domenica 27 giugno 2010

Peres: con gli Usa non ci siamo capiti

Shimon Peres

Il presidente israeliano: la responsabilità del blocco di Gaza ricade su Hamas

ED SANDERS
Mentre Israele si prepara ad allentare il blocco terrestre di Gaza - anche se il suo soldato Gilad Shalit resta prigioniero e Hamas è sempre al potere - molti israeliani si chiedono se l’embargo economico degli ultimi tre anni abbia ottenuto qualcosa di tangibile. Lo ha ottenuto? «Con quel blocco Israele voleva dire ai palestinesi che i razzi di Hamas contro di lei avrebbero fatto male a loro. Ma con due riserve: che non diventasse una punizione collettiva e non creasse una situazione disumana. Così abbiamo misurato ogni cosa. C’è acqua, c’è cibo, ci sono medicinali sufficienti? Ho letto resoconti sulla situazione a Gaza molto negativi. Eppure la gente era vestita correttamente, i mercati pieni di merci. C’era una contraddizione. Non è un caso che non ci sia stata una crisi umanitaria. Ci sentivamo responsabili. E’ Hamas che ha distrutto tutto. Questo lo si dimentica».

Ma le restrizioni israeliane sui beni civili e i rifornimenti sono servite a raggiungere gli obiettivi politici? «Non posso rispondere e non so neppure se sia importante. Avevamo sperato in qualcosa di più. Dopo il ritiro unilaterale da Gaza del 2005, avevamo sperato che una volta fuori dalla Striscia, ne saremmo stati fuori davvero. Non siamo riusciti a capire perché ci bombardassero. Siamo stati davvero sorpresi da quella reazione. Io continuo a non capire. Se chi governa Gaza smilitarizzasse Gaza e il terrorismo, non ci sarebbero problemi. Il destino è nelle loro mani».

Qualcuno teme che Israele stia entrando in una nuova stagione di isolamento internazionale. I suoi comportamenti le stanno facendo perdere amici? «Il fatto che degli estranei facciano pressione su di noi non significa che abbiano ragione. E’ in atto un tentativo di delegittimare Israele. E’ facile. Il blocco arabo ha una maggioranza strutturale alle Nazioni Unite. Non abbiamo mai avuto la minima chance. Io mi chiedo: se stanno delegittimando Israele, chi stanno legittimando? Legittimano anche Hezbollah, Hamas e Al Qaeda. Non è il loro obiettivo, ma se delegittimi la lotta al terrore, la conseguenza è che il terrore viene legittimato».

Non è una semplificazione eccessiva? Criticare le politiche e le pratiche di Israele equivale davvero a delegittimare Israele? «La critica è una cosa, ma se qualcuno dice: “Tornatevene in Polonia. Tornatevene in Germania”, questa non è una critica. Nemmeno se dice che Israele non ha il diritto di esistere».

Quelli sono come gli scoppi d’ira improvvisi. Non sono ciò che s’intende davvero quando si parla dell’isolamento di Israele. «Ma che cosa si vuole da noi? Abbiamo accettato la soluzione dei due Stati. Abbiamo accettato di allentare la situazione in Cisgiordania. Stiamo allentando la situazione a Gaza. Eppure ci sono ancora atti di terrorismo. I Paesi che devono combattere il terrorismo capiscono ciò che facciamo, quelli che si limitano a leggerne, no. Abbiamo una storia che non ha nessun altro. In 62 anni di vita siamo stati attaccati sette volte, e sempre per distruggerci».

Gli Stati Uniti vi sono sempre stati amici, ma ora il presidente Obama sembra ridefinire i termini di questa amicizia. Vi ha chiesto di bloccare la costruzione di nuovi insediamenti e ha firmato una risoluzione invitandovi a firmare il Trattato di non proliferazione nucleare, nonostante le vostre obiezioni. E’ un nuovo genere di amicizia? «L’amicizia fra Israele e America resta. Obama è stato abbastanza corretto da dire che su alcuni punti aveva capito male. E noi dovremmo fare la stessa cosa, su alcuni punti abbiamo capito male. Ma per essere amici non occorre essere d’accordo sempre e su tutto. La tensione è nata sul problema se costruire o no a Gerusalemme Est. Il primo ministro ha detto che costruiremo là dove lo abbiamo fatto per 44 anni, cioè dalla guerra del ’67, e non costruiremo dove da 44 anni non lo facciamo. Ci sono 21 sobborghi palestinesi dove non abbiamo mai costruito».

