domenica 28 novembre 2010

Incertezza in Siria, in Libano e nei paesi del Golfo per i preparativi alla successione in Arabia Saudita

Le cattive condizioni di salute del re saudita Abdullah, attualmente in cura negli Stati Uniti, e del principe ereditario Sultan bin Abdul Aziz, aprono la competizione per la successione all’interno della famiglia reale; ciò potrebbe avere delle conseguenze a livello regionale, e soprattutto in Libano dove gli sforzi siro-sauditi cercano di impedire una nuova esplosione di violenza nel paese

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C’è attesa nelle capitali arabe e internazionali per i possibili sviluppi in Arabia Saudita in conseguenza del viaggio compiuto dal monarca saudita, re Abdullah bin Abdul Aziz, a New York per ricevere delle cure a causa di alcuni problemi di salute.

L’indisposizione dell’ottantaseienne monarca saudita, accompagnata dalla malattia del suo erede al trono, anch’egli ottuagenario, ripropone la questione della successione nel regno, e della distribuzione delle più alte e importanti cariche – le quali controllano la grandiosa ricchezza del paese, le sue politiche sociali, i religiosi più influenti e le forze armate – e di come ciò condizionerà le relazioni del regno, che ha una grande influenza politica nella regione, sugli avvenimenti e sugli sviluppi del Medio Oriente.

Gli sforzi siro-sauditi stanno compiendo una corsa contro il tempo per contenere le conseguenze dell’atteso rinvio a giudizio che il tribunale internazionale incaricato del dossier dell’assassinio del primo ministro libanese Rafiq Hariri dovrebbe emettere a breve, secondo tutte le aspettative.

Ma, mentre non è ancora arrivato l’inviato saudita (il principe Abdul Aziz bin Abdullah, che accompagna suo padre nel proprio viaggio di cura) il quale avrebbe dovuto incontrare la leadership siriana per discutere il piano d’azione da rendere effettivo prima del rinvio a giudizio, ambienti siriani hanno confermato che è cresciuta enormemente l’attesa di conoscere l’andamento degli affari interni sauditi, relativamente alla distribuzione delle posizioni di governo ed alla competizione tra i membri della famiglia reale, nelle sue due componenti della prima e seconda generazione.

Questi ambienti sono arrivati a dire che: “La stabilità del regno è la cosa migliore in questa fase, soprattutto in relazione al coordinamento siro-saudita”.

In un analogo contesto, osservatori a Damasco ritengono che il “ventilato” ritorno del principe Bandar bin Sultan ad una posizione di primo piano nella struttura del potere saudita (dopo un suo completo allontanamento, che era arrivato ai limiti della scomparsa definitiva) potrebbe non essere opportuno in questo preciso momento.

Tali osservatori sembrano temere le imprevedibili conseguenze del ritorno di Bandar, le quali potrebbero gettare un’ombra sul progresso degli sforzi compiuti in relazione al dossier libanese. Questi ambienti precisano tuttavia che il ritorno di Bandar bin Sultan è una faccenda che riguarda la famiglia saudita.

Gli esperti ritengono che la monarchia saudita stia vivendo attualmente una fase delicata a causa della malattia del re e dell’erede al trono, e a causa delle aspirazioni dei giovani principi, che ritengono di dover cogliere l’occasione per partecipare alla guida del governo. Il principe Bandar bin Sultan bin Abdul Aziz – segretario generale del Consiglio per la sicurezza nazionale – era arrivato a Riyadh dall’estero, ed era stato ricevuto in aeroporto dal principe Muqrin bin Abdul Aziz, capo dei servizi segreti, e da un gruppo di importanti principi dell’Arabia Saudita. E’ stato riferito che Bandar bin Sultan avrebbe giocato un ruolo di primo piano nel deterioramento delle relazioni tra Damasco e Riyadh all’indomani dell’assassinio di Hariri, e negli anni successivi.

Le parti libanesi fanno affidamento sui risultati della coordinamento siro-saudita per porre fine alla scottante crisi politica libanese, la quale potrebbe evolversi ulteriormente dopo l’emissione del rinvio a giudizio da parte del tribunale internazionale, col rischio di conflitti confessionali nel caso in cui il rinvio a giudizio dovesse tradursi in un’incriminazione di Hezbollah.

Gli osservatori libanesi hanno sottolineato che il principe Abdul Aziz bin Abdullah – il figlio del re saudita incaricato dei contatti con la Siria e il Libano – è partito anch’egli per Washington per accompagnare suo padre. Il che significa che sarà necessario aspettare fino al loro ritorno – che potrebbe farsi attendere – per riprendere le consultazioni e i contatti sulla faccenda libanese.

