giovedì 12 febbraio 2009

Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 28 settembre 1993


Tratto dal libro “Il Nuovo Medio Oriente” di Shimon Peres e Arye Naor, edizione in italiano Morano editore, pagg. 211-217

Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 28 settembre 1993

Signor Presidente,
Ci congratuliamo per la sua elezione unanime alla direzione della 48° Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Siamo persuasi che sia giunto il momento per tutti noi – comunità, nazioni, popoli e famiglie – di posare l’ultima corona di fiori sulle tombe dei

combattenti caduti e i suoi monumenti dei nostri cari. Questo è il modo giusto di onorare la loro memoria e dare una risposta alle domande di quelli

che verranno. Dobbiamo gettare le basi per un nuovo Medio Oriente.
L’accordo di pace tra noi ed i palestinesi non è solo un’intesa firmata da leader politici. E’ un impegno importante e progressivo nei confronti della

generazione futura – di arabi ed israeliani, cristiani, musulmani ed ebrei. Sappiamo che non è sufficiente dichiarare la fine della guerra. Dobbiamo

cercare di estirpare le radici di tutte le ostilità.
Se eliminiamo solo la violenza, ma ignoriamo la miseria, potremmo scoprire di aver barattato una minaccia per un altro pericolo.
Le dispute territoriali possono costituire motivo di guerra tra le nazioni. Ma anche la miseria può costruire un nuovo seme di violenza tra i popoli.

Mentre firmavo i documenti sul prato della Casa Bianca, potevo respirare la brezza di una primavera fresca, e la mia fantasia ha cominciato a vagare

nei cieli della nostra terra, cieli che potevano diventare più luminosi agli occhi della gente, favorevole o meno che fosse all’accordo. Su quel prato era

possibile udire il rumore pesante di stivali che si allontanavano dopo centinaia di anni di ostilità; al loro posto era possibile sentire l’avvicinarsi di

passi leggeri ed in punta di piedi, in attesa di un mondo pacifico.
Eppure non si può perdere di vista la realtà. So che la soluzione al problema palestinese costituisce la chiave per un nuovo inizio. Ma non è in alcun

modo la soluzione alle molteplici necessità che attendono una risposta al nostro ritorno in patria.
Nel corso dell’ultimo decennio abbiamo assistito a grandi cambiamenti: la fine del confronto Est-Ovest che contribuisce alla progressiva scomparsa

della polarizzazione Nord-Sud; l’introduzione di proprie dinamiche economiche da parte del vasto continente asiatico e del pittoresco continente

sudamericano; i drammatici eventi prodottisi in Sudafrica. Pertanto, contrariamente a tutte le teorie, è stato dimostrato che né la geografia, né la

razza costituiscono un impedimento o uno svantaggio per la realizzazione di promesse economiche.
Assistiamo alla fine di alcuni conflitti, solo per scoprire che coloro che hanno lottato non hanno raggiunto la loro terra promessa. Alcune popolazioni

soggette a colonizzazione hanno ottenuto l’indipendenza, ma ne hanno raramente goduto i frutti. I pericoli possono essere terminati, ma le speranze

di questi popoli si sono volatilizzate. Abbiamo imparato che la fine di una guerra costituisce un nuovo inizio, che mette fine alla belligeranza e ai

pregiudizi psicologici.
Nessuna Nazione, ricca o povera, è oggi capace di garantire la propria sicurezza, a meno che l’intera regione in cui vive la sua popolazione diventi

sicura. Lo scopo della sicurezza regionale deve andare oltre la gittata dei missili balistici, che potrebbero colpire ognuno di noi. Ci stiamo adoperando

per raggiungere una pace totale. Nessuna ferita deve restare aperta.
Dal punto di vista geografico, viviamo fianco a fianco con il regno di Giordania, e ciò che è così ovvio geograficamente deve diventare chiaro

politicamente. Abbiamo già concordato con il regno hascemita diverse questioni complesse e non ci sono dubbi che potremo risolverne altre, nonché

garantire una pace globale alle popolazioni di entrambe le sponde del fiume. Il Mar Morto può rappresentare la primavera di una nuova vita. Le

antiche acque del fiume Giordano possono essere fonte di una prosperità che scorre da una riva all’altra.
La nuova speranza – in realtà, la nostra determinazione – è quella di concludere la pace con la Siria. Tuttavia, abbiamo chiesto alla leadership