Washington si è opposto a quel progetto. Vale la pena di inimicarsi il più potente amico per costruire un parco a Gerusalemme Est? «Il sindaco di Gerusalemme ha detto che quello è un problema suo e ritiene di essere nel giusto. C’era un’intesa che di queste aree si discuterà nell’ambito degli accordi di pace. E noi ci stiamo comportando di conseguenza: costruiamo dove abbiamo già costruito».

Alcuni palestinesi hanno definito Gaza un enorme campo di concentramento. «Ma come? Abbiamo lasciato Gaza senza lasciare guardie. Ha mai sentito di un campo di concentramento da cui partano migliaia di razzi?».

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giovedì 24 giugno 2010

Mettere fine all'incubo di Gilad Shalit




ROMA - Per chiedere la liberazione di Gilad Shalit, rapito quattro anni fa, stanotte il Colosseo si oscurerà. Alla mezzanotte israeliana, le 23 in Italia, le luci del Colosseo verranno spente per chiedere l'immediata liberazione del soldato israeliano prigioniero di Hamas, rapito il 25 giugno 2006 in territorio israeliano.
La manifestazione, alla quale sarà presente il padre di Gilad, è promossa - si legge in un comunicato stampa - dalle associazioni giovanili Bnei Brit Giovani e UGEI (Unione Giovani Ebrei Italiani) per il loro coetaneo. Partecipano il sindaco Alemanno, la Comunità Ebraica di Roma e il Presidente della Comunità Ebraica, Riccardo Pacifici.
Gilad Shalit, il 25 giugno 2009, è stato nominato all'unanimità dal Consiglio comunale, cittadino onorario di Roma e la sua foto è stata esposta a Piazza del Campidoglio con la scritta: "Roma vuole il suo cittadino libero".
Il sindaco Alemanno e il presidente Pacifici, riguardo alla manifestazione al Colosseo, hanno dichiarato: "All'evento sono invitati tutti i cittadini. L'obiettivo è quello di unire le forze e sensibilizzare l'opinione pubblica per riportare Gilad a casa nonché per rilanciare il processo di pace in Medio Oriente"