Il regno arabo saudita sta vivendo una situazione di incertezza politica senza precedenti. L’assenza del re saudita e l’improvviso ritorno dell’erede al trono dal Marocco occupano i discorsi nei forum e negli incontri politici.

Facebook e Twitter hanno assistito a numerose discussioni e commenti su questa difficile fase della storia del regno, e su come riorganizzare il potere ed evitare lotte tra le fazioni rivali all’interno della famiglia.

Circola un articolo del dott. Mohammed Abdul Karim, professore di diritto religioso all’Università al-Imam, che parla della necessità che i cittadini prendano parte alla scelta di chi dovrà rappresentarli. Questo articolo è stato pubblicato su numerosi siti web.

Nel suo articolo Abdul Karim si domanda: “Se la famiglia regnante dovesse cadere a causa di fattori interni (lotte interne alla famiglia) o esterni, il destino del’unità e del popolo continuerà a dipendere da conflitti interni ed esterni, e dalla presenza o meno della famiglia reale?”.

Poi egli aggiunge: “Restituite valore al popolo, all’uguaglianza tra le sue componenti, ad una sua reale direzione dello stato, a vere consultazioni, ad un popolo reale, e non ad un popolo immaginario dall’unità apparente e puramente esteriore, esposto alla dissoluzione semplicemente a causa di divergenze all’interno del regime”.

Nel regno saudita molti si sono soffermati sugli annunci di felicitazioni pubblicati dalla maggior parte dei giornali sauditi in occasione del ritorno del principe Salman bin Abdul Aziz – governatore della regione di Riyadh – che ha subito ripreso le proprie funzioni ed ha ricevuto le persone che si congratulavano del suo ritorno. Alcuni hanno interpretato queste congratulazioni come una “campagna elettorale” che rispecchierebbe le aspirazioni del principe Salman ad assumere un incarico importante all’interno dello stato, che potrebbe essere la posizione di principe ereditario.

La situazione interna saudita, e la questione della successione in particolare, hanno avuto ripercussioni nella regione del Golfo, i cui abitanti aspettano con ansia la rappresentanza saudita al vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo che si terrà agli inizi del mese prossimo a Abu Dhabi.

Molti osservatori prevedono che a capo della delegazione saudita ci sarà il principe Nayef bin Abdul Aziz – il secondo vice primo ministro – a causa dell’assenza del re saudita e della malattia del principe Sultan bin Abdul Aziz, attuale erede al trono.

A meno che il principe Sultan non decida di essere a capo della delegazione nella seduta di apertura e per un breve periodo, per poi lasciare il vertice, consegnando la presidenza al principe Saud al-Faisal, attuale ministro degli esteri.

Un esperto di questioni saudite, residente nei paesi del Golfo, ha dichiarato ad “al Quds al-arabi” che, se il principe Nayef dovesse assumere la presidenza della delegazione, ciò significherebbe che la questione della successione è stata decisa e che egli sarà designato come erede al trono nel caso in cui questa posizione dovesse diventare vacante.

Kamal Saqr
http://www.medarabnews.com/2010/11/28/incertezza-in-siria-in-libano-e-nei-paesi-del-golfo-per-i-preparativi-alla-successione-in-arabia-saudita/

mercoledì 17 novembre 2010

Il diritto d’Israele ad esistere non è negoziabile





Di Frida Ghitis

Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è offerto di spingere il proprio governo a decretare un prolungamento della moratoria sulle attività edilizie ebraiche negli insediamenti in Cisgiordania a patto che i palestinesi riconoscessero Israele come stato nazionale del popolo ebraico, ho provato sentimenti contrastanti in merito a tale proposta. Dopo tutto, mi dicevo, ci sono ben pochi dubbi che Israele sia lo stato patria nazionale degli ebrei. Le stesse Nazioni Unite lo istituirono in questo modo (con la risoluzione del 1947), e la comunità internazionale lo riconosce come tale. Perché chiedere ai palestinesi, che non amano la cosa, di ribadire ciò che è già ovvio?
Poi, però, la veemenza con cui i palestinesi hanno respinto l’idea ha svelato un’opposizione talmente radicata alla soluzione “a due stati” da convincermi che si potrà mai avere una pace autentica e duratura a meno che i palestinesi e gli altri arabi non accettino apertamente Israele come nazione ebraica.
Nazione ebraica, naturalmente, non significa diritti speciali per gli ebrei, o status da cittadini di seconda classe per i non ebrei. Israele è un paese democratico le cui leggi dettano a chiare lettere l’eguaglianza di diritti per tutti i cittadini. Come altre democrazie, anche Israele non riesce sempre a realizzare l’obiettivo dell’eguaglianza davanti alla legge, ma i suoi tribunali, i gruppi di cittadini organizzati e altri soggetti si adoperano senza sosta in questo senso. E Israele non è certo l’unico paese al mondo che comprende una religione o una nazionalità nella sua auto-definizione. Decine di stati abbracciano una religione o una nazionalità pur preservando le diversità e continuando a battersi per l’eguaglianza dei diritti. I cittadini ebrei del Regno Unito, ad esempio, sono leali a un paese sulla cui bandiera campeggiano non una, ma ben due croci (e il cui capo dello stato è anche il capo della religione anglicana). Vi sono decine di paesi che si definiscono cristiani, e per lo più sono democrazie perfettamente funzionanti, con pieni diritti per le minoranze.
I ventidue paesi della Lega Araba, tutti assai carenti di democrazia, si identificano come stati arabi, ed esistono cinquantacinque paesi che si definiscono nazioni musulmane appartenendo all’Organizzazione della Conferenza Islamica. E c’’è solo un’unica, minuscola nazionale sulla Terra che è uno stato ebraico.
Per quasi un decennio gli Stati Uniti hanno esortato i palestinesi a riconoscere Israele come stato ebraico. L’anno scorso all’Assemblea Generale dell’Onu il presidente Barack Obama ha detto: “L’obiettivo è chiaro: due stati che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza, uno stato ebraico d’Israele con reale sicurezza per tutti gli israeliani”.
Eppure, quando Netanyahu – come il suo predecessore – ha chiesto ai palestinesi di riconoscere il carattere ebraico di Israele, non come un prerequisito per i colloqui ma come un gesto per creare fiducia, la loro reazione istantanea è stata un veemente rifiuto. Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha dichiarato: “Noi non firmeremo mai un accordo che riconosca uno stato ebraico”. Il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha rincarato: “La cosa è completamente respinta”. E quando un esponente palestinese ha lasciato intendere che forse era fattibile, è stato immediatamente rimesso in riga. Ha rimarcato Nabil Sha’ath, consigliere di Abu Mazen: “Non abbiamo alcuna intenzione di farlo, scordatevelo”.
I palestinesi non sembrano disposti nemmeno a riconoscere Israele come lo stato di un altro “popolo”. Il primo ministro palestinese Salam Fayyad se ne è andato sbattendo la porta da un incontro col vice ministro degli esteri israeliano Danny Ayalon dopo che questi aveva suggerito che la riepilogo del loro colloqui includesse il termine “due stati per due popoli”, anziché semplicemente “due stati”.
Finché i palestinesi continueranno a negare l’antica connessione fra ebrei e Terra d’Israele, finché continueranno a rifiutare il diritto del popolo ebraico a uno stato qualunque accordo di pace resterà scritto sulla sabbia sulle sponde dell’oceano: la più piccola marea lo spazzerà via.
Gli israeliani vogliono essere sicuri che, se loro fanno i sacrifici necessari per la pace e verrà creato uno stato palestinese, il conflitto sarà considerato definitivamente risolto; che la pace significherà la fine di ogni tentativo di distruggere lo stato ebraico.
Finché i palestinesi, e altri con loro, si rifiuteranno di accettare che Israele è effettivamente uno stato ebraico, che gli ebrei sono un popolo che ha diritto al proprio stato indipendente, non vi sarà alcuna certezza che quei sinistri progetti abbiano davvero fine.
Il rifiuto della proposta di Netanyahu – e delle richieste americane – per questo riconoscimento giunge in contemporanea con la visita del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad al confine israelo-libanese, volta a rinnovare il suo appello per la distruzione di Israele. Il libanese Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, ha proclamato a una folla osannante che “il presidente Ahmadinejad ha ragione quando dice che Israele è illegittimo e che dovrebbe cessare di esistere”. Secondo un recente sondaggio condotto negli Stati Uniti, tre quarti degli ebrei americani sono convinti che l’obiettivo degli arabi “non è la restituzione dei territori occupati, quanto piuttosto la distruzione di Israele”.
Piaccia o non piaccia ai palestinesi, Israele è già lo stato nazionale del popolo ebraico. Gli israeliani hanno già riconosciuto il diritto dei palestinesi ad avere un loro stato arabo-palestinese. Finché i palestinesi non riconosceranno il diritto del popolo ebraico ad avere il proprio stato, una vera pace non potrà mai arrivare.

(Da: Jerusalem Post, 25.10.10)