siriana perché, se ha scelto la pace, rifiuta di incontrarci apertamente. Se la Siria intende ottenere i medesimi risultati di pace conseguiti dall’Egitto,

essa deve seguire lo stesso percorso. I nostri due popoli devono guardare avanti e capire che le minacce di guerra non sono altro che l’illusione di

poter tornare ad un passato insostenibile.
Non dobbiamo abbandonare i negoziati con i nostri vicini libanesi. Per quanto riguarda il Libano, non abbiamo alcuna rivendicazione territoriale, né

pretese politiche. Preghiamo, insieme a molti libanesi, che il loro Paese non sia più teatro di istigatori al disordine. Il Libano deve operare una scelta

tra gli Hezbollah, che agiscono da questo Paese e ricevono ordini da un altro, oppure dotarsi di un esercito, di una polizia, e offrire concretamente

tranquillità al suo popolo e sicurezza ai suoi vicini. Il Libano non ha bisogno di un’autorizzazione per riottenere la propria indipendenza e non può più

rinviare il suo ritorno ad una politica di equilibrio.
Signor Presidente, non sono sicuro che vi sia un nuovo ordine nel mondo, ma tutti sentiamo che vi è un nuovo mondo in attesa di ordine.
Siamo incoraggiati dal nuovo tentativo delle Nazioni Unite di dare una risposta all’appello sociale ed economico dell’attuale epoca. Le Nazioni Unite

sono state create quale risposta politica. Oggi, esse devono far fronte ad impegni sociali ed economici. Il Medio Orient, che è stato spesso all’ordine

del giorno nella storia della Nazioni Unite, deve prosperare e non solo rimanere in pace. Per costruire un moderno Medio Oriente abbiamo bisogno

di saggezza non meno che di sostegno finanziario.
Dobbiamo liberarci dalle costose follie del passato ed adottare i principi della moderna economia. Chi pagherà – o dovrebbe sostenere – i costi di

una corsa agli armamenti che ha raggiunto il livello di 60 miliardi di dollari all’anno, l’inefficienza dei vecchi sistemi, la vecchia censura sulla posta, il

commercio ed i trasferimenti? E chi vorrebbe avere relazioni con uno Stato in cui il sospetto influenza lo spirito imprenditoriale della gente?
Possiamo e dobbiamo concretizzare le premesse di sviluppo scientifico, di economia di mercato e di educazione generale. Dobbiamo basare

l’industria, l’agricoltura, i servizi del nostro Paese sulle alte tecnologie moderne. Dobbiamo fare investimenti nel settore scolastico. Israele, Paese di

immigrazione, ha la fortuna di avere tra la sua gente molti scienziati ed ingegneri. Dobbiamo fare di questa ricchezza un contributo accessibile.
So che quando ci si riferisce al mercato comune in Medio Oriente, o si prende in considerazione un contributo israeliano, sorgono sospetti e si

ipotizza il tentativo di cercare di ottenere preferenze o di stabilire un certo dominio. Vorrei dire, in tutta franchezza e serietà, che non abbiamo

abbandonato il controllo territoriale per impegnarci in una egemonia economica. L’era del dominio – politico o economico – è morta. Inizia il tempo

della cooperazione. In quanto ebreo, vorrei dire che la virtù e l’essenza della nostra storia, fin dai tempi di Abramo e dei Comandamenti di Mosè, è

sempre stata caratterizzata da una tenace opposizione a qualunque forma di occupazione, egemonia e discriminazione. Per noi, Israele non è solo

una patria dal punto di vista territoriale, ma anche un impegno morale permanente. Vi sono altre questioni concernenti l’edificazione di un mercato

comune in Medio Oriente. Come è possibile realizzarlo se Governi ed economie sono così diversi? Tale diversità non dovrebbero impedirci di

costruire insieme ciò che può essere fatto insieme, lottando contro il deserto ed offrendo fertilità ad una terra arida. La FAO ha dichiarato che, nei

prossimi venticinque anni, il Medio Oriente dovrà raddoppiare la sua produzione agricola. Tuttavia, nello stesso periodo di tempo raddoppierà

anche la popolazione della regione. Quest’area è divisa da numerosi e vasti deserti, e le sue risorse idriche sono scarse ed insufficienti. Ad ogni modo