domenica 13 giugno 2010

Ospedale israeliano salva la vita a un ragazzo palestinese

Di Larry Rich

All’ospedale Emek, in Israele, non importa se sei ebreo, cristiano o palestinese. Giovedì 3 giugno, tre giorni dopo il raid per fermare la flottiglia diretta a forzare il blocco anti-Hamas su Gaza, il quindicenne Muhammed Kalalwe stava lavorando nei campi della sua famiglia. Vivono a Jenin, una città palestinese nella Cisgiordania settentrionale, ai confini con la valle israeliana di Jezreel e la città di Afula. Quel giorno il ragazzo riconobbe una vipera dal morso mortale e cercò di ucciderla con un sasso, ma quello lo attaccò, mordendogli la mano destra. Ci furono urla e panico e, in pochi minuti, il padre del ragazzo, Hafed, afferrò il figlio e lo portò di corsa all’ospedale di Jenin. Lì, tuttavia, non erano attrezzati per curare il ragazzo, non disponendo di siero antivipera, e decisero di mandarlo in ambulanza all’Emek Medical Center di Afula, in Israele.
L’Emek, fondato 86 anni fa, è un ospedale comunitario che serve una popolazione culturalmente varia, divisa in parti uguali tra ebrei ed arabi israeliani. Vi opera uno staff medico misto di ebrei ed arabi,e la sua filosofia è quella della coesistenza attraverso la medicina.
In seguito Hafed ha raccontato che era davvero spaventato all’idea di essere portato all’Emek perché era certo che sarebbero stati ignorati e che nessuno avrebbe nemmeno rivolto loro la parola, ma la mano ed il braccio di suo figlio si erano gonfiati in modo impressionante e il dolore era diventato insopportabile.
La realtà umana dell’Emek ha colpito padre e figlio appena non appena si sentirono salutare in arabo e vennero portati di corsa al pronto soccorso dove lo staff multietnico dell’ospedale israeliano ha somministrato al ragazzo il siero anti-vipera, strappandolo all’ultimo momento alla morte.
Muhammed è poi rimasto due giorni nell’unità pediatrica di terapia intensiva e ora si trova nel dipartimento chirurgico pediatrico dell’Emek, da dove verrà dimesso nei prossimi giorni.
Ho chiesto al padre che cosa provasse, ora, nei confronti dell’ospedale Emek e degli israeliani con cui è venuto in contatto. “Il nostro popolo non sa la verità su di voi e la nostra medicina ha ancora molta strada da fare – mi ha detto – Mio figlio ed io non siamo gli stessi che eravamo prima che questo accadesse, e condivideremo questa esperienza con la famiglia e gli amici”.
Parlando, gesticolava alla classica maniera mediorientale, e quando ci siamo stretti la mano e ho fatto gli auguri ad entrambi, la stretta era ferma e sincera. Ho stretto molte mani simili e guardato in molti occhi palestinesi che hanno visto, qui all’ Emek Medical Center, una realtà che non si sarebbero mai aspettati di vedere.

(Da: israel21c, 09.06.10)
http://www.israele.net/sezione,,2863.htm

giovedì 10 giugno 2010

Come porre fine al blocco di Gaza

Da un editoriale del Jerusalem Post

Crescono le pressioni su Israele perché revochi il blocco sulla striscia di Gaza. Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, un risoluto sostenitore di Hamas, ha condizionato il mantenimento delle relazioni diplomatiche con Israele alla fine del cosiddetto assedio. Il primo ministro britannico David Cameron, enunciando la sua retorica anti-blocco in termini più amabili, ha suggerito a Israele “da amico” di porre fine al blocco giacché avrebbe in realtà rafforzato Hamas. (Due posizioni, per inciso, che si accordano molto fra loro.) E persino gli Stati Uniti, secondo il New York Times, potrebbero premere per la fine del blocco. Già nel giungo 2009 il presidente Barack Obama, nel suo famoso discorso al Cairo, sostenne che questa misura è devastante per le famiglie palestinesi senza servire agli interessi d’Israele.
In verità, Israele non ha alcun desiderio di mantenere il blocco. Nell’agosto 2005, con una mossa estremamente lacerante e controversa, Israele ritirò tutti i suoi militari e sradicò i suoi ottomila civili dalla striscia di Gaza. Purtroppo, anziché veder utilizzata la striscia di Gaza non più occupata come un primo passo verso la formazione di un futuro stato palestinese indipendente e responsabile, si avverarono i timori dei più scettici esperti di sicurezza israeliani.
Incoraggiate della convinzione che la violenza terroristica avesse costretto Israele a sgomberare da Gaza, e non più ostacolate dalla presenza delle Forze di Difesa israeliane su quel territorio, Hamas e altre organizzazioni islamiste estremiste aggirarono la carente sorveglianza egiziana sul Corridoio Philadelphia (lungo il confine col Sinai) introducendo nella striscia di Gaza centinaia di razzi Qassam e altre armi. Anche se la nave Karine A con il suo carico di armamenti iraniani venne intercettata nel gennaio 2002, altre navi cariche di armi ed esplosivi molto probabilmente sono riuscite a passare.
Nel giugno 2006, durante uno dei tanti attacchi contro i soldati israeliani di guardia al confine fra Israele e striscia di Gaza, Hamas sequestrò Gilad Shalit. Nel giugno 2007 Hamas strappò con la violenza il controllo della striscia di Gaza all’Autorità Palestinese guidata da Fatah, e diede poi la caccia ai sostenitori dell’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) andando ad eliminare senza pietà anche quelli feriti fin dentro gli ospedali.
Dentro Gaza, Hamas ha istituito un regime estremista islamista che discrimina i cristiani, fa la guerra agli stili di vita laici e promuove attivamente la misoginia, compresi gli omicidi d’onore. Fuori da Gaza, Hamas ha bombardato per mesi e mesi le località civili israeliane con migliaia di obici e razzi, andando a colpire a poco a poco sempre più in profondità nel territorio israeliano. Alla fine di dicembre 2008 (dopo che Hamas aveva rotto in anticipo una sorta di fragile tregua) Israele fu costretto a lanciare una campagna militare nella striscia di Gaza volta a rintracciare e distruggere i razzi e le officine improvvisate dove questi razzi vengono fabbricati.
Se Israele, sotto la pressione internazionale, sarà costretto a togliere il blocco su Gaza, il timore è che ne possa seguire in tempi brevissimi una nuova guerra. La convinzione di Hamas che il terrorismo paga ne uscirebbe infatti ulteriormente confermata. I terroristi di Hamas verrebbero in possesso di razzi e missili a gittata sempre più lunga, fino ad essere in grado di raggiungere la non lontana Tel Aviv o addirittura i sobborghi di Gerusalemme. In effetti, come ha avvertito questa settimana il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, sono già in possesso di alcune di queste armi.
In teoria Israele potrebbe annunciare che, di fronte alle critiche internazionali, ha deciso di trasferire ogni responsabilità sulla striscia di Gaza alla comunità internazionale stessa. In questo scenario, Israele procederebbe a chiudere completamente i valichi di passaggio fra Israele e striscia di Gaza: rifornimenti, medicinali e altri beni necessari dovrebbero esservi introdotti attraverso il confine con l’Egitto. E, in teoria, Israele non potrebbe più essere incolpato per la supposta “crisi umanitaria” nella striscia di Gaza.
Ma c’è il problema che l’Egitto, che da decenni si rifiuta di assumersi la responsabilità esclusiva di Gaza, non accetterebbe mai questo accomodamento. Un altro problema è che Israele non potrebbe mai contare sul fatto che forze internazionali si adoperino scrupolosamente per impedire il riarmo di Hamas. Il fallimento delle forze Unifil nell’impedire che Hezbollah riempisse di missili iraniani i suoi arsenali nel Libano meridionale è la dimostrazione che questo sistema semplicemente non funziona.
Un’altra opzione, più praticabile, è che Israele ricalibri la lista delle merci incluse nel blocco, specialmente le merci “dual-use” (cioè a doppio uso, sia civile che militare) come il cemento, che può servire per costruire sia edifici civili che bunker a prova di bomba. Già adesso un forum congiunto di organismi israeliani e internazionali si incontra ogni settimana per ridurre al minimo le strozzature e rispondere a singole richieste speciali. Forse, con la collaborazione dell’Egitto e di rispettate organizzazioni d’aiuto internazionali, si potrebbe trovare il modo di garantire che, se cose come il cemento debbono entrare a Gaza, si possa almeno controllare che vengano usate per scopi unicamente pacifici.
Ma, in ogni caso, l’unica vera soluzione per il blocco resta nelle mani della gente di Gaza. Israele ha messo in chiaro che l’assedio verrà tolto non appena la dirigenza politica di Gaza accetterà di riconoscere l’esistenza dello stato ebraico, abbandonare la violenza, rilasciare l’ostaggio Shalit e sottoscrivere gli accordi di pace già firmati in passato fra Israele e Autorità Palestinese (che sono poi le richieste del Quartetto Usa, Ue, Russia, Onu).
Israele non è in guerra con i palestinesi che vivono nella striscia di Gaza, ma con il regime estremista che la controlla e che si adopera attivamente per distruggere ogni presenza di uno stato ebraico. Chi è veramente interessato a portare la pace ed alleviare gli affanni degli abitanti di Gaza dovrebbe puntare a questi obiettivi non tanto facendo pressione su Israele affinché smetta di difendersi, bensì adoperandosi per convincere i palestinesi di Gaza che la via imboccata da Hamas è un vicolo cieco.

(Da: Jerusalem Post, 6.4.10)
http://www.israele.net/articolo,2848.htm

mercoledì 2 giugno 2010

Il “pacifismo” turco

di Noemi Cabitza

A quanto pare la Turchia islamica di Recep Tayyip Erdogan ha assunto la leadership del movimento “pacifista” filo Hamas. No, non è un errore di battitura il mio, non ho sbagliato a scrivere Hamas al posto di “palestinese”. C’è molta differenza tra l’essere filo Hamas e l’essere filo palestinese. E non ho nemmeno sbagliato a mettere la parola pacifista tra il virgolettato, perché adesso vedremo quanto è “pacifista” la Turchia.

La Freedom Flotilla e la Ong IHH – “piccola flotta della libertà” questo significa Freedom Flotilla, un nome che prende in prestito due termini di lingue differenti: freedom dall’inglese e flotilla dallo spagnolo. Senza dubbio un nome suggestivo che evoca epiche lotte per la libertà. In effetti c’è ben poco di pacifista in questo nome ideato dalla Ong turca IHH. Già ieri Miriam Bolaffi nel suo articolo aveva dato una piccola descrizione di questa controversa Ong turca che amministra milioni di dollari e sostiene apertamente la Jihad globale, che da anni sostiene finanziariamente Hamas e altre organizzazioni islamiche legate ai Fratelli Musulmani. Negli anni scorsi, prima dell’avvento di Erdogan, la IHH veniva tollerata dal Governo turco, ma dall’ascesa al potere di Erdogan con il conseguente cambio di rotta islamista della Turchia, la IHH ha assunto sempre più potere all’interno della Turchia. Il Governo turco ha iniziato a finanziarla e, soprattutto, ad usarla. Molto facile usare il paravento di una “organizzazione umanitaria” per condurre una politica aggressiva volta principalmente al potenziamento della linea islamica voluta da Erdogan, una linea che si discosta completamente da quella laica portata avanti dalla Turchia fino qualche anno fa e voluta dal suo padre fondatore, Mustafa Kemal Atatürk. Uno degli scopi principali della IHH è sempre stato quello di sostenere Hamas e in questo il Governo di Erdogan l’ha senza dubbio favorita elargendole diversi milioni di dollari e conducendo una politica estera che gradualmente ha assunto nette posizioni anti-israeliane e filo Hamas. La politica estera implementata dal Governo turco negli ultimi mesi è stata tutta volta a rafforzare i legami con i maggiori nemici di Israele: Siria, Iran ed Hamas. In particolare con l’Iran (ma lo vedremo in seguito) il rapporto si è fatto molto forte. In questo contesto nasce l’idea della Freedom Flotilla, una specie di ariete per scardinare il legittimo blocco imposto da Israele ed Egitto sulla Striscia di Gaza e su Hamas. Paradossalmente, nei fatti accaduti i giorni scorsi, una delle principali vittime è proprio l’Egitto, costretto a riaprire i valichi con Gaza per sedare preventivamente le prevedibili manifestazioni dei Fratelli Musulmani, molto forti in Egitto. La Freedom Flotilla è stata quindi una vera e propria arma politica contro Israele ed Egitto a favore di Hamas e dei suoi padri putativi, quei Fratelli Musulmani ancora così potenti all’interno dell’Egitto, specie in un momento pre-elettorale come questo. Niente di umanitario quindi.

Il patto con gli Ayatollah iraniani – Alla fine del 2008 viene siglato un accordo di collaborazione militare tra Turchia e Iran che all’apparenza riguarda solo il territorio del Kurdistan (quello turco e quello iraniano). Al patto aderirà nel 2009 anche la Siria. L’accordo prevede una collaborazione militare volta a contrastare i gruppi di resistenti kurdi presenti nelle regioni dei rispettivi stati, cioè il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) in Turchia, e il PJAK (Partito per la Libertà del Kurdistan) in Iran e in Siria. In realtà l’accordo prevede ben altre cose, tra le quali la deportazione dei dissidenti (Kurdi e non) di uno qualsiasi dei tre Paesi arrestati durante il transito in uno dei Paesi firmatari. Questa parte dell’accordo ha riguardato in particolare la Turchia e l’Iran, specie negli ultimi mesi. Sono infatti centinaia i dissidenti iraniani arrestati in Turchia e poi deportati in Iran. La dissidenza iraniana ha calcolato che siano circa 800 i dissidenti iraniani arrestati dalla turchia mentre cercavano di raggiungere l’Europa per sfuggire alla repressione degli Ayatollah seguita al colpo di stato dello scorso anno. Di questi almeno 300 sono ancora detenuti nelle carceri turche in attesa di essere deportati in Iran. Secondo Protocollo ha notizie certe di almeno 60 dissidenti iraniani incarcerati attualmente nel carcere di massima sicurezza di Buca Kiriklar a Izmir. L’accordo di collaborazione politico-militare tra Turchia e Iran è solo il primo tassello di quello che diventerà poi un vero e proprio mosaico di interessi militari e politici in Medio Oriente, interessi che giocoforza si scontrano con quelli israeliani ed egiziani e che calpestano apertamente ogni tipo di Diritto Umano.

Il Kurdistan – Da quando Erdogan è salito al potere si è intensificata la repressione contro il popolo kurdo e contro i gruppi di resistenza kurdi. La legge varata nel 2009 che aboliva quella varata da Atatürk che vietava di parlare in lingua kurda (pena l’arresto e una lunga detenzione) non è mai stata applicata. In Kurdistan la polizia turca continua a incarcerare la popolazione beccata a parlare in kurdo. L’aviazione turca bombarda periodicamente i villaggi kurdi dove ritiene si nascondano i guerriglieri del PKK con centinaia di vittime civili. Ma di questo in occidente non se ne parla se non in alcuni siti specializzati gestiti da dissidenti kurdi. Diverse volte l’esercito e l’aviazione turca sono entrati in territorio iracheno per compiere i loro massacri, il tutto senza che nessuno interferisse nonostante le reiterate proteste del Governo della regione Kurda dell’Iraq. Anche in questo caso centinaia di civili iracheni hanno perso la vita. Non c’è che dire, un Paese pacifista la Turchia.

Avanzata dell’Islam estremista – Da quando Recep Tayyip Erdogan è salito al potere la Turchia ha visto il progressivo avanzare dell’Islam più integralista. I Diritti delle donne sono notevolmente regrediti. I casi di violenza legati alle usanze islamiche si sono moltiplicati come i casi di intolleranza religiosa, il tutto nella sostanziale immobilità (quando non compiacenza) del Governo turco. Moltiplicati anche i casi di matrimoni imposti tra adulti e bambine non consenzienti. Non stupisce quindi l’amore turco verso Hamas, notoriamente ben predisposto a questo tipo di matrimoni.

Questo è, molto in sintesi, il “pacifismo” turco. A dire il vero ce ne sarebbero di cose da scrivere, ma è quasi impossibile farlo in un singolo articolo, per cui vedremo di redigere un dettagliato rapporto. Un fatto è certo: se l’Europa vedeva nella Turchia un ponte verso l’islam e per questo voleva (e vuole) il suo ingresso nell’Unione Europea, si sbaglia di grosso. L’unico ponte che può rappresentare l’attuale Turchia è quello verso l’estremismo islamico che, con le frontiere aperte, avrebbe facilmente accesso alle nostre città. I fatti legati alla Freedom Flotilla dimostrano inequivocabilmente la deriva estremista presa dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Secondo Protocollo sta lavorando affinché l’Europa e le Nazioni Unite accertino con chiarezza il ruolo di Ankara in tutta questa faccenda, un ruolo esclusivamente politico e non, come si vuol far intendere, “umanitario” o “pacifista”.

fonte: http://www.secondoprotocollo.org/?p=1058