sabato 24 dicembre 2011

La Siria come l’Iraq: gli attentati a Damasco ampliano la crisi del regime di Bashar Assad

L'analisi di Gianandrea Gaiani

Gli attentati contro le sedi dei servizi segreti militari e di polizia nel quartiere centrale Kufr Susa a Damasco rappresentano un’ulteriore escalation della crisi in atto in Siria che sta progressivamente internazionalizzandosi.

Sul piano tecnico, aldilà del bilancio delle vittime e dei feriti, gli attentati sono stati eseguiti con modalità finora inedite nella rivolta siriana ormai degenerata in guerra civile. Due kamikaze a bordo di auto imbottite di esplosivo si sono fatti esplodere contro i comandi dell’intelligence uccidendo “civili e soldati” ha riferito la tv di Stato, affermando che dietro gli attacchi vi è la mano di Al Qaeda. Nel mirino due basi dei servizi di sicurezza. Un attivista dell’Osservatorio siriano per i diritti umani ha riferito anche di una sparatoria subito dopo le detonazioni, aspetto che ricorda le azioni dei miliziani di Al Qaeda in Iraq o dei commando talebani afghani composti da attentatori suicidi e miliziani.

“Le indagini iniziali indicano che si tratta di Al Qaeda”, ha riferito la tv del regime siriano mentre Riad Asaad, capo del Libero Esercito Siriano dei rivoltosi, ha condannato dal suo comando in Turchia ha prima affermato che i militari ribelli non sono in alcun modo coinvolti negli attacchi per poi aggiungere ad Al Jazeera che “c’è il regime dietro gli attentati compiuti questa mattina a Damasco” sostenendo che “fanno gli interessi del regime” il quale può dimostrare agli osservatori della Lega araba giunti ieri in Siria che il governo deve affrontare un’ondata terroristica.

Nessuna ipotesi può essere esclusa ma non è improbabile che Al Qaeda voglia fare la sua parte in un conflitto che vede i movimenti sunniti siriani combattere contro il regime sostenuto dagli sciiti alawiti e legato all’Iran. Del resto le cellule dell’organizzazione terroristica sono massicciamente presenti (e attive, come si è visto anche nei giorni scorsi) in Iraq e in Libano, cioè ai confini con la Siria e proprio il governo di Beirut avrebbe “messo in guardia Damasco due giorni fa sull’infiltrazione in Siria di uomini di Al Qaeda” come ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri siriano.

Non a caso tutti i Paesi arabi sunniti (ad esclusione dell’Iraq che vede al governo i partiti sciiti) stanno valutando di chiudere le proprie ambasciate a Damasco completando l’isolamento della Siria, forse anche in vista di un intervento internazionale che potrebbe essere richiesto dalla Lega Araba e che pare in preparazione in Turchia. Ryadh ha già deciso di chiudere la propria ambasciata ufficialmente a causa delle violenze e della repressione attuata dal regime di Bashar Assad. Vale la pena ricordare che nel marzo scorso i sauditi mostrarono un atteggiamento opposto inviando proprie truppe in appoggio all’emiro sunnita del Bahrein, Hamad bin Isa al-Khalifa, impegnato a reprimere una rivolta popolare della maggioranza sciita.



Gianandrea Gaiani ha seguito tutte le missioni italiane degli ultimi 20 anni. Dirige Analisi Difesa, collabora con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il Foglio e Libero ed è opinionista del Giornale Radio RAI e Radio Capital. Ha scritto Iraq Afghanistan: guerre di pace italiane

23 Dicembre 2011

http://blog.panorama.it/mondo/2011/12/23/la-siria-come-liraq-gli-attentati-a-damasco-ampliano-la-crisi-del-regime-di-bashar-assad-lanalisi/

mercoledì 23 novembre 2011

Quel generale prestato alla politica che la piazza odia più di Mubarak

Il personaggio Il feldmaresciallo Mohammed Hussein Tantawi, capo della Giunta militare di transizione, ex fedelissimo del raìs

L'uomo più potente e oggi forse più odiato d' Egitto, il generale Mohammed Hussein Tantawi, non accetta interviste, non parla in tv, in realtà non ama nemmeno - dicono fonti diplomatiche egiziane - fare politica. Quando incontrò Hillary Clinton, le confessò di «non vedere l' ora di tornare in caserma. Un esercito lo so comandare, un Paese no». È passato qualche mese da quelle parole: allora Tantawi era già a capo della Giunta militare di transizione, l' esercito era ricordato per il sostegno alla Rivoluzione. Oggi la strana luna di miele tra la «piazza» e i soldati è finita. Nel celebre slogan di Tahrir, «il popolo vuole la caduta del regime», l' ultima parola è stata sostituita con «generale». Tantawi resta schivo, c' è chi dice misterioso, ma quello che ha fatto (di male) e non ha fatto (di bene) è noto a tutti. E intanto è cresciuto il sospetto che si sia affezionato al potere e punti perfino a diventare raìs. Quando due mesi fa fu visto in abito scuro girare per il centro del Cairo a parlare con la gente e stringere mani, l' allarme scattò subito sui social network. Una prova di popolarità in vista della candidatura, affermarono molti, rispondendogli che «l' Egitto non voleva un abito civile, ma un governo civile». Poco dopo iniziarono a spuntare manifesti per la città inneggianti a «Tantawi raìs»: siamo fan autofinanziati, hanno dichiarato i capi della campagna, per altro prematura visto che le presidenziali non sono nemmeno annunciate. Ma al di là di questi «incidenti», pare improbabile che Tantawi punti a restare al potere. Anche se la voglia di tornare in caserma forse si è affievolita. Settantacinque anni, origine nubiana, ovvero del profondo Sud, ufficiale dal 1956 ed eroe nelle tre guerre contro Israele nonché in quella all' Iraq del 1991, da quella data Tantawi fu ministro della Difesa di Hosni Mubarak e uno dei suoi più fidi (e affini) sostenitori. «I suoi sottoposti lo chiamano il cagnolino del raìs, con cui condivide l' amore per lo status quo e la stabilità, l' età avanzata e la resistenza ai cambiamenti», lo descriveva la diplomazia Usa in Wikileaks tre anni fa. Certo non è il ritratto di un rivoluzionario, anche se all' inizio la «piazza» gli diede fiducia. Considerandolo non solo meglio di Mubarak (un altro generale ed eroe di guerra che all' inizio fu poco convinto del ruolo politico), ma anche di Omar Suleiman, l' ex capo dell' intelligence che per brevissimo tempo fu vicepresidente, ma il Paese non accettò come nuovo leader anche per le accuse di tortura. Ora, però, la transizione sta durando troppo, le opacità e gli errori del «reggente» aumentano. Tra le prime, lamenta l' opposizione, la testimonianza al processo Mubarak in cui non è chiaro cosa abbia detto Tantawi del suo ex raìs sull' ordine di sparare alla folla nella rivoluzione (pare sia stato sul vago, «non sapevo niente»). Tra i tanti errori, soprattutto la comunità finanziaria gli imputa di aver rinunciato al prestito da 3 miliardi del Fmi, aumentando il disastro dell' economia. «Non voleva l' aiuto di nessuno, ha agito per orgoglio», dice un imprenditore egiziano. Un' altra caratteristica del Generale, oltre alla fedeltà, alla ritrosia e all' amore per l' ordine.

Cecilia Zecchinelli
(22 novembre 2011) - Corriere della Sera

sabato 29 ottobre 2011

Ma la storia di Ariel è solo da rivalutare






di Fiamma Nirenstein

Il migliore augurio che si può fare alla nuova biografia di Ariel Sharon, ad opera di uno dei suoi figli, Gilad, è che essa ristabilisca almeno una parte della verità su Sharon. Perch´ questo significherebbe ristabilire la verità su Israele, la cui intera storia di difesa e di utopia Arik incarnava perfettamente, significherebbe togliergli quella cappa di delegittimazione che si è accanita in maniera parossistica sulla sua figura come sul suo Paese.
È impossibile dimenticare la famosa vignetta che nel 2003 vinse la gara di Londra mostrando, à la Goya, uno Sharon che nudo divora, inzaccherandosi di sangue, teste di bambini palestinesi. Non fu mai perdonato a Sharon il semplice principio che la difesa di Israele fosse un indiscutibile dovere. Non gli fu mai perdonato anche di non essere di sinistra quanto è richiesto dal gusto corrente. Il libro di Gilad può aprire qualche nuova conoscenza: per esempio non sembra peregrina l'idea che Sharon abbia favorito una fronda di Abu Mazen contro Arafat, o almeno abbia sentito con favore dell'incontro di Abu Mazen con Shimon Peres. N´ sembra fuori luogo l'idea che abbia cercato di evitare la commissione su Sabra e Chatila, presago del fatto che la strage sarebbe diventata il parametro di un giudizio sballato contro di lui. Sharon non aveva istinti aggressivi contro i palestinesi, e si impegnò per «due stati per due popoli» con la road map del 2003. Era un grande amico di Rabin, come Rabin era un eroe civile ma anche militare, come lui non avrebbe mai accettato di dividere Gerusalemme, ma disse alla cronista in un'intervista nel novembre 2003: «Io solo posso fare la pace, e la farò». La sua ispirazione nasce da bambino in un villaggio comunitario Kfar Malal, dove giunsero da Brest Litovsk i suoi genitori negli anni '20, nella fame e nel lavoro disperato, ma nella più felice fedeltà all'ideale. Dalla guerra del '48 in avanti, quando ha fondato l'unità 101, il primo corpo speciale, lungo tutte le guerre che combatteva in prima linea, quando ha guidato nel Sinai il battaglione che nel '73 ha salvato Israele creando, ferito alla testa, un passaggio sulla riva occidentale del Canale di Suez, Sharon è stato un comandante umanista e amato dai suoi uomini. Ha reinventato la lotta contro il terrorismo quando Israele boccheggiava negli anni dell'Intifada. Ha fatto lo sgombero di Gaza e fondato Kadima. La cronista ha testimoniato in quegli anni lo strazio di un uomo attaccato dalla parte del Paese che gli era più cara, i disperati coloni di Gaza strappati dalle loro case, ma che non ha esitato a agire per quello che credeva il bene di Israele. Nel libro si parla della sua personale antipatia verso Netanyahu. È del tutto realistico che Arik abbia detto parole dure a Bibi che si opponeva al suo disegno per Gaza. Ma forse lo scontro non ha più senso oggi. Dicono di Arik anche che se sapesse che da Gaza da lui sgomberata sono piovuti solo missili e terrore, agirebbe subito per fermare lo scempio.

http://www.ilgiornale.it/esteri/ma_storia_ariel_e_solo_rivalutare/28-10-2011/articolo-id=553924-page=0-comments=1

martedì 18 ottobre 2011

Discorso del Primo Ministro Binyamin Netanyahu dopo la liberazione di Gilad Shalit

Cittadini di Israele, in questo giorno siamo tutti uniti nella gioia e nel dolore.


Due anni e mezzo fa ho assunto di nuovo l’incarico di Primo Ministro. Uno dei compiti principali e più difficili da svolgere che ho trovato sulla mia scrivania, e che ho riposto anche nel mio cuore, è stato quello di portare il nostro soldato rapito, Gilad Shalit, sano e salvo a casa. Oggi la missione è compiuta.


Ciò ha implicato una decisione difficile, molto difficile. Davanti a me si poneva la necessità di far tornare a casa chi viene inviato dallo Stato di Israele verso il campo di battaglia. Da soldato e comandante delle Forze di Difesa israeliane sono stato spesso inviato in missioni pericolose. Ma ho sempre saputo che, qualora io o i miei compagni fossimo stati fatti prigionieri, il governo israeliano avrebbe fatto del suo meglio per riportarci a casa; e questo è ciò che ho fatto adesso in qualità di Primo Ministro di Israele. Da leader che invia ogni giorno dei soldati a proteggere i cittadini di Israele, io credo che la “responsabilità reciproca” non sia solo uno slogan, ma che è una delle pietre angolari della nostra esistenza qui.


Ma mi si poneva di fronte anche un’altra necessità, quella di ridurre al minimo il pericolo per la sicurezza di Israele. E per questo sono stati posti due requisiti chiari. Il primo: la leadership di Hamas, che comprende dei pluriomicidi, rimarrà in carcere. Il secondo: la stragrande maggioranza dei detenuti rilasciati sarà espulsa o rimarrà al di fuori dei territori di Giudea e Samaria, in modo da impedire loro di essere in grado colpire i nostri cittadini.


Per anni Hamas ha fermamente contestato questi requisiti. Ma pochi mesi fa abbiamo ricevuto indicazioni chiare sulla disponibilità a ritirare le sue obiezioni. Per giorni e notti al Cairo è stato condotto un pervicace negoziato con la mediazione del governo egiziano. Siamo rimasti saldi sui nostri principi e, dal momento in cui è stata accolta la maggior parte dei nostri requisiti, ho dovuto prendere una decisione.


So bene che il dolore delle famiglie delle vittime del terrorismo è insopportabile. È molto difficile vedere i criminali che hanno ucciso le persone più care a queste famiglie, mentre vengono rilasciati prima di aver scontato a pieno la loro pena. Ma sapevo anche che con le circostanze politiche attuali questo era il miglior accordo che potessimo conseguire, e non vi era alcuna garanzia che le condizioni che hanno consentito il suo conseguimento vi sarebbero state anche in futuro. Allora probabilmente per Gilad non ci sarebbe stato più nulla da fare e, purtroppo, questa è un’eventualità che si è già verificata in passato.


Ho pensato a Gilad e ai cinque anni in cui ha languito in isolamento nelle celle di Hamas. Non volevo che il suo destino fosse come quello di Ron Arad. Ron è stato catturato esattamente 25 anni fa, e non è più ritornato. Mi sono ricordato della nobile Batya Arad, e della sua preoccupazione per il figlio, fino al momento in cui è mancata. Sapevo di portare una gravosa responsabilità. Conoscevo tutte le implicazioni della decisione. In momenti come questi un leader si ritrova da solo e deve prendere una decisione. Ho riflettuto e ho deciso. I Ministri del mio governo hanno sostenuto la decisione a larga maggioranza.


E oggi, in questo momento, Gilad torna a casa, dalla sua famiglia, dal suo popolo e al suo paese. Questo è il momento più emozionante. Pochi istanti fa l’ho abbracciato dopo la sua discesa dall'elicottero e l’ho accompagnato dai suoi genitori Aviva e Noam, ai quali ho detto: ho riportato vostro figlio a casa. Ma questa è anche una giornata difficile. Il prezzo pagato, seppur ridotto, è ancora pesante.


Voglio precisare: noi continueremo a combattere il terrorismo. E ogni terrorista rilasciato che dovesse tornare a compiere atti terroristici, è responsabile della propria vita. Lo Stato di Israele è differente dai suoi nemici. Qui non celebriamo il rilascio di assassini, non portando sulle spalle coloro che hanno reciso delle vite umane. Al contrario, noi crediamo nella sacralità della vita, noi santifichiamo la vita. Questa è l’antichissima tradizione del nostro popolo, il popolo ebraico.


Cittadini di Israele, negli ultimi giorni tutti noi abbiamo visto la coesione tra la gente, così come non si vedeva da tempo. E questa unità è fonte di forza per Israele, nel presente e per il futuro. Oggi tutti noi esultiamo per il ritorno di Gilad a casa, nel nostro libero paese, lo Stato di Israele. Domani celebriamo la vigilia di Simchàt Toràh. Sabato, nelle sinagoghe, assieme al brano settimanale della Genesi, leggeremo anche le parole del profeta Isaia (42,7): “Perché tu … faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”. In questo giorno io posso dire, a nome di tutti noi cittadini di Israele, nello spirito degli eterni valori del popolo di Israele: “i figli sono tornati nei loro confini” (Geremia 31,17). ‘Am Israel chài! (Il popolo d’Israele vive!)

http://rome.mfa.gov.il/mfm/web/main/document.asp?DocumentID=201221&MissionID=41

mercoledì 12 ottobre 2011

Il Governo approva l'accordo per la liberazione di Gilad Shalit





12 ottobre 2011

Il Governo israeliano ha approvato l’accordo per la liberazione di Gilad Shalit a larga maggioranza (26 ministri a favore e 3 contrari).


Il Primo Ministro Netanyahu: “Riporto Gilad Shalit a casa, dai suoi genitori Noam e Aviva, da suo fratello Yoek, da sua sorella Hadas, da suo nonno Zvi, e al popolo d’Israele”.


Nel comunicato precedente alla seduta straordinaria di governo, Netanyahu aveva dichiarato: “Questa mattina ho invitato Noam Shalit nella mia residenza, e ho parlato al telefono con la madre Aviva e col nonno Zvi. Ho detto loro che sto mantenendo la promessa e sto riportando a casa il loro figlio e nipote. Sono felice di aver potuto adempiere con successo il precetto ebraico del “riscatto dei prigionieri” e, se tutto va come pianificato, nei prossimi giorni Gilad sarà di nuovo in Israele con la sua famiglia e con il suo popolo.


Israele è un popolo unico. Siamo tutti mutualmente responsabili l’uno dell’altro, e, come dissero i nostri saggi: “Colui che salva una vita, è come se salvasse il mondo intero”. Stasera io presento al Governo una prosta per salvare Gilad Shalit, e riportarlo finalmente a casa, in Israele, dopo cinque anni”.


Durante la seduta sono stati ascoltati i pareri dei vertici dei servizi di sicurezza, il direttore dello Shin Bet Yoram Cohen, il Capo di Stato Maggiore Benny Gantz, il direttore del Mossad Tamir Pardo, e l’inviato speciale del Primo Ministro per i negoziati David Meidan. I vertici dei servizi di sicurezza hanno presentato l’accordo e i suoi vari aspetti e hanno espresso il loro sostegno in merito.


Il Primo Ministro Netanyahu ha aggiunto: “Questa è una decisione difficile da prendere, ma una leadership è messa alla prova proprio in momenti come questi, per la sua capacità di prendere decisioni difficili”.


http://roma.mfa.gov.il/mfm/web/main/document.asp?DocumentID=201135&MissionID=41

martedì 4 ottobre 2011

Abu Mazen: "Nessuno potrà fermare la nascita della Palestina

«Se Obama mette il veto va contro i principi stessi dell’America»

RACHIDA DERGHAM

Presidente, come si è sentito a parlare davanti all’Assemblea Generale? Che cos’ha provato in un momento simile?


«Sentivo di essere testimone di un evento storico, di essere lì a presentare una richiesta giusta e sacrosanta: il diritto di ottenere uno Stato che sia a pieno titolo membro delle Nazioni Unite, come tutti gli altri. Mi è sembrato che se si fosse votato in quel momento avremmo avuto un appoggio unanime. Ma purtroppo ci sono persone che vogliono impedire al popolo palestinese di raggiungere questo traguardo e l’unica cosa da fare è essere pazienti».

Teme le reazioni? Pensa che quest’avventura possa avere conseguenze indesiderate?
«Non è un’avventura. Al contrario, è uno sforzo ben calcolato. Per oltre un anno abbiamo discusso la questione e l’abbiamo esaminata da ogni angolo. Ne abbiamo parlato con le altre nazioni arabe e con la Lega Araba, che sono sempre state al corrente di ogni nostro passo. Siamo stati chiari con tutti, senza trucchi. Nei nostri incontri e nelle nostre dichiarazioni, è sempre stata palese la nostra posizione».

L’eventuale veto degli Stati Uniti vi pone davanti a un bivio. State valutando delle alternative?
«Torneremo in patria e studieremo tutte le possibilità. Ogni proposta che riceveremo sarà presa attentamente in considerazione, ferme restando le condizioni che abbiamo posto. La realtà è che vogliamo tornare a negoziare. Ma senza il riconoscimento delle frontiere del 1967 e senza che gli insediamenti si fermino, non ci siederemo ad alcun tavolo. Attendiamo che la decisione del Consiglio di Sicurezza venga presa e tutti i passi formali. Ma rifiutiamo ogni gioco politico, ogni tentativo di fare ostruzionismo o temporeggiare».

Se la decisione del Consiglio di Sicurezza sarà rinviata, c’è la possibilità che per la Palestina vi sia un posto nell’Onu come «Stato osservatore»?
«Non è una soluzione che stiamo considerando in questo momento. Ripeto: rifiutiamo ogni tipo di rinvio o ostruzionismo.

Se il veto statunitense fosse confermato, la Palestina non sarà riconosciuta come Nazione e non potrà appellarsi alla Corte Penale Internazionale.
«Gli Stati Uniti, la roccaforte della democrazia, farebbero un torto al popolo palestinese negandogli la libertà e il diritto all'autodeterminazione. E dovrebbero rispondere di questa scelta».

Ma c’è chi dice: perché perdere l’appoggio di un presidente americano favorevole alla vostra causa?
«È stato il presidente degli Stati Uniti a parlare dello stop agli insediamenti, di confini del ‘67. Ora dovrebbe dare seguito alle sue parole».

Il presidente francese Sarkozy può essere l’alternativa giusta, se avanzerà delle proposte più dettagliate?
«Apprezziamo il suo impegno, ma daremo una risposta solo dopo aver consultato la leadership palestinese. Solo in quella sede verrà presa una decisione».

L'esperienza del Quartetto può dirsi conclusa? È deluso dalle sue posizioni?
«Purtroppo nell’ultimo anno il Quartetto non è riuscito a produrre alcun documento, come invece era avvenuto in passato. Quest’anno il Quartetto ha fallito, almeno fino ad oggi. È stato il Quartetto a rifiutare le proposte americane, non noi. La Russia, l’Europa e l’Onu hanno rifiutato le istanze americane e questo significa che erano inaccettabili per chiunque. Proposte che parlano di uno stato ebraico e del blocco degli insediamenti come se fossero un fatto compiuto e lasciano la gestione della sicurezza in mano israeliana. Di fatto è stato l’inviato del Quartetto, Tony Blair, a portare sul tavolo le idee che lo stesso Quartetto ha rigettato».

Sarkozy ha proposto di fissare un calendario per i negoziati.
«I negoziati sono la vera priorità, vengono prima della tempistica. Quello che conta è la sostanza. Se la sostanza è adeguata, allora siamo disposti a fissare una roadmap e una scadenza».

Hamas è stata critica con il suo discorso.
«Fin dall’inizio, Hamas ha detto che si sarebbe trattato di una mossa unilaterale. È vero, forse non li abbiamo consultati. Dicono “se tu non ci consulti, siamo contro di te”, ma è assurdo. Capisco il succo delle loro posizioni, ma ne hanno fatto una questione di orgoglio. Rifiutano ogni compromesso, anche con pretesti: sostengono che il discorso conteneva contraddizioni, quando invece tutto il mondo ha capito quello che abbiamo detto. È deprecabile».

Lei ha proposto qualcosa di simile a una nuova intifada.
«Non ho parlato di intifada, quella appartiene al passato. Oggi c’è invece una pacifica resistenza popolare a Bil’in, a Ni’lin e in altre città della Palestina vicine al Muro. È una resistenza condotta dai palestinesi, ma anche da israeliani e volontari internazionali. Queste proteste non violano alcuna legge internazionale, le appoggiamo perché si oppongono all’occupazione e solo finché saranno pacifiche. Ora, abbiamo imparato dai nostri fratelli arabi e dalla primavera araba. Le loro proteste pacifiche si sono dimostrate il metodo più efficace per ottenere i propri diritti».

Teme che Benjamin Netanyahu possa minacciare nuove misure?

«Dal punto di vista militare, anche senza minacce, Netanyahu può fare qualunque cosa: non siamo in grado di confrontarci con Israele su quel piano e non vogliamo farlo. Ma se lo vorrà, la nostra porta è aperta».

I primi a congratularsi con lei per il suo discorso sono stati il primo ministro turco Erdogan e l’Emiro del Qatar. Qual è la natura delle vostre relazioni, considerando la rivalità tra Iran e Turchia? E qual è il vostro rapporto con Iran e Siria?
«Qui a New York abbiamo incontrato la delegazione iraniana e quella siriana. Il ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad è venuto a congratularsi con me. Non siamo in alcun modo in cattivi rapporti. Per quanto riguarda Erdogan, la nostra relazione è eccellente, così come quella con l’Emiro del Qatar. Non abbiamo problemi con nessuno».

C’è qualcosa che teme?
«Di chi dovrei aver paura? Se Netanyahu vuole attaccarci, lo faccia. Se vuole annullare gli accordi, lo faccia. È libero di fare quello che preferisce perché è Israele la nazione occupante. Netanyahu occupa la nostra terra e può fare ciò che vuole. Ma non ci sottometteremo alla sua volontà. E ci opporremo con mezzi pacifici».
30.09.2011
http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/422696/

I palestinesi all' Onu sbagliano da uomo di pace vi spiego perché

Levy Bernard Henri

Da oltre quarant’ anni sono favorevole all’ avvento di uno Stato palestinese funzionante e alla soluzione «due popoli, due Stati». Per tutta la vita - fosse solo patrocinando il piano israelo-palestinese di Ginevra e accogliendo a Parigi, nel 2003, Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo, i suoi principali autori - non ho smesso di dire e ripetere che è l’ unica soluzione conforme alla morale non meno che alla causa della pace. Eppure, oggi sono ostile alla strana domanda di riconoscimento unilaterale che dovrà essere discussa nei prossimi giorni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a New York, e sento il dovere di spiegare perché. La richiesta palestinese si fonda, innanzitutto, su una premessa falsa: la presunta «intransigenza» israeliana che non lascerebbe alla parte avversa altre possibilità se non di ricorrere a tale atto di forza. Non parlo dell’ opinione pubblica israeliana: un sondaggio dell’ Istituto Truman per la pace, all’ Università ebraica di Gerusalemme, ha appena ricordato che la maggioranza (il 70%) dà per scontata l’ idea di una spartizione del territorio. Parlo del governo israeliano stesso, e del cammino percorso dai tempi in cui il suo capo credeva ancora alle pericolose chimere del Grande Israele. Beninteso, oggi resta aperta la questione degli «insediamenti» in Cisgiordania. Ma il disaccordo, in questa vicenda, oppone coloro che, dietro a Mahmoud Abbas, esigono che essi siano congelati prima di tornare al tavolo dei negoziati e coloro che, con Netanyahu, rifiutano che si ponga come condizione ciò che dovrà essere uno degli oggetti di negoziato: esso non concerne né la questione stessa, né la necessità di giungere a un accordo. Ciascuno, io per primo, ha la propria opinione sull’ argomento. Ma presentare questa controversia come un rifiuto di negoziare è una contro-verità. La domanda palestinese si fonda, inoltre, su un’ idea preconcetta che è quella di un Mahmoud Abbas miracolosamente e integralmente convertito alla causa della pace. Lungi da me l’ idea di negare la strada che anch’ egli ha percorso dai tempi in cui esprimeva una «tesi», dai forti toni negazionisti, sulla «collusione fra sionismo e nazismo». Però ho letto il discorso che ha tenuto all’ Onu, a New York. E se pur vi trovo accenti di vera sincerità, se mi commuovo, come tutti, all’ evocazione del troppo lungo calvario palestinese, se intuisco perfino, fra le righe, come l’ uomo che l’ ha pronunciato potrebbe in effetti divenire, appena lo volesse e venisse incoraggiato, un Sadat palestinese, un Gorbaciov, non posso impedirmi di udire anche segnali più inquietanti. L’ omaggio insistente ad Arafat, per esempio. L’ evocazione, nella stessa sede Onu e nella stessa occasione, del «ramo d’ ulivo» brandito da chi, una volta almeno, a Camp David, nel 2000, rifiutò la pace concreta, a portata di mano, che gli era offerta. Poi, l’ assordante silenzio sull’ accordo che lui, Abbas, ha concluso cinque mesi fa con un Hamas la cui sola Carta basterebbe, ahimè, a chiudergli le porte dell’ Onu, che in linea di principio accetta solo «Stati pacifici» e contrari al terrorismo. È con questo uomo, certo, che Israele deve fare la pace. Ma non qui. Non così. Non con un colpo di teatro, con i silenzi, con le mezze verità. E poi la domanda palestinese suppone - peggio, esige - che sia spezzato, a colpi di magiche firme, il nodo più inestricabile del pianeta: il nodo di interessi antagonistici, di aporie diplomatiche, di contraddizioni geopolitiche. Parliamo davvero seriamente? Sono quarant’ anni che si discute, spesso in malafede ma non sempre, sulla questione delle frontiere giuste fra i due popoli, e sulla loro capitale. Quarant’ anni che si dibatte, fra gente che si gioca la propria vita e il proprio destino, sul modo meno peggiore di garantire la sicurezza di Israele in una regione che non gli ha mai riconosciuto, fino a oggi, la piena legittimità. Sono sessantatré anni che il mondo si chiede come considerare il torto fatto ai profughi palestinesi del 1948 senza, tuttavia, compromettere il carattere ebraico dello Stato di Israele. E si avrebbe la pretesa di sistemare tutto questo, arbitrare questi quasi insolubili dilemmi, imballare un pacco di complessità dove ogni cosa sta nei dettagli, con un gesto spettacolare, sbrigativo, basandosi su un’ infatuazione retorica e lirica? Ma andiamo! Che leggerezza! E che pessimo teatro! Che occorra aiutare i protagonisti di tale interminabile dramma ad innalzarsi al di sopra di se stessi e a portare a termine il processo che negli ultimi anni hanno solo abbozzato, è sicuro. Che la comunità internazionale debba indurli a intendersi o, come dice Amos Oz, ma è la stessa cosa, a divorziare, è evidente; del resto, è questo il senso della recente proposta francese e degli obblighi di calendario che essa impone. Ma nulla potrà evitare il doloroso e costoso faccia a faccia senza cui non c’ è mai, da nessuna parte, un vero riconoscimento reciproco; nulla e nessuno potrà far evitare ai due protagonisti quella mossa apparentemente semplice ma che sarà per entrambi il più lungo dei viaggi: il primo passo verso l’ altro, la mano tesa, il negoziato diretto. (traduzione di Daniela Maggioni) ] a oltre quarant' anni sono favorevole all' avvento di uno Stato palestinese funzionante e alla soluzione «due popoli, due Stati». Per tutta la vita - fosse solo patrocinando il piano israelo-palestinese di Ginevra e accogliendo a Parigi, nel 2003, Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo, i suoi principali autori - non ho smesso di dire e ripetere che è l' unica soluzione conforme alla morale non meno che alla causa della pace. Eppure, oggi sono ostile alla strana domanda di riconoscimento unilaterale che dovrà essere discussa nei prossimi giorni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a New York, e sento il dovere di spiegare perché. La richiesta palestinese si fonda, innanzitutto, su una premessa falsa: la presunta «intransigenza» israeliana che non lascerebbe alla parte avversa altre possibilità se non di ricorrere a tale atto di forza. Non parlo dell' opinione pubblica israeliana: un sondaggio dell' Istituto Truman per la pace, all' Università ebraica di Gerusalemme, ha appena ricordato che la maggioranza (il 70%) dà per scontata l' idea di una spartizione del territorio. Parlo del governo israeliano stesso, e del cammino percorso dai tempi in cui il suo capo credeva ancora alle pericolose chimere del Grande Israele. Beninteso, oggi resta aperta la questione degli «insediamenti» in Cisgiordania. Ma il disaccordo, in questa vicenda, oppone coloro che, dietro a Mahmoud Abbas, esigono che essi siano congelati prima di tornare al tavolo dei negoziati e coloro che, con Netanyahu, rifiutano che si ponga come condizione ciò che dovrà essere uno degli oggetti di negoziato: esso non concerne né la questione stessa, né la necessità di giungere a un accordo. Ciascuno, io per primo, ha la propria opinione sull' argomento. Ma presentare questa controversia come un rifiuto di negoziare è una contro-verità. La domanda palestinese si fonda, inoltre, su un' idea preconcetta che è quella di un Mahmoud Abbas miracolosamente e integralmente convertito alla causa della pace. Lungi da me l' idea di negare la strada che anch' egli ha percorso dai tempi in cui esprimeva una «tesi», dai forti toni negazionisti, sulla «collusione fra sionismo e nazismo». Però ho letto il discorso che ha tenuto all' Onu, a New York. E se pur vi trovo accenti di vera sincerità, se mi commuovo, come tutti, all' evocazione del troppo lungo calvario palestinese, se intuisco perfino, fra le righe, come l' uomo che l' ha pronunciato potrebbe in effetti divenire, appena lo volesse e venisse incoraggiato, un Sadat palestinese, un Gorbaciov, non posso impedirmi di udire anche segnali più inquietanti. L' omaggio insistente ad Arafat, per esempio. L' evocazione, nella stessa sede Onu e nella stessa occasione, del «ramo d' ulivo» brandito da chi, una volta almeno, a Camp David, nel 2000, rifiutò la pace concreta, a portata di mano, che gli era offerta. Poi, l' assordante silenzio sull' accordo che lui, Abbas, ha concluso cinque mesi fa con un Hamas la cui sola Carta basterebbe, ahimè, a chiudergli le porte dell' Onu, che in linea di principio accetta solo «Stati pacifici» e contrari al terrorismo. È con questo uomo, certo, che Israele deve fare la pace. Ma non qui. Non così. Non con un colpo di teatro, con i silenzi, con le mezze verità. E poi la domanda palestinese suppone - peggio, esige - che sia spezzato, a colpi di magiche firme, il nodo più inestricabile del pianeta: il nodo di interessi antagonistici, di aporie diplomatiche, di contraddizioni geopolitiche. Parliamo davvero seriamente? Sono quarant' anni che si discute, spesso in malafede ma non sempre, sulla questione delle frontiere giuste fra i due popoli, e sulla loro capitale. Quarant' anni che si dibatte, fra gente che si gioca la propria vita e il proprio destino, sul modo meno peggiore di garantire la sicurezza di Israele in una regione che non gli ha mai riconosciuto, fino a oggi, la piena legittimità. Sono sessantatré anni che il mondo si chiede come considerare il torto fatto ai profughi palestinesi del 1948 senza, tuttavia, compromettere il carattere ebraico dello Stato di Israele. E si avrebbe la pretesa di sistemare tutto questo, arbitrare questi quasi insolubili dilemmi, imballare un pacco di complessità dove ogni cosa sta nei dettagli, con un gesto spettacolare, sbrigativo, basandosi su un' infatuazione retorica e lirica? Ma andiamo! Che leggerezza! E che pessimo teatro! Che occorra aiutare i protagonisti di tale interminabile dramma ad innalzarsi al di sopra di se stessi e a portare a termine il processo che negli ultimi anni hanno solo abbozzato, è sicuro. Che la comunità internazionale debba indurli a intendersi o, come dice Amos Oz, ma è la stessa cosa, a divorziare, è evidente; del resto, è questo il senso della recente proposta francese e degli obblighi di calendario che essa impone. Ma nulla potrà evitare il doloroso e costoso faccia a faccia senza cui non c' è mai, da nessuna parte, un vero riconoscimento reciproco; nulla e nessuno potrà far evitare ai due protagonisti quella mossa apparentemente semplice ma che sarà per entrambi il più lungo dei viaggi: il primo passo verso l' altro, la mano tesa, il negoziato diretto. (traduzione di Daniela Maggioni)

Pagina 60 (1 ottobre 2011) - Corriere della Sera

domenica 25 settembre 2011

Ecco l'intervento di Bibi Netanyahu alla Assemblea Generale dell'Onu

Riceviamo dalla Associazione Italia Israele di Vercelli, che ringraziamo, la trascrizione completa del discorso di Benyamin Netanyahu alla 66ma sessione dell' Assemblea Generale dell'ONU.

" Signore e signori, Israele ha steso la sua mano in pace dal momento in cui è stata istituita 63 anni fa. Per conto di Israele e il popolo ebraico, porgo la mano ancora oggi. La porgo al popolo di Egitto e Giordania, con rinnovata amicizia per i vicini con i quali abbiamo fatto pace. La porgo al popolo della Turchia, con rispetto e buona volontà. La porgo al popolo della Libia e Tunisia, con ammirazione per coloro che cercano di costruire un futuro democratico.
La porgo agli altri popoli del Nord Africa e della penisola arabica, con i quali vogliamo creare un nuovo inizio. La porgo al popolo di Siria, Libano e Iran, con rispetto per il coraggio di chi lotta contro una brutale repressione.

Ma soprattutto, porgo la mia mano al popolo palestinese, con cui cerchiamo una pace giusta e duratura.
Signore e signori, in Israele non si è mai attenuata la nostra speranza per la pace. I nostri scienziati, medici, innovatori, applicano il loro genio per migliorare il mondo di domani. I nostri artisti, i nostri scrittori, arricchiscono il patrimonio dell'umanità.
Ora, so che questo non è esattamente l'immagine di Israele che è spesso ritratta in questa sala.
Dopo tutto, fu qui che nel 1975 si affermò l'antico desiderio del mio popolo di ristabilire la nostra unità nazionale nella nostra patria biblica - fu allora che questo sentimento venne vergognosamente assimilato e rimarcato , come razzismo.
E fu qui nel 1980, proprio qui, che l'accordo di pace storico tra Israele e l'Egitto non è stato elogiato, ma è stato denunciato!
Ed è qui, anno dopo anno che Israele è stato ingiustamente e unilateralmente accusato. E' sovente individuato come deprecabile più spesso di tutte le nazioni del mondo messe insieme.
Ventuno delle 27 risoluzioni dell'Assemblea Generale condannano Israele – l’unica vera democrazia in Medio Oriente. Bene, questa è un aspetto infelice dell'istituzione delle Nazioni Unite. E' il teatro dell'assurdo.
Non solo presentare Israele come il cattivo, ma far risaltare spesso i veri cattivi nei ruoli principali:
Gheddafi (Libia) ha presieduto la Commissione ONU per i Diritti Umani,
l'Iraq di Saddam a capo del Comitato delle Nazioni Unite sul disarmo.
Si potrebbe dire: quello è il passato.
Bene, ecco cosa sta succedendo adesso - proprio adesso, oggi.
Libano controllato da Hezbollah ora presiede il Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Ciò significa, in effetti, che un'organizzazione terroristica presiede l'organo incaricato di garantire la sicurezza del mondo.
Non si sarebbe dovuti giungere a questo. Così qui alle Nazioni Unite, la maggioranza può decidere tutto. Essa (la maggioranza dell’Assemblea) può deliberare che il sole tramonta a ovest o sorge ad ovest.
Credo che ciò sia già stato pre-ordinato. Ma la stessa può anche decidere (ha deciso) che il Muro del Pianto a Gerusalemme, luogo più sacro dell'ebraismo, sia territorio palestinese occupato.
Eppure anche qui in Assemblea Generale, la verità a volte può affiorare.
Nel 1984, quando sono stato nominato ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite, ho visitato il grande rabbino di Lubavich. Lui mi ha detto (e signore e signori, non voglio che qualcuno di voi possa sentirsi offeso, perché per esperienza personale nel lavorare qui, so che ci sono molti uomini e donne di grande competenza, molte persone capaci e assennatamente al servizio dei loro popoli qui).
Ma ecco ciò che il rabbino mi disse. Egli mi disse, sarete in servizio in una casa dove alberga la menzogna. E poi mi ha detto, ricorda che anche nel luogo più oscuro, alla luce di una candela può essere visto in profondità.
Oggi spero che la luce della verità brillerà, anche se solo per pochi minuti, in una sala che per troppo tempo è stato un luogo di oscurità per il mio paese. Quindi, come primo ministro di Israele, non sono venuto qui per ottenere applausi. Sono venuto qui per dire la verità.
La verità è che Israele vuole la pace. La verità è che io voglio la pace. La verità è che in Medio Oriente, in ogni momento, ma soprattutto in questi giorni turbolenti, la pace deve essere mantenuta in sicurezza. La verità è che non possiamo raggiungere la pace attraverso le risoluzioni delle Nazioni Unite, ma solo attraverso negoziati diretti tra le parti.
La verità è che finora i palestinesi hanno rifiutato di negoziare.
La verità è che Israele vuole la pace con uno stato palestinese, ma i palestinesi vogliono uno stato senza pace. E la verità è che non si dovrebbe permettere che questo accada.
Signore e signori, quando sono arrivato qui 27 anni fa, il mondo era diviso tra Oriente e Occidente. Da allora, fine della Guerra Fredda, grandi civiltà sono passate da secoli di sonno, centinaia di milioni di persone sono state sottratte alla povertà, innumerevoli altri sono pronti a seguire, e la cosa notevole è che finora questo cambiamento storicamente monumentale è in gran parte avvenuto pacificamente.
Eppure, un tumore maligno si sta sviluppando tra Oriente e Occidente che minaccia la pace di tutti. Non mira a liberare, ma a rendere schiavi, non a costruire ma a distruggere.
Male che è l'Islam militante. Si avvolge nel mantello di una grande fede, eppure non risparmia omicidi di ebrei, cristiani e musulmani con uguale imparzialità. L'11 settembre ha ucciso migliaia di americani, e ha lasciato le torri gemelle in rovine fumanti. Ieri sera ho deposto una corona di fiori sul memoriale dell’ 11 settembre.
E 'stato commovente. Ma mentre stavo andando lì, una cosa ha preso voce nella mia mente: le parole oltraggiose del presidente iraniano su questo podio ieri. Ci ha suggerito che l’ 11 settembre è stato un complotto americano. Alcuni di voi hanno lasciato questa sala. Tutti voi dovreste averne consapevolezza. Dall’ 11 settembre, gli islamisti militanti hanno ucciso innumerevoli altri innocenti - a Londra e Madrid, a Baghdad e Mumbai, a Tel Aviv e Gerusalemme, in ogni parte di Israele.
Io credo che il più grande pericolo per il nostro mondo è che questo fanatismo possa armarsi con armi nucleari. E questo è esattamente ciò che l'Iran sta cercando di fare. Potete immaginare l'uomo che urlava qui ieri – lo si può immaginare con armi nucleari?
La comunità internazionale deve fermare l'Iran prima che sia troppo tardi.
Se l'Iran non si ferma, noi tutti avremo di fronte lo spettro del terrorismo nucleare, e la Primavera araba potrebbe presto diventare un inverno iraniano. Sarebbe una tragedia.
Milioni di arabi sono scesi in piazza per sostituire la tirannia con la libertà, e nessuno ne beneficerebbe più di Israele, se coloro che sono impegnati per la libertà e la pace prevalessero.
Questa è la mia fervida speranza. Ma mentre ricopro l’incarico di primo ministro di Israele, non posso rischiare il futuro dello Stato ebraico su un pio desiderio.
I leader devono vedere la realtà così com'è, non come dovrebbe essere. Dobbiamo fare del nostro meglio per dare forma al futuro, ma non possiamo allontanare mentalmente i pericoli del presente.
E il mondo attorno a Israele è sicuramente sempre più pericoloso.
L'Islam militante ha già preso potere su Libano e su Gaza. E 'determinato a stracciare i trattati di pace tra Israele ed Egitto e tra Israele e Giordania.
E' intento a instillare veleno in molte menti arabe contro gli ebrei e Israele, contro l'America e l'Occidente.
Si oppone, non alle azioni politiche di Israele, ma all'esistenza stessa di Israele.
Ora, alcuni sostengono che la diffusione dell'Islam militante, soprattutto in questi tempi turbolenti - se lo si vuole rallentare, sostengono, Israele deve affrettarsi a fare concessioni, a concedere compromessi territoriali.
E questa teoria sembra semplice. Fondamentalmente è questa: lasciare il territorio, e la pace sara’ ottenuta di conseguenza. I moderati saranno rafforzati, i radicali saranno tenuti a bada. E non preoccuparsi dei dettagli fastidiosi di come Israele possa effettivamente difendersi: una presenza militare internazionale farà il lavoro.
Queste persone mi dicono sempre: basta fare una offerta ampia, e tutto funzionerà. Sapete, c'è un solo problema con questa teoria. Lo abbiamo provato e non ha funzionato.
Nel 2000 Israele ha fatto una offerta ampia di pace in grado di soddisfare praticamente tutte le richieste palestinesi. Arafat ha respinto.
I palestinesi poi hanno lanciato un attacco terroristico che ha causato un migliaio di vittime israeliane. Il primo ministro Olmert ha poi fatto una proposta ancora più radicale, nel 2008. Il presidente Abbas non ha nemmeno voluto rispondere.
Ma Israele ha fatto di più che fare offerte. Abbiamo effettivamente lasciato il territorio. Ci siamo ritirati dal Libano nel 2000 e da ogni centimetro quadrato di Gaza nel 2005. Con ciò non si calma la tempesta islamica, la tempesta militante islamica che ci minaccia. Ha solo ottenuto di rendere la tempesta più vicina e più forte. Hezbollah e Hamas ha lanciato migliaia di razzi contro le nostre città dai molti territori lasciati liberi.
Vedete, quando Israele ha lasciato il Libano e la striscia di Gaza, i moderati non hanno avuto il sopravvento sui radicali, i moderati sono stati divorati dai radicali. E mi dispiace dire che le truppe internazionali come UNIFIL in Libano e UBAM a Gaza non hanno bloccato le intenzioni dei radicali di attaccare Israele.
Abbiamo lasciato Gaza nella speranza per la pace. Non abbiamo congelato gli insediamenti a Gaza, li abbiamo sradicati.
Abbiamo fatto esattamente ciò che la teoria dice: andarsene, tornare ai confini del 1967, smantellare gli insediamenti.
E non credo che la gente ricordi quanto sia costato raggiungere questo obiettivo. Abbiamo sradicato migliaia di persone dalle loro case. Abbiamo portato via i bambini dalle loro scuole e asili. Noi abbiamo demolito sinagoghe. abbiamo anche spostato i loro cari dalle loro tombe.
E poi, dopo aver fatto tutto questo, abbiamo dato le chiavi di Gaza al presidente Abbas. Ora, la teoria dice che dovrebbe funzionare tutto e il Presidente Abbas con l'Autorità palestinese ora potrebbero costruire uno stato di pace a Gaza. Si può ricordare che il mondo intero ha applaudito. Hanno applaudito il nostro ritiro come l’atto di un grande statista. E 'stato un atto coraggioso di pace.
Ma signore e signori, non abbiamo pace. Abbiamo avuto la guerra. Abbiamo ottenuto che l'Iran, attraverso il suo procuratore Hamas abbia prontamente cacciato l'Autorità palestinese.
L'Autorità Palestinese è crollata in un giorno - in un giorno. Il presidente Abbas ha appena detto su questo podio che i palestinesi sono armati solo con le loro speranze e sogni.
Sì, con le speranze, i sogni e 10.000 missili e razzi Grad forniti da Iran, per non parlare del fiume di armi letali che ora scorre a Gaza dal Sinai, dalla Libia, e da altrove.
Migliaia di missili sono già piovuti sulle nostre città.
Così si potrebbe capire che, dato tutto questo, gli israeliani possano giustamente chiedersi: Cos’è possibile fare per evitare che ciò accada di nuovo in Cisgiordania?
Vedete, la maggior parte delle nostre grandi città del sud del paese si trovano a poche decine di chilometri da Gaza. Ma nel centro del paese, di fronte alla West Bank, le nostre città sono poche centinaia di metri o al massimo pochi chilometri di distanza dal confine della Cisgiordania.
Quindi voglio chiedervi. Cosa penserebbe di fare ognuno di voi – nel caso qualcuno portasse un pericolo così vicino alla vostra città, alle vostre famiglie? Volete agire in modo avventato con la vita dei vostri cittadini?
Israele è pronto ad avere uno stato palestinese in Cisgiordania, ma non siamo pronti ad avere un' altra Gaza lì.
Ed è per questo che abbiamo bisogno di misure di sicurezza reali, che i palestinesi si rifiutano di negoziare con noi.
Gli israeliani ricordano le amare lezioni di Gaza. Molti dei critici di Israele le ignorano.
Essi consigliano irresponsabilmente a Israele di proseguire di nuovo su questa stessa strada pericolosa. Voi capite quanto queste persone dicono ed è come se nulla fosse successo - solo ripeteno lo stesso consiglio, le stesse formule, come se niente di tutto questo è accaduto. E questi critici continuano a spingere Israele a fare ampie concessioni senza prima assicurare la sicurezza di Israele. Lodano quelli che involontariamente nutrono il coccodrillo insaziabile dell'Islam militante come impudenti statisti. Hanno linciato come nemici della pace, quelli di noi che insistono sul fatto che dobbiamo prima costruire una robusta barriera per tenere fuori il coccodrillo, o come minimo ostacolare con una sbarra di ferro tra le sue fauci spalancate.
Quindi, a fronte di etichette e calunnie, Israele deve ascoltare i buoni consigli. Meglio una cattiva stampa che un buon necrologio, e meglio ancora sarebbe una stampa giusta il cui senso della storia si estenda oltre la prima immagine, e che riconosca a Israele legittime preoccupazioni di sicurezza.
Credo che in seri negoziati di pace, questa esigenza e preoccupazioni possano essere adeguatamente affrontati, ma non sarà affrontata senza negoziati.
E le esigenze sono molte, perché Israele è un paese piccolo.
Senza Giudea e Samaria, in Cisgiordania, Israele è in tutto 9 miglia di larghezza. Voglio proporvelo seconda la vostra prospettiva, perché siete tutti qui a New York. Si tratta di circa due terzi della lunghezza di Manhattan. E' la distanza tra Battery Park e alla Columbia University.
E non dimenticate che le persone che vivono a Brooklyn o nel New Jersey sono molto diversi da coloro che vivono in alcuni paesi vicini di Israele.
Così come si fa - come si fa a proteggere un paese così piccolo, circondato da persone votate alla sua distruzione e armate fino ai denti dall'Iran?
Ovviamente non si può difendere solo dall'interno quello spazio ristretto. Israele ha bisogno di maggiore profondità strategica, e questo è esattamente il motivo per cui la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza non richiede a Israele di lasciare tutti i territori catturati nella Guerra dei Sei Giorni.
Si parlava di ritiro da territori, di confini sicuri e difendibili. E per difendersi, Israele deve quindi mantenere una presenza a lungo termine militare israeliana nelle aree critiche e strategiche in Cisgiordania.
Ho spiegato al presidente Abbas. Egli rispose che se uno Stato palestinese doveva essere un paese sovrano, che non avrebbe mai potuto accettare tali disposizioni.
Perché no? L'America ha avuto truppe in Giappone, Germania e Corea del Sud per più di mezzo secolo. La Gran Bretagna ha avuto uno spazio aereo a Cipro e una base aerea a Cipro. La Francia ha le forze in tre nazioni indipendenti africane.
Nessuno di questi paesi sostiene che non sono sovrani. E ci sono molte altre questioni di sicurezza vitale che devono anche essere affrontate.
Prendete la questione dello spazio aereo. Ancora una volta, per Israele le piccole dimensioni creano problemi di sicurezza enorme.
L'America può essere attraversata da aereo a reazione in sei ore. Per volare in tutta Israele, ci vogliono tre minuti.
È così piccolo lo spazio aereo di Israele da poter essere tagliato a metà e dato a uno stato palestinese non in pace con Israele?
Il nostro grande aeroporto internazionale è a pochi chilometri dalla Cisgiordania. Senza pace, i nostri aerei potrebbero essere bersagli per missili antiaerei piazzati nello stato adiacente palestinese?
E come potremo fermare il contrabbando nella West Bank? Non è solo la Cisgiordania, è la montagna Cisgiordania. Domina appunto la pianura costiera dove vive la maggior parte della popolazione di Israele.
Come possiamo impedire il contrabbando in queste montagne di quei missili che potrebbero essere lanciati contro le nostre città?
Pongo in evidenza questi problemi perché non sono problemi teorici. Sono molto reali. E per gli israeliani, sono questioni di vita o di morte.
Tutte queste crepe potenziale in sicurezza di Israele devono essere sigillate in un accordo di pace prima che venga sancito uno stato palestinese, non dopo, perché se si lasciano in seguito, non avranno valore.
E questi problemi ci esploderanno in faccia demolendo la pace.
I palestinesi devono prima fare la pace con Israele e quindi ottenere il loro stato.
Ma voglio anche dirvi questo. Dopo un accordo di pace firmato, Israele non sarà l'ultimo paese ad accogliere uno stato palestinese come nuovo membro delle Nazioni Unite.
Sarà il primo. E c'è un'altra cosa. Hamas ha violato il diritto internazionale, tenendo il nostro soldato Gilad Shalit, prigioniero per cinque anni.
Non hanno concesso una visita della Croce Rossa.
E' tenuto in una prigione, nelle tenebre, contro tutte le norme internazionali. Gilad Shalit è il figlio di Aviva e Noam Shalit. Egli è il nipote di Zvi Shalit, che è sfuggitoto all'Olocausto venendo nel 1930 ragazzo nella terra di Israele.
Gilad Shalit è il figlio di ogni famiglia israeliana.
Ogni nazione rappresentata qui dovrebbe chiedere il suo rilascio immediato.
Se si vuole - se si vuole approvare una risoluzione sul Medio Oriente oggi,- è questa la risoluzione che dovrebbe passare.
Signore e signori, l'anno scorso in Israele nella Bar-Ilan University, quest'anno alla Knesset e al Congresso degli Stati Uniti, io esposi la mia visione per la pace in cui uno Stato palestinese smilitarizzato riconosce lo Stato ebraico.
Sì, lo Stato ebraico.
Dopo tutto, questo è la sede che ha riconosciuto lo Stato ebraico 64 anni fa. Ora, non pensate che sia giunto il momento che i palestinesi facciano lo stesso?
Lo stato ebraico di Israele tutelerà sempre i diritti di tutte le sue minoranze, compresi il milione e più di cittadini arabi.
Vorrei poter dire la stessa cosa di un futuro Stato palestinese, ma per i funzionari palestinesi, l' hanno chiarito proprio qui a New York - hanno detto che lo stato palestinese non accoglierà nessun Ebreo.
Sarà Ebreo-free - Judenrein. Questa è pulizia etnica.
Ci sono leggi oggi a Ramallah che considerano la vendita di terre agli ebrei punibile con la morte. Questo è razzismo.
E sapete quali leggi ci ricorda ?
Israele non ha alcuna intenzione di cambiare il carattere democratico del nostro Stato. Noi semplicemente non vogliono che i palestinesi tentino cercare di cambiare il carattere ebraico del nostro stato. (Applausi)
Noi ci opporremo alla ipotesi di distruggere di Israele con milioni di palestinesi. Il Presidente Abbas se ne stava qui ieri, e mi ha detto che il cuore del conflitto israelo-palestinese sono gli insediamenti.
Beh, questo è strano. Il nostro conflitto infuriava per quasi mezzo secolo prima che ci fosse un unico insediamento israeliano in Cisgiordania.
Quindi, se ciò che il presidente Abbas sta dicendo era vero, allora credo che gli insediamenti di cui stava parlando sono Tel Aviv, Haifa, Jaffa, Be'er Sheva. Forse è questo che voleva dire l'altro giorno quando ha detto che Israele occupa la terra palestinese da 63 anni.
Non ha detto, dal 1967, ha detto dal 1948.
Spero che qualcuno si preoccupi di porgli questa domanda, perché illustra una semplice verità: Il nucleo del conflitto non sono gli insediamenti.
Gli insediamenti sono il risultato del conflitto.
Gli insediamenti sono un problema che deve essere affrontata e risolto nel corso dei negoziati.
Ma il cuore del conflitto è sempre stato e rimane, purtroppo, il rifiuto dei palestinesi di riconoscere uno Stato ebraico non importa con quale confine. Penso che sia tempo che la leadership palestinese riconosca ciò che ogni leader serio internazionale ha riconosciuto, da Lord Balfour e Lloyd George nel 1917, al presidente Truman nel 1948, per il presidente Obama appena due giorni fa proprio qui: Israele è lo Stato ebraico.
Presidente Abbas, la smetta di girare intorno a questo problema.
Riconosca lo stato ebraico, e faccia la pace con noi.
In tale vera pace, Israele è pronto a scendere a compromessi dolorosi. Siamo convinti che i palestinesi non devono essere né cittadini di Israele né suoi sudditi. Essi devono vivere in un loro stato libero.
Ma devono essere pronti, come noi, ali compromesso. E noi sappiamo che saranno pronti per il compromesso e per la pace quando si inizierà a prendere sul serio il punto sui requisiti di sicurezza di Israele e quando smetteranno di negare il nostro legame storico per la nostra antica patria.
Sento spesso che accusano Israele di giudaizzare Gerusalemme. E 'come accusare l'America di americanizzare Washington o gli inglesi di inglesizzare Londra.
Sa perché siamo chiamati "giudei"? Perché veniamo dalla Giudea.
Nel mio ufficio a Gerusalemme, c'è un antico sigillo. E 'un anello con sigillo di un funzionario ebreo dal tempo della Bibbia. Il sigillo è stato trovato proprio vicino al Muro del Pianto, e risale a 2.700 anni, al tempo del re Ezechia.
Ora, c'è un nome del funzionario ebraico scritto sull'anello in ebraico. Il suo nome era Netanyahu. Questo è il mio cognome.
Il mio primo nome, Benjamin, risale a mille anni prima di Benjamin - Binyamin - figlio di Giacobbe, che era anche conosciuto come Israele.
Giacobbe e i suoi 12 figli hanno vagato su queste stesse colline della Giudea e della Samaria 4.000 anni fa, e c'è stata una continua presenza ebraica nella terra da allora.
E per quegli ebrei che sono stati esiliati dalla nostra terra, non hanno mai smesso di sognare il ritorno: ebrei in Spagna, alla vigilia della loro espulsione, gli ebrei in Ucraina, in fuga dal pogrom, gli ebrei del ghetto di Varsavia combattendo, con i nazisti che li accerchiavano.
Non hanno mai smesso di pregare, non hanno mai smesso di provare nostalgia. Sussurravano: l'anno prossimo a Gerusalemme. L'anno prossimo nella terra promessa.
Come il primo ministro di Israele, io parlo per un centinaio di generazioni di ebrei che erano dispersi per il mondo, che hanno sofferto ogni male, ma che non hanno mai abbandonato la speranza di ripristinare la loro vita nazionale nel solo ed unico stato ebraico.
Signore e signori, io continuo a sperare che il presidente Abbas sarà il mio partner per la pace. Ho lavorato duramente per far avanzare la pace.
Il giorno in cui sono divento primo ministro, ho chiesto negoziati diretti senza precondizioni.
Il presidente Abbas non ha risposto. Ho delineato una visione di pace di due stati per due popoli. Lui ancora non ha risposto.
Ho rimosso centinaia di blocchi stradali e posti di blocco, per facilitare la libertà di circolazione nelle aree palestinesi, facilitando una crescita fantastica per l'economia palestinese.
Ma ancora una volta - nessuna risposta. Ho preso l'iniziativa senza precedenti di bloccare la costruzione di nuovi edifici nelle colonie per 10 mesi.
Cosa che nessun primo ministro ha mai fatto precedentemente .
Ancora una volta, non c'è stata risposta. Nessuna risposta.
Nelle ultime settimane, i funzionari americani hanno proposto iniziative per riavviare i colloqui di pace. Ci sono state ipotesi sui confini che non mi piacevano.
C'erano cose circa lo stato ebraico che sono sicuro che ai palestinesi non piacevano. Ma con tutte le mie riserve, ero disposto ad andare avanti su queste proposte americane.
Presidente Abbas, perché ne parliamo insieme? Dobbiamo continuare i negoziati. Dobbiamo andare avanti. Negoziamo per la pace.
Ho passato anni a difendere Israele sul campo di battaglia. Ho trascorso decenni a difendere Israele di fronte all' opinione pubblica.
Presidente Abbas, hai dedicato la tua vita a favore della causa palestinese. Questo conflitto deve continuare per generazioni, o permetterà ai nostri figli ai nostri nipoti di parlare negli anni a venire di come abbiamo trovato un modo per porvi fine?
Questo è quello cui dobbiamo puntare, e questo è quello che credo che possiamo ottenere.
In due anni e mezzo, ci siamo incontrati a Gerusalemme una sola volta, anche se la mia porta è sempre stata aperta.
Se lo desidera, verrò a Ramallah.
In realtà, ho un suggerimento migliore. Entrambi abbiamo appena volato per migliaia di chilometri a New York. Ora siamo nella stessa città. Siamo nello stesso edificio. Quindi cerchiamo di incontrarci qui oggi alle Nazioni Unite.
Chi vuole fermarci? Cosa c'è che può fermarci? Se vogliamo veramente la pace, cosa c’è ad impedire un incontro oggi e l’inizio dei negoziati di pace?
Parliamo apertamente e onestamente.
Ascoltiamoci l'un l'altro. Facciamo come diciamo noi in Medio Oriente: Parliamo di "doogri". Ciò significa, semplicemente, ti dirò le mie esigenze e le preoccupazioni.Tu mi dirai le tue.
E con l'aiuto di Dio, troveremo un terreno comune di pace.
C'è un vecchio detto arabo che dice: non si può applaudire con una mano. Ebbene, lo stesso vale per la pace. Non riesco a fare la pace da solo.
Non posso fare la pace senza di te.
Presidente Abbas, porgo la mia mano - la mano di Israele - in pace.
Spero che stringerà questa mano.
Siamo entrambi figli di Abramo.
La mia gente lo chiama Avraham.
La tua gente lo chiama Ibrahim.
Condividiamo lo stesso patriarca. Viviamo nella stessa terra. I nostri destini si intrecciano. Cerchiamo di realizzare la visione di Isaia - (parla in ebraico) - "Il popolo che cammina nelle tenebre vedrà una grande luce".
Lasciate che sia la luce della pace.
(traduzione di Elio Calza)