sappiamo che nel corso di un tale lasso di tempo – i venticinque anni trascorsi dal 1950 al 1975 -, Israele è stato in grado di moltiplicare per 12 la

sua produzione agricola. Negli ultimi 10 anni, il 95 per cento dell’incremento della nostra agricoltura è stato il risultato di ricerche, pianificazione,

formazione professionale ed organizzazione.
L’alta tecnologia permette alle Nazioni di ottenere una reale indipendenza e di godere di autentica libertà politica ed economica. La carenza di acqua

nella nostra Regione non è affatto una novità. Giacobbe ed Esaù hanno bevuto dalla stesa fonte, anche quando le loro strade erano separate. Ma a

quell’epoca, a differenza di oggi, non potevano destalinizzare le acque del mare, computerizzare l’irrigazione o sfruttare il potenziale della

biotecnologia. Siamo di nuovo di fronte ad un’opportunità completamente diversa. L’azione di rendere fertile la terra può essere accompagnata dalla

creazione di nuovi posti di lavoro per molte persone in Medio Oriente. L’occasione più promettente può essere lo sviluppo del turismo. Nessun altro

settore dell’industria moderna assicura una crescita immediata del Medio Oriente come quest’ultimo.
La nostra Regione gode di tesori naturali e storici, una storia che è ancora viva: l’eternità di Gerusalemme, la magnificenza delle Piramidi, i simboli

di Luxor, i Giardini pensili di Babilonia, i Pilastri della Saggezza a Baalbek, i pilastri rossi di Petra, l’inimitabile fascino di Marrakesh, gli antichi venti

che soffiano ancora a Cartagine , senza trascurare le spiagge di Gaza ed il profumo dei frutti di Gerico.
Dobbiamo aprire strade ai viandanti ed offrire loro sicurezza ed ospitalità. Il turismo dipende dalla tranquilla e l’accresce. Rende l’amicizia un

interesse sacro. Dobbiamo costruire un’infrastruttura tramite strumenti moderni al fine di allontanare gli abissi del passato. Trasporti moderni e

sistemi di comunicazione rivoluzionari – che attraversano i cieli, coprono le vie terrestri e collegano i mari – trasformeranno la vicinanza geografica

in vantaggio economico. Non dovremmo chiedere ai contribuenti di altri Paesi di finanziare le nostre follie; siamo noi che dobbiamo correggerle. Non

abbiamo il diritto morale di chiedere il finanziamento di guerre inutili o di sistemi dispendiosi. Se i colpi del martello sostituiranno il fragore delle

armi, molti Paesi saranno più che ben disposti a prestare il loro aiuto ed investiranno in un futuro migliore. Daranno il loro contributo per sostituire

allo scontro ingiustificato una competizione economica molto più sottile. I mercati possono rispondere alle necessità dei popoli non meno di quanto le

bandiere possano segnare i loro destini. E’ giunto il momento di costruire un Medio Oriente per la gente e non solo per i governanti.
Signor Presidente, non è stato facile aprire porte che erano serrate alla pace. In nome di Dio, non lasciate che si chiudano di nuovo, cosicché la pace

possa essere completa, riguardare tutte le questioni, tutti i Paesi e tutte le generazioni. Propongo di procedere tutti ai negoziati su un piano di

parità. Offriamo un terreno comune, costituito da rispetto e compromessi reciproci. Sono passati tredici anni da quando abbiamo avviato rapporti di

pace con l’Egitto. Siamo grati a questo Paese ed al suo Presidente per aver approfondito la comprensione, manifestamente o meno. In un mondo

caratterizzato da molteplici problemi insolubili, i palestinesi e gli israeliani hanno finalmente dimostrato che, in realtà, non vi sono questioni prive di

soluzioni. Abbiamo realizzato un accordo su una delle questioni più complesse degli ultimi cent’anni. Siamo grati agli Stati Uniti per il loro supporto e

per la loro guida, al presidente Clinton ed al segretario di Stato Christopher per il loro ruolo rilevante . Abbiamo apprezzato il ruolo svolto dall’Egitto

e l’incoraggiamento dato dalla Norvegia, il contributo europeo ed il favore asiatico. Forse, ora dovremmo dire agli altri popoli in conflitto: “Non

arrendetevi. