo uomo, certo, che Israele deve fare la pace. Ma non qui. Non così. Non con un colpo di teatro, con i silenzi, con le mezze verità. E poi la domanda palestinese suppone - peggio, esige - che sia spezzato, a colpi di magiche firme, il nodo più inestricabile del pianeta: il nodo di interessi antagonistici, di aporie diplomatiche, di contraddizioni geopolitiche. Parliamo davvero seriamente? Sono quarant’ anni che si discute, spesso in malafede ma non sempre, sulla questione delle frontiere giuste fra i due popoli, e sulla loro capitale. Quarant’ anni che si dibatte, fra gente che si gioca la propria vita e il proprio destino, sul modo meno peggiore di garantire la sicurezza di Israele in una regione che non gli ha mai riconosciuto, fino a oggi, la piena legittimità. Sono sessantatré anni che il mondo si chiede come considerare il torto fatto ai profughi palestinesi del 1948 senza, tuttavia, compromettere il carattere ebraico dello Stato di Israele. E si avrebbe la pretesa di sistemare tutto questo, arbitrare questi quasi insolubili dilemmi, imballare un pacco di complessità dove ogni cosa sta nei dettagli, con un gesto spettacolare, sbrigativo, basandosi su un’ infatuazione retorica e lirica? Ma andiamo! Che leggerezza! E che pessimo teatro! Che occorra aiutare i protagonisti di tale interminabile dramma ad innalzarsi al di sopra di se stessi e a portare a termine il processo che negli ultimi anni hanno solo abbozzato, è sicuro. Che la comunità internazionale debba indurli a intendersi o, come dice Amos Oz, ma è la stessa cosa, a divorziare, è evidente; del resto, è questo il senso della recente proposta francese e degli obblighi di calendario che essa impone. Ma nulla potrà evitare il doloroso e costoso faccia a faccia senza cui non c’ è mai, da nessuna parte, un vero riconoscimento reciproco; nulla e nessuno potrà far evitare ai due protagonisti quella mossa apparentemente semplice ma che sarà per entrambi il più lungo dei viaggi: il primo passo verso l’ altro, la mano tesa, il negoziato diretto. (traduzione di Daniela Maggioni) ] a oltre quarant' anni sono favorevole all' avvento di uno Stato palestinese funzionante e alla soluzione «due popoli, due Stati». Per tutta la vita - fosse solo patrocinando il piano israelo-palestinese di Ginevra e accogliendo a Parigi, nel 2003, Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo, i suoi principali autori - non ho smesso di dire e ripetere che è l' unica soluzione conforme alla morale non meno che alla causa della pace. Eppure, oggi sono ostile alla strana domanda di riconoscimento unilaterale che dovrà essere discussa nei prossimi giorni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a New York, e sento il dovere di spiegare perché. La richiesta palestinese si fonda, innanzitutto, su una premessa falsa: la presunta «intransigenza» israeliana che non lascerebbe alla parte avversa altre possibilità se non di ricorrere a tale atto di forza. Non parlo dell' opinione pubblica israeliana: un sondaggio dell' Istituto Truman per la pace, all' Università ebraica di Gerusalemme, ha appena ricordato che la maggioranza (il 70%) dà per scontata l' idea di una spartizione del territorio. Parlo del governo israeliano stesso, e del cammino percorso dai tempi in cui il suo capo credeva ancora alle pericolose chimere del Grande Israele. Beninteso, oggi resta aperta la questione degli «insediamenti» in Cisgiordania. Ma il disaccordo, in questa vicenda, oppone coloro che, dietro a Mahmoud Abbas, esigono che essi siano congelati prima di tornare al tavolo dei negoziati e coloro che, con Netanyahu, rifiutano che si ponga come condizione ciò che dovrà essere uno degli oggetti di negoziato: esso non concerne né la questione stessa, né la necessità di giungere a un accordo. Ciascuno, io per primo, ha la propria opinione sull' argomento. Ma presentare questa controversia come un rifiuto di negoziare è una contro-verità. La domanda palestinese si fonda, inoltre, su un' idea preconcetta che è quella di un Mahmoud Abbas miracolosamente e integralmente convertito alla causa della pace. Lungi da me l' idea di negare la strada che anch' egli ha percorso dai tempi in cui esprimeva una «tesi», dai forti toni negazionisti, sulla «collusione fra sionismo e nazismo». Però ho letto il discorso che ha tenuto all' Onu, a New York. E se pur vi trovo accenti di vera sincerità, se mi commuovo, come tutti, all' evocazione del troppo lungo calvario palestinese, se intuisco perfino, fra le righe, come l' uomo che l' ha pronunciato potrebbe in effetti divenire, appena lo volesse e venisse incoraggiato, un Sadat palestinese, un Gorbaciov, non posso impedirmi di udire anche segnali più inquietanti. L' omaggio insistente ad Arafat, per esempio. L' evocazione, nella stessa sede Onu e nella stessa occasione, del «ramo d' ulivo» brandito da chi, una volta almeno, a Camp David, nel 2000, rifiutò la pace concreta, a portata di mano, che gli era offerta. Poi, l' assordante silenzio sull' accordo che lui, Abbas, ha concluso cinque mesi fa con un Hamas la cui sola Carta basterebbe, ahimè, a chiudergli le porte dell' Onu, che in linea di principio accetta solo «Stati pacifici» e contrari al terrorismo. È con questo uomo, certo, che Israele deve fare la pace. Ma non qui. Non così. Non con un colpo di teatro, con i silenzi, con le mezze verità. E poi la domanda palestinese suppone - peggio, esige - che sia spezzato, a colpi di magiche firme, il nodo più inestricabile del pianeta: il nodo di interessi antagonistici, di aporie diplomatiche, di contraddizioni geopolitiche. Parliamo davvero seriamente? Sono quarant' anni che si discute, spesso in malafede ma non sempre, sulla questione delle frontiere giuste fra i due popoli, e sulla loro capitale. Quarant' anni che si dibatte, fra gente che si gioca la propria vita e il proprio destino, sul modo meno peggiore di garantire la sicurezza di Israele in una regione che non gli ha mai riconosciuto, fino a oggi, la piena legittimità. Sono sessantatré anni che il mondo si chiede come considerare il torto fatto ai profughi palestinesi del 1948 senza, tuttavia, compromettere il carattere ebraico dello Stato di Israele. E si avrebbe la pretesa di sistemare tutto questo, arbitrare questi quasi insolubili dilemmi, imballare un pacco di complessità dove ogni cosa sta nei dettagli, con un gesto spettacolare, sbrigativo, basandosi su un' infatuazione retorica e lirica? Ma andiamo! Che leggerezza! E che pessimo teatro! Che occorra aiutare i protagonisti di tale interminabile dramma ad innalzarsi al di sopra di se stessi e a portare a termine il processo che negli ultimi anni hanno solo abbozzato, è sicuro. Che la comunità internazionale debba indurli a intendersi o, come dice Amos Oz, ma è la stessa cosa, a divorziare, è evidente; del resto, è questo il senso della recente proposta francese e degli obblighi di calendario che essa impone. Ma nulla potrà evitare il doloroso e costoso faccia a faccia senza cui non c' è mai, da nessuna parte, un vero riconoscimento reciproco; nulla e nessuno potrà far evitare ai due protagonisti quella mossa apparentemente semplice ma che sarà per entrambi il più lungo dei viaggi: il primo passo verso l' altro, la mano tesa, il negoziato diretto. (traduzione di Daniela Maggioni)

Pagina 60 (1 ottobre 2011) - Corriere della Sera