http://www.informazionecorretta.it/main.php?mediaId=115&sez=120&id=41572

domenica 18 settembre 2011

Israele, la via della pace è palestinese

18/9/2011

ARRIGO LEVI

E così Israele, l’Israele di Netanyahu, degli immigrati russi e degli ultraortodossi, sta riuscendo a isolarsi, come non era più stato da decenni, nella regione cui inesorabilmente appartiene, per ragioni di storia e di memorie, ma dove è visto come un ultimo residuo di colonialismo europeo, testimonianza inaccettabile del declino storico della civiltà araba.
Per quello che è il terzo Stato ebraico della storia si pone ancora il problema della sopravvivenza.

Per quanto irrealistica appaia questa ipotesi quando si visitano le fiorenti città e campagne dello Stato ebraico. Sognavano i profeti che venisse il giorno in cui la via della pace universale corresse dall’Egitto alla Babilonia passando per Gerusalemme: in questa come in poche altre regioni la storia sembra ripetersi a distanza di millenni.

Ma, si dirà, non è con i palestinesi, e soltanto con i palestinesi, che Israele deve far pace per essere da tutti accettato? La risposta è un po’ meno sicura di quanto appaia. Avevamo tutti accolto con sollievo quando, dopo i grandi moti rivoluzionari in Tunisia e in Egitto, ci era stato assicurato, non senza qualche sorpresa, che non si erano ascoltati slogan e grida contro Israele. L’assalto feroce all’ambasciata d’Israele al Cairo è stata una brutale smentita a quelle ottimistiche rassicurazioni. Riconosciamo la realtà: lo Stato ebraico, per pregiudizi nuovi ed antichi, è ancora visto con odio dalle masse egiziane, e non solo da loro.

Ma ci è stato subito assicurato che i militari egiziani non avrebbero assolutamente rimesso in discussione il trattato di pace con Israele. Ora ci si dice invece dal Cairo che sono possibili cambiamenti. E intanto la gran maggioranza dei Paesi del mondo sta per proclamare all’Onu la propria convinzione che i palestinesi abbiano diritto a un loro Stato, e Israele e l’America non sembrano fino a questo momento capaci di far buon viso a cattivo gioco. Dopodiché, quale che sia la formulazione del pensiero dell’assemblea, ci si attendono assalti o sfide alle frontiere d’Israele, col rischio di incidenti capaci perfino di avere ripercussioni all’interno dello Stato ebraico nella minoranza araba.

La maggioranza che oggi governa lo Stato d’Israele riconosce in linea di principio che «uno Stato palestinese dev’essere stabilito», come ha assicurato Dan Meridor a Francesca Paci; e questo è un notevole progresso. Ma in attesa che un giorno, chissà quando, ciò accada, Israele non intende porre fine all’ampliamento delle colonie ebraiche, perché sarebbe «irrealistico» impedire a chicchessia di «comprar casa solo perché è ebreo». Non è bastato che ciò fosse stato proibito con una moratoria di dieci mesi? No, non è bastato.

Eppure Israele ha lasciato la striscia di Gaza e richiamato con la forza in patria gli israeliani che vi risiedevano. Questo non appariva «irrealistico» nell’interesse superiore dello Stato. Ma Israele oggi appare paralizzato dai suoi timori, di fronte a una «rivoluzione araba» di cui vede soltanto, non a torto, la pericolosità. E così, le prospettive di un nuovo negoziato sembrano sfumare in un futuro incerto e lontano. Chiedendosi se ce la farà questa generazione a fare la pace, un osservatore mite ed equilibrato come Antonio Ferrari si risponde: è «più che lecito dubitarne».

Ammettiamolo: far pace con i palestinesi può non bastare per far pace con tutti gli arabi. Per questo più lontano obiettivo occorrerà forse lasciar passare generazioni. Ma è pur sempre sotto le forche caudine palestinesi che Israele dovrà passare per fare pace con tutti: ed è solo su questo fronte che la diplomazia d’Israele può agire per far sì che Israele non rimanga così tremendamente solo nella terra che qualche millennio fa fu irrevocabilmente promessa agli ebrei; ma fu anche ripetutamente negata. È in questa direzione che la straordinaria forza spirituale del popolo che dopo una millenaria dispersione ha ridato vita a uno Stato ebraico potrebbe e dovrebbe indirizzarsi.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9213

sabato 17 settembre 2011

“L’Onu aiuti Netanyahu e Abbas”. L’appello dell’ex ministro israeliano

Netanyahu non è pronto per un accordo definitivo, ma l’Onu può aiutarlo. E’ la convinzione di un insider israeliano e politico di vecchia data, in merito alla scottante questione del riconoscimento di uno Stato palestinese. Ex ministro ed ex negoziatore per la pace, Yossi Beilin sostiene che l’unica strada praticabile sia oggi un rapido ritorno ai negoziati. Fondamentale, dice, è però proprio l’intervento delle Nazioni Unite. “No a una risoluzione punitiva per Israele – la sua posizione – sì, invece, a un testo che avvicini le parti e ponga le basi per un compromesso”. Subito uno stato Palestinese dai confini provvisori e poi un rapido ritorno alle trattative in vista di un accordo definitivo, la personale road map che suggerisce a Ramallah e Tel Aviv dai microfoni di euronews.

Seamus Kearney, euronews

“Quale è l’atteggiamento del suo paese nei confronti di questa risoluzione dell’Onu? Non parlo solo del governo, ma anche della popolazione…”.

Yossi Beilin

“Certo non è facile riassumere lo stato d’animo di un’intera nazione. Direi però che l’atteggiamento dominante è la preoccupazione. Il sentimento generale è che qualcosa di negativo potrebbe davvero accadere. Il Ministro della difesa, Ehud Barak, aveva detto che a settembre avrebbe potuto verificarsi uno tsunami. E la gente comincia ora a capire che il riconoscimento di uno stato palestinese non è una questione a sé, ma è profondamente legata a quanto sta accadendo attorno a noi: i rapporti con l’Egitto, quelli con la Turchia, il risentimento che l’opinione pubblica ha in questo momento verso Israele…”.

euronews

“Lei chè in politica da molti anni, come ritiene che dovrebbe ora agire il governo israeliano?”.

Yossi Beilin

“Devo anzitutto ammettere di non capire per quale motivo il Primo ministro Netanyahu, lo scorso anno, ha rifiutato la richiesta di Obama di congelare gli insediamenti per due mesi, al fine di consentire i negoziati col presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas. Personalmente continuo a ritenere che il ritorno alle trattative sia l’unica opzione possibile. Non credo infatti che Netanyahu sia pronto per un accordo definitivo e non credo che sia pronto ad accettare le condizioni minime, richieste dall’attuale leadership palestinese. Allo stesso tempo, ho però anche l’impressione che quest’ultima non sia in grado di indurre alle trattative Hamas e la Striscia di Gaza. L’unica cosa ragionevole da fare, oggi, sarebbe quindi congelare gli insediamenti e negoziare in tempi brevi le prossime tappe della road map. Ovvero: uno Stato palestinese dai confini provvisori che a tempo debito, ma non certo oggi, conduca a un accordo definitivo. Se poi questa strada si rivelasse impraticabile, suggerirei allora di lavorare con attenzione al testo della risoluzione Onu. Fare cioè in modo che non risulti come una ‘punizione’ nei confronti di Israele, ma che delinei uno scenario favorevole ad entrambe le parti e si eriga a vero ‘ponte’, che avvicini israeliani e palestinesi a un accordo definitivo. Qualora il pronunciamento dell’Onu portasse a questo, potremmo allora davvero aprire ai negoziati, quanto meno per una soluzione provvisoria”.

euronews

“Gli Stati Uniti hanno annunciato il proprio veto a un ingresso palestinese nell’Onu. Come pensa che reagirebbe il governo israeliano, se l’Assemblea Generale si pronunciasse invece in tal senso?”.

Yossi Beilin

“La risoluzione gode oggi di una maggioranza schiacciante in seno all’Assemblea Generale. Non credo, quindi, che alla luce di questi equilibri il governo israeliano sia nelle condizioni di adottare misure punitive, procedere ad annessioni territoriali o altro… E’ vero che il capo della nostra diplomazia, il signor Lieberman, minaccia ritorsioni, ma spero che il nostro Primo ministro gli impedisca di passare ai fatti. Non credo che il governo disponga di un arsenale di misure da mettere in pratica in tal senso”.

http://it.euronews.net/2011/09/16/l-onu-aiuti-netanyahu-e-abbas-l-appello-dell-ex-ministro-israeliano/

martedì 13 settembre 2011

Al Cairo il telefono della giunta squilla a vuoto (e favorisce gli islamisti)

Ecco cosa è accaduto durante l’assalto dell’ambasciata di Israele in Egitto. Il ruolo di Obama e la visita di Erdogan



Il maggiore giornale egiziano, al Ahram, paragona l’assalto all’ambasciata d’Israele alla caduta del Muro di Berlino. Hamdeen Sabahi, candidato alla presidenza egiziana, esulta dicendo che “la bandiera sionista aveva inquinato l’aria egiziana per trent’anni”. Il quotidiano israeliano Israel Hayom lo chiama “l’esodo”: mai prima d’ora l’intero corpo diplomatico israeliano, ottanta persone fra ambasciatore, assistenti e guardie di sicurezza, era stato costretto ad abbandonare il Cairo.

La notizia politica più importante dell’assalto è che senza l’intervento del presidente americano Barack Obama ci sarebbe stata una strage di israeliani. Durante la crisi il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e il ministro della Difesa, Ehud Barak, hanno tentato di telefonare al feldmaresciallo Mohammed Tantawi, l’ufficiale di grado più alto dopo la caduta di Mubarak, per farlo intervenire. La versione ufficiale dice che Tantawi “non si trovava”. La verità è che non ha accettato la telefonata israeliana. “Farò quello che posso”, ha detto Obama a Netanyahu, riuscendo a costringere gli egiziani a creare una via di fuga per gli israeliani. L’ex generale egiziano Sameh Seif ha detto che l’assalto è colpa della casta militare che governa il paese. E il sospetto che la giunta abbia lasciato mano libera ai manifestanti è forte.
Il governatore di Giza, dove sorge l’ambasciata, ha promesso alla folla che non costruirà un altro muro a protezione degli israeliani. La sicurezza attorno al diciottesimo piano era altissima. Non erano ammessi telefonini, c’erano metal detector, telecamere e guardie armate. Un protocollo voleva che gli israeliani, prima di abbandonare le proprie case diretti all’ambasciata, dovessero accertarsi di non essere seguiti e cambiare spesso il loro itinerario.

Alle cinque del pomeriggio di venerdì migliaia di egiziani si ritrovano in piazza Tahrir. L’ordine è di marciare sull’ambasciata israeliana. Giorni prima un influente leader religioso dei Fratelli musulmani, Salah Sultan, aveva emesso una fatwa che legittimava l’uccisione dell’ambasciatore, Yitzhak Levanon.

Salah Sultan aveva accusato l’ambasciata di “corrompere” i giovani con prodotti per capelli che ledono le capacità riproduttive. La vice Guida suprema della Fratellanza, Mahmoud Ezzat, aveva accusato il personale israeliano di essere “spie”. “Rappresentante sionista, vattene o muori”, recitava uno dei volantini distribuiti dalla Fratellanza davanti all’ambasciata.

Ieri, mentre arrivava al Cairo il premier turco Recep Tayyip Erdogan, un comunicato della potente confraternita islamica ha giustificato l’attacco, dicendo che l’assalto all’ambasciata è stata “una reazione legittima”. I Fratelli musulmani hanno chiesto una “revisione” del trattato di Camp David. “Israele dovrebbe aver capito il messaggio, l’Egitto è cambiato, la regione è cambiata”, si legge in un comunicato dei Fratelli musulmani. E ancora: “E’ stata una esplosione di sentimento nazionale nel cuore degli egiziani”. Venerdì sera dentro all’ambasciata, chiusa per Shabbat, c’erano sei guardie israeliane. Alle sei i manifestanti abbattono il muro di tre metri a difesa dell’edificio al grido di “Allah Akbar” e “Sinai Sinai”. A mezzanotte da Israele arriva l’ordine di evacuare il personale. I sei israeliani restano chiusi in una “stanza sicura” dell’ambasciata, dietro a una porta di ferro. Alcuni manifestanti riescono a entrare nell’ambasciata, rubano centinaia di documenti di proprietà d’Israele e strappano la bandiera ebraica. Da Gerusalemme Netanyahu, Barak e il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman seguono il raid dalle telecamere. Il capo del Mossad, Tamir Pardo, invia un Boeing 707 al Cairo per portare in salvo tutti. Gli israeliani fuggono indossando la kefiah. L’aereo decolla alle tre e atterra in Israele alle cinque del mattino di sabato. Oggi resta un solo israeliano nel paese, è il viceambasciatore Yisrael Tikochinsky-Nitzan, trasferito in una località “sicura”. Si sa che tre delle guardie rinchiuse nell’ambasciata hanno sparato in aria per allontanare gli egiziani saliti al diciottesimo piano. L’ordine era di “sparare per uccidere” nel caso gli egiziani avessero sfondato anche l’ultima porta. Il capo delle guardie, “Yonatan”, aveva già spedito un sms d’addio alla moglie: “Ti amo”. Quella predata venerdì scorso era stata la prima bandiera israeliana a sventolare in una capitale araba, dal 17 febbraio 1980.

di Giulio Meotti
http://www.ilfoglio.it/soloqui/10334

domenica 4 settembre 2011

Peres: la primavera araba ora dia libertà alle donne"

di Vincenzo Nigro

CERNOBBIO - «Può darsi che i jihadisti abbiano avuto un ruolo nella rivolta in Libia, ma a pesare di più sono stati i 42 anni di oppressione del regime, non gli incitamenti degli estremisti islamici. Le rivoluzioni arabe sono già una grande promessa per il Medio Oriente. Ho fiducia nelle giovani generazioni. Il futuro è affidato alla scienza, è costruito da relazioni pacifiche». A 88 anni Shimon Peres, il presidente di Israele, si muove al workshop di Cernobbio con la lentezza di un vecchio saggio, ma con la velocità intellettuale di un ragazzo che sa immaginare un nuovo mondo.

Presidente, alla fine di settembre l´Anp di Abu Mazen chiederà un voto all´assemblea Onu per riconoscere uno Stato palestinese. Potrebbero avere l´appoggio del mondo anche se sarà un voto simbolico.

«La posizione di Israele, del popolo, del suo governo, è che uno Stato palestinese dovrà sorgere. La questione non è più il "se", ma "come" si possa raggiungere l´obiettivo garantendo anche la sicurezza di un altro Stato che già esiste: Israele. Abbiamo avuto l´esperienza di Gaza, che una volta diventata indipendente si è trasformata in una base per lanciare attacchi contro Israele. Mi chiedo: con quel voto le Nazioni Unite possono garantire la sicurezza di Israele? L´Onu può fermare il lancio di missili su Israele? Può bloccare il contrabbando di armi dall´Iran, un Paese membro della stessa Onu?».

Si metta nei panni del leader palestinese Abu Mazen: lei non farebbe lo stesso? Non chiederebbe un voto all´Onu per sbloccare un negoziato paralizzato da anni?

«Non sono sicuro del risultato di quel voto. Ho paura che sarà una mera dichiarazione che rinvierà la possibilità di un negoziato vero. Certo, è passato molto tempo, ma la pace richiede tempo: essere impazienti e ottenere solo una dichiarazione non servirà a molto».

Sappiamo che, in accordo col governo Netanyahu, lei ha avuto contatti riservati con la dirigenza palestinese.

«La risposta alle domande di arabi e israeliani sarebbe avere colloqui bilaterali e diretti. Ne sto parlando con i palestinesi, non escludo la possibilità di un accordo diretto fra noi e loro. Lo dico chiaramente: la soluzione è andare a negoziati diretti».

Israele congelerà i fondi dell´Anp, bloccherete la collaborazione con i palestinesi dopo un eventuale voto Onu?

«Sui versamenti non ci sono problemi, c´è stato un breve blocco, c´era un dibattito interno al governo, ma quei soldi appartengono ai palestinesi e vanno versati a loro. Per il resto credo che dovremmo continuare a negoziare».

Un fattore essenziale è il supporto dell´opinione pubblica: la società politica israeliana sta cambiando. Crede che gli israeliani sosterranno la pace?

«Le rispondo con un paradosso: non so se la maggioranza sosterrà la pace, ma di sicuro la pace creerà una maggioranza. Se un primo ministro si presenterà con un progetto di pace, otterrà sostegno. I sondaggi non sono il verdetto finale: sono come i profumi, gradevoli da odorare, pericolosi da bere. Se ci sarà un vero progetto di pace, la pace verrà approvata».

Di fronte a voi, la "primavera" del mondo arabo. Per Israele la rivoluzione più delicata è stata quella in Egitto. Quale sarà il futuro dei rapporti con questo Paese cruciale per la vostra sicurezza?

«Queste rivoluzioni sono già una grande promessa per tutto il Medio Oriente. Per ora, però, abbiamo dei rivoluzionari, non una vera "Rivoluzione": non hanno leader, né un´ideologia, né piani. Hanno la forza dell´età. Le giovani generazioni vedono le cose in maniera differente, in tutto il mondo. Ma far funzionare la macchina del cambiamento non è semplice. Ci vorranno tempo, elezioni e passi successivi. Aggiungo una cosa: non si può cambiare una società se non vengono garantiti uguali diritti alle donne. Una volta il presidente Obama mi ha chiesto: «Chi sono i principali oppositori alla democrazia in Medio Oriente?». Gli ho risposto: i mariti, gli uomini. Non vogliono dare diritti alle donne. La loro libertà è essenziale per la libertà delle società».

Non crede che in Egitto la giunta militare sarà portata a cavalcare i sentimenti anti-israeliani? Arriverà a mettere in dubbio la pace con Israele?

«Non c´è una sola ragione di conflitto fra noi e l´Egitto. È stato il Paese più importante del Medio Oriente, e noi ci auguriamo che rimanga il Paese più solido e importante come l´abbiamo conosciuto. La pace fra noi e l´Egitto è un interesse comune: si fanno molte critiche a Mubarak, ma per 30 anni ha preservato la pace, ha salvato la vita di migliaia di egiziani e di israeliani».

C´è un altro Paese cruciale per voi, la Siria.


«Assad sta mantenendo il potere, ma ha completamente perso la testa. Non puoi rimanere al potere se non hai la testa a posto: ha già ucciso troppi fra i suoi cittadini, non è possibile cancellare quel che ha fatto. Ammiro il coraggio dei cittadini siriani: hanno protestato per mesi, sfidando il fuoco dei fucili, per difendere la loro dignità, la loro libertà. Avendo ordinato di assassinare così tanti cittadini, Assad ha ucciso anche il suo futuro. Credo che il regime abbia raggiunto la sua fine, è solo questione di tempo».

In Libia la scomparsa di Gheddafi potrebbe assegnare un ruolo importante a leader islamisti o jihadisti?

«Può darsi che i jihadisti abbiano avuto un ruolo, ma il ruolo principale nella rivoluzione l´ha avuto Muammar Gheddafi. La rivolta del popolo libico è stata creata da Gheddafi, per i 42 anni della sua oppressione, non dagli incitamenti dei jihadisti. Ha trattato un Paese come una sua proprietà privata, difesa con violenza disumana».

Crede che in Libia la "buona politica" riuscirà a limitare il ruolo di jihadisti e terroristi?

«Io spero di sì, ma le dico una cosa: già il regime di Gheddafi era un regime estremista, terrorista. Hanno fatto attentati, hanno abbattuto aerei carichi di passeggeri innocenti, pensi a Lockerbie. Non dobbiamo dimenticarlo. Il futuro è davanti a noi: non ho mai ceduto alla previsione dello scontro fra civiltà; c´è invece uno scontro fra generazioni, ovunque nel mondo. Io ho fiducia nelle nuove generazioni. Il futuro è globale, è affidato alla scienza, è costruito da relazioni pacifiche. Il problema del Medio Oriente è il cibo, il benessere, la vita dei cittadini. La jihad può rispondere a questi problemi? Si possono mangiare i proiettili a colazione? Non credo, le risposte possono offrircele solo politiche corrette di sviluppo economico. Per questo vengo a Cernobbio, a un convegno in cui ogni volta sento parlare di economia, di sviluppo: questo è lo strumento migliore per la pace. Negoziare per favorire lo sviluppo dei popoli».

Repubblica del 04/09/2011

domenica 21 agosto 2011

La solitudine d'Israele

di Salvatore Falzone


I fatti tragici degli ultimi giorni con gli attentati multipli contro Israele, indicano, ancora una volta, che le organizzazioni terroristiche hanno nella loro agenda il mantenimento di una situazione di conflitto, ma indica anche la solitudine dello Stato Ebraico nell’affrontare tali organizzazioni.
Non c’è stata nessuna condanna esplicita da parte dell’Egitto, né di Hamas, né dell’Anp.
Solamente si sono limitati ad una pronuncia di “non responsabilità” per quanto accaduto e sta accadendo, non una presa di posizione e d’attivazione contro il terrorismo.

L’Egitto, pur avendo interesse affinché il suo territorio non sia destabilizzato, non solo per il mantenimento della pace con Israele, visto che i controlli al valico di Rafak e sul Sinai sono di sua competenza con tanto di presenza dei soldati egiziani, bensì per evitare la sovversione della Repubblica laica egiziana con la presa di potere dei vari gruppi estremisti, o dell’ala dura dei Fratelli musulmani, si concentra sulla crisi diplomatica con Israele, (nonostante le aperture di quest’ultimo); Hamas, che si trova al governo nella Striscia di Gaza mostra tutta la sua non politica con il suo vero volto, con tanto di lanci di missili grad che hanno una gittata tale da mantenere nel mirino il sud d’Israele, infine l’Anp mantiene un atteggiamento che mostra come la tanto sbandierata “unità palestinese” sia inesistente.

Sul versante internazionale gli Usa, l’UE e l’Onu, dopo le solite prese di posizione, mostrano una forte debolezza politica. Oramai la loro credibilità tende a scemare per la mancanza di una visione d’insieme della situazione israelo-arabo-palestinese.
In una situazione del genere Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente, si trova in solitudine a difendersi per la sua sicurezza nazionale davanti alle ostilità dei Paesi limitrofi, davanti al terrorismo

venerdì 19 agosto 2011

Attentato multiplo nel sud di Israele

Attentato terrorista multiplo, giovedì, contro il sud di Israele: almeno sette persone uccise, trenta i feriti, alcuni in condizioni critiche.
Nel primo attacco un commando di almeno tre terroristi, a quanto pare con addosso divise militari blu (egiziane), ha teso un’imboscata a raffiche di mitra contro un autobus della linea 392 in viaggio da Beersheva (capoluogo del Negev israeliano) a Eilat (nell’estremo sud del paese, sulla costa del Mar Rosso). L’attacco, che ha avuto luogo sulla Strada 12, una ventina di km a nord di Eilat, presso l’incrocio di Ein Netafim, ha causato almeno una dozzina di feriti, di cui diversi in gravi condizioni. I feriti sono stati trasportati d’urgenza con ambulanze ed elicotteri agli ospedali Yoseftal di Eilat e Soroka di Beersheva.
Pochi minuti dopo, giungeva notizia di un secondo attacco nella stessa regione, con armi da fuoco e lancia-granate contro un autobus e un’auto privata: sette le persone ferite, alcune mortalmente. Secondo il portavoce delle Forze di Difesa israeliane, fra le vittime vi sarebbero anche dei soldati.
Un terzo attentato verso l’una del pomeriggio vedeva all’opera diversi ordigni esplosivi e lanci di razzi contro unità delle Forze di Difesa israeliane in servizio di pattuglia lungo il confine fra Israele ed Egitto.
Poco dopo, militari israeliani ingaggiavano uno scontro a fuoco con un gruppo di terroristi, uccidendone tre o quattro.
Tutte le strade verso Eilat sono state temporaneamente chiuse al traffico. Chiuso anche l’aeroporto di Ovda, mentre le forze di sicurezza si sono lanciate alla ricerca dei responsabili in tutta la zona.
Secondo fonti della difesa, almeno parte degli attacchi sarebbero stati portati dal versante egiziano della frontiera. Un funzionario della sicurezza egiziana ha sostenuto invece che tutti gli attacchi si sarebbero svolti all’interno dei confini d’Israele. Nei giorni scorsi le autorità israeliane avevano espresso la preoccupazione che gruppi di terroristi nel Sinai potessero sfruttare il vuoto seguito dalla destituzione del presidente egiziano Hosni Mubarak nel febbraio scorso.
"Agiremo contro l'origine degli attentati con tutta la forza e la determinazione", ha affermato il ministro della difesa, Ehud Barak.

Secondo la testimonianza di diversi passeggeri, Benny Belevsky, 60 anni, l’autista dell’autobus Egged n. 392 attaccato dai terroristi, ha evitato un esito ancora più grave agendo immediatamente con molto sangue freddo. Belevsky ha continuato a guidare sotto la pioggia di proiettili ed ha accelerato cercando di portare in salvo il mezzo, pieno di passeggeri, mentre alcuni soldati a bordo cercavano di rispondere al fuoco e del personale sanitario iniziava subito a prendersi cura dei feriti.

Parlando ai giornalisti giovedì pomeriggio, il comandante della zona sud delle Forze di Difesa israeliane, gen. Tal Russo, ha riepilogato la dinamica degli attentati, costati la vita a sei civili e un militare israeliano. Tre terroristi armati di cariche esplosive, armi automatiche e granate sono penetrati in Israele dal Sinai, si sono sparpagliati su un raggio di 300 metri e hanno iniziato a sparare sul primo autobus. Poi hanno sparato su un’auto privata e su un secondo autobus. Più tardi un attentatore suicida si è fatto esplodere e un altro terrorista apriva il fuoco sui militari sopraggiunti sul luogo degli attentati. Due terroristi sono stati eliminati dalle forze israeliane, e sembra che altri due siano stati intercettati e uccisi da forze egiziane sull’altro versante della frontiera. Successivamente i militari israeliani hanno rinvenuto cariche esplosive disseminate sul terreno. Uno degli attacchi ha avuto luogo nei pressi di un posto di controllo egiziano.

Paskal Avrahami, 49 anni, ufficiale di un'unità anti-terrorismo della polizia israeliana, è rimasto ucciso giovedì pomeriggio quando dei terroristi da oltre confine hanno aperto il fuoco su agenti e militari impegnati nelle operazioni di pattugliamento nella zona degli attentati avvenuti poche ore prima, nel sud del paese. La sua morte porta a otto il bilancio degli israeliani morti nella serie di attacchi terroristici di giovedì.

(Da: YnetNews, Jerusalem Post, Ha'aretz, 18.8.11)
http://www.israele.net/articolo,3208.htm

martedì 16 agosto 2011

Quarto giorno di fuoco a Latakia Raid notturni, almeno 30 morti

La cittadina costiera ancora sotto assedio. Sale il numero delle vittime. In alcune zone interrotte comunicazioni ed elettricità. Testimoni: "Si sentono esplosioni nei pressi del campo profughi di Raml", da dove sono fuggiti 5mila palestinesi. Duro monito del ministro degli Esteri turco: "E' l'ultimo avvertimento"

AMMAN - Non si ferma l'assedio del regime a Latakia. Il quarto giorno si è illuminato dopo i raid notturni durante i quali, secondo gli attivisti, ci sono state altre vittime e il bilancio è salito così a trenta morti compresi 4 palestinesi uccisi mentre tentavano la fuga dalla zona di Raml al Janubi. Tra questi c'era anche una donna. Secondo testimoni si sentono ancora "colpi di arma pesante e esplosioni nei pressi del campo profughi di Raml", da dove ieri sono fuggiti oltre 5mila palestinesi. In mattinata i tank dell'esercito siriano hanno aperto nuovamente 1il fuoco sulla cittadina del Mediterraneo, ieri pesantemente bombardata anche dal mare.

L'esodo dal campo profughi. Alcuni dei rifugiati di Latakia sono stati costretti dalle bombe ad abbandonare il campo su richiesta dell'esercito siriano, mentre altri se ne sono andati spontaneamente temendo per la propria vita, come ha spiegato il portavoce dell'Unrwa Christopher Gunness alla Cnn. "Stiamo chiedendo al governo siriano di poter incontrare i palestinesi, il loro benessere è una nostra responsabilità - ha detto Gunness -. Dobbiamo essere là per verificare cosa sta accadendo". "La tragedia di Raml al Janubi prosegue da ieri", ha denunciato il Coordinamento locale dei comitati
in Siria in un comunicato diffuso oggi. Secondo il gruppo dell'opposizione siriana dall'inizio della rivolta contro Assad a metà marzo, sono 2.545 le persone uccise, la cui maggior parte è composta da civili, mentre 391 sono agenti della sicurezza.

Vietato l'ingresso a organizzazioni umanitarie.
Le autorità siriane si rifiutano di concedere l'accesso al campo profughi di Latakia alle organizzazioni umanitarie. Lo ha denunciato Yasser Abed Rabbo, membro dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina. "Il campo è sotto pesanti bombardamenti da ieri" e le autorità non consentono all'agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unrwa) di entrare nel campo, ha detto Abed Rabbo che, accusando il governo del presidente siriano Bashar al-Assad di essere "anarchico", ha aggiunto che le forze siriane "uccidono il loro popolo, opprimono e bombardano". Zakareya Al-Agha, responsabile degli affari dei rifugiati all'interno dell'Olp, ha detto che decine di palestinesi nel campo sono stati uccisi o feriti. Non ci sono contatti tra la leadership palestinese e le autorità siriane, ha spiegato Al-Agha alla radio 'Voice of Palestine' senza spiegare i motivi.

Scontri al confine con il Libano
. Attivisti contattati dalla capitale siriana hanno poi raccontato che nella zona di Saliba, a Latakia, sono state interrotte le comunicazioni e l'elettricità. Ma è stata la zona di Simakayeh la più presa di mira durante questa notte quando l'esercito siriano ha intensificato le sue azioni repressive nei confronti dei manifestanti anti regime di Bashar al-Assad. Secondo gli attivisti ci sono esplosioni e scontri a fuoco alla frontiera settentrionale con il Libano. "Si è avvertito un pesante bombardamento dall'altra parte della frontiera perché Simakayeh è molto vicina al Libano", ha detto Omar Idlibi. Una fonte della sicurezza libanese ha poi aggiunto che guardie di frontiera hanno arrestato diverse famiglie a Simakayeh mentre tentavano di entrare nel nord del Libano dopo la mezzanotte. Citando attivisti a Damasco, inoltre, Idilbi ha denunciato che le forze di sicurezza hanno compiuto arresti di massa nel quartiere di Moadamiya, a Damasco.

L'ultimatum turco. Il ministro turco degli affari Esteri, Ahmet Davutoglu, ha esortato la Siria a porre fine "immediatamente e senza condizioni" alle operazioni militari contro i manifestanti. In un'ultima telefonata all'omologo ministro degli Esteri siriano Velid El Muallim, Davutogluha rivolto il suo monito: "Se le operazioni non finiranno - ha dichiarato - non ci sarà null'altro da dire in merito alle misure che potrebbero essere intraprese". Anche l'Anp, autorità palestinese, ha chiesto al governo di Damasco di garantire la sicurezza dei profughi palestinesi. Da Washington il portavoce della Casa Bianca John Carney ha dichiarato che il presidente Bashar Al-Assad deve "interrompere le violenze sistematiche, gli arresti di massa e l'uccisione senza senso e fuori ogni tipo di legge della propria popolazione".

La zona cuscinetto. Secondo quanto riporta la Cnn Turk, la Turchia sarebbe intenzionata a creare una zona cuscinetto al confine con la Siria. A giugno il quotidiano Hurriyet citava una fonte vicina al dossier, secondo la quale l'obiettivo della creazione di una zona cuscinetto in territorio siriano era quello di accogliere le molte persone in fuga dalle violenze in corso in Siria. Ma il numero dei siriani rifugiati in Turchia è calato. All'epoca si parlava di oltre diecimila persone, adesso sarebbero circa settemila.

http://www.repubblica.it/esteri/2011/08/16/news/siria_quarto-giorno_assedio-20493453/

venerdì 5 agosto 2011

Siria, il massacro quotidiano Assad prepotente, Onu impotente

La "Dichiarazione" di condanna e il massimo oggi possibile

Esisteva, ai tempi dell’Unione Sovietica la "solidarietà internazionalista", tante volte abbiamo sentito evocare negli ultimi vent’anni quella tra le democrazie e ancora più abusata è stata la solidarietà araba. Ma tra dittatori l’amicizia e l’appoggio fraterno hanno sempre avuto un corso molto limitato e, soprattutto, una validità che veniva immediatamente meno nei confronti di chi avesse avuto la sventura di cadere in disgrazia. Così non ci ha pensato su due volte, il presidente siriano Bachar el Assad, quando ha contato un po’ ingenuamente sul fatto che l’avvio del processo a Mubarak avrebbe distratto i media dal massacro che le forze armate siriane vanno compiendo per tutto il Paese. Proprio mentre le sue truppe stavano sottoponendo la città di Hama a un durissimo bombardamento, l’Onu pare essersi svegliata e aver adottato una "Dichiarazione" in cui si condannano "la violazione generalizzata dei diritti dell’uomo e l’uso della forza contro i civili da parte delle autorità siriane", ammonendo che "i responsabili delle violenze dovranno rispondere del loro operato".

È forse questa la parte più dura della Dichiarazione (cioè qualcosa di meno di una Risoluzione) che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (CdS) ha con estrema fatica adottato mercoledì scorso, la prima da quando in Siria hanno avuto inizio le proteste tanto sanguinosamente represse dal regime. In altri fondamentali passaggi, la Dichiarazione invita tutte le parti cessare le violenze e ad evitare ogni rappresaglia anche nei confronti delle istituzioni statali (leggasi i funzionari del Baath e gli appartenenti alle forze di sicurezza) e chiarisce che la ricerca della via di uscita ovrà essere politica e tutta interna alla Siria (ovvero esclude che essa possa preludere a una Risoluzione che autorizzi un intervento militare). "La montagna ha partorito il topolino", si potrebbe dire, visto gli oltre 1600 civili ammazzati (cui si aggiungono quasi 400 tra militari e poliziotti) in questi pochi mesi. Ma era impossibile andare realisticamente oltre, considerata l’opposizione ferrea di Cina e Russia (ma anche di Paesi come l’India) a un’ingerenza "eccessiva" negli affari interni di uno Stato sovrano. Comunque un passo che va nella direzione chiesta dagli insorti.

Le Nazioni Unite, una volta di più, si ritrovano ostaggio delle logiche dei "grandi". Quelli tradizionali (i cinque membri permanenti del CdS) e quelli nuovi, come l’India appunto. Per questi e per molti altri Paesi, la protezione dei diritti umani invocata a gran voce dagli occidentali, cozza con la più gelosa tutela della propria indipendenza, spesso riconquistata a durissimo prezzo proprio contro le potenze coloniali occidentali. L’Occidente peraltro non si sta mostrando eccessivamente proclive a mettere più pressione al regime di Assad, nei cui confronti le sanzioni fin qui adottate dalla Ue o dagli Usa sono estremamente blande e, quel che è peggio, "inasprite" con la cautela e la lentezza tipiche dei bradipi. Come abbiamo ricordato tante volte anche in passato, la vera carta che Assad ha in mano è la consapevolezza del ruolo regionale giocato dalla Siria, all’interno del mondo arabo e nel conflitto con Israele.

Tutti temono, in particolare, le conseguenze che un tracollo della Siria, per non parlare di un suo possibile frazionamento, potrebbe avere per gli equilibri del Medio Oriente. Di questi timori si è fatto interprete il governo del piccolo e tormentato Libano (oggi espressione di una coalizione guidata da Hezbollah), che non arrivando a bloccare l’adozione della Dichiarazione del CdS (che richiede un’approvazione all’unanimità) si è però dissociato immediatamente dopo. Nel frattempo Assad ha deciso di porre fine, per decreto, al monopolio quasi cinquantennale del partito Baath. Forse nel suo delirio di onnipotenza il dittatore si crede un novello Harry Potter, capace di mutare la realtà con un colpo della sua bacchetta magica. O forse, la sua era solo una "inaccettabile provocazione", come con il forbito linguaggio diplomatico il ministro degli Esteri francese Alain Juppé, ha dovuto rassegnarsi a chiamare quella che, a tutti gli effetti, è una "presa per i fondelli".

Ne vedremo ancora e non delle belle. Basta che tutti questi minuetti non ci distraggano dal fatto che in Siria alcuni uccidono senza scrupoli e altri muoiono senza colpa, ogni giorno, ormai da mesi.
Vittorio E. Parsi

http://www.avvenire.it/Commenti/Siria+il+massacro+quotidiano_201108050737260930000.htm

lunedì 11 luglio 2011

Perché Israele deve scegliere il negoziato

ABRAHAM B. YEHOSHUA

La campagna condotta da Israele contro l’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento di un proprio Stato all’Assemblea delle Nazioni Unite il prossimo settembre è a mio parere politicamente e moralmente scorretta e connessa alla questione del riconoscimento internazionale dei confini del 1967.

Permettetemi di riassumere brevemente una storia forse poco conosciuta alla maggior parte dei lettori italiani. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina.
E votò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico - Israele -, e uno arabo - la Palestina. L’area assegnata a questi due Paesi era più o meno la stessa. Lo Stato ebraico sarebbe stato costituito da circa 14 mila chilometri quadrati di territorio (per metà desertico) e quello palestinese da più o meno 13 mila.

I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo. Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale e all’interno dei quali il territorio di Israele si estende per 20.000 chilometri quadrati mentre quello della Palestina (Striscia di Gaza e Cisgiordania) per 7.000.

Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi: la Cisgiordania, allora sotto dominio giordano, e la Striscia di Gaza, in mano all’Egitto. Quest’ultima è ora governata dai palestinesi di Hamas mentre la Cisgiordania è ancora in mano israeliana. La decisione dell’Assemblea generale a settembre riguarderà sostanzialmente la questione territoriale del futuro Stato palestinese mentre, a quanto pare, non farà riferimento al ritorno dei profughi, alla smilitarizzazione, a Gerusalemme Est come capitale di tale Stato, e, naturalmente, al futuro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Temi che dovranno essere discussi nel corso di negoziati diretti.

Il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sancirà dunque la decisione presa dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 riguardo alla partizione della regione, sostenuta a suo tempo da Israele e alla base della sua legittimità internazionale. Se quindi il governo di Gerusalemme è sincero nel voler riconoscere uno Stato palestinese - come ha ripetutamente dichiarato - perché si oppone tanto alla prevista risoluzione di settembre? Penso che l’unica ragione sia il riferimento ai confini del 1967.

Il governo israeliano intende annettere parti della Cisgiordania, sia per via degli insediamenti lì presenti che per i vincoli storici con luoghi sacri agli ebrei. Dobbiamo però renderci conto che il territorio del futuro Stato palestinese (soltanto un quarto dell’intera regione) è il minimo di quanto spetta al suo popolo. E la tesi di Israele secondo la quale i confini del 1967 sarebbero indifendibili è problematica. È ovvio che lo Stato ebraico va assolutamente protetto da eventuali aggressioni ma tale protezione non sarà assicurata da insediamenti civili nel cuore della popolazione araba né dall’annessione.

Solo basi militari, israeliane e internazionali, lungo il Giordano, al confine orientale del futuro Stato, potranno fronteggiare eserciti arabi che vogliano introdursi in Palestina per attaccare lo Stato ebraico. E potrebbe anche essere necessario dislocare postazioni di sorveglianza internazionali e israeliane in punti strategici per garantire che le forze armate palestinesi non si armino con artiglieria pesante. Tutte queste misure non intaccherebbero l’identità nazionale palestinese (così come le basi militari straniere in Europa e in altre regioni durante la Guerra Fredda). Una presenza militare è sostanzialmente temporanea e un domani, mutate le circostanze, sarà possibile rimuoverla. Viceversa i civili israeliani in enclave all’interno dello Stato palestinese sarebbero una costante provocazione che rinfocolerebbe odio e dissenso.

L’eventualità di una folla di civili palestinesi, tra cui donne e bambini, che si riversano nelle strade di villaggi e città per manifestare in maniera non violenta (come avviene ultimamente in vari Paesi arabi) contro avamposti e insediamenti israeliani in Cisgiordania dopo la decisione dell’Onu a settembre mi inquieta molto. L’Anp saprebbe tenere a bada tali manifestazioni? E cosa farebbe Israele? Invierebbe l’esercito per reprimerle con la forza? E gli estremisti israeliani come reagirebbero a quelle proteste dinanzi alle loro case?
Un simile scenario potrà essere evitato se il governo di Israele sosterrà a settembre la risoluzione delle Nazioni Unite e avvierà subito negoziati diretti su tutte le questioni controverse, come lo ha esortato a fare il Presidente degli Stati Uniti.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8968&ID_sezione=&sezione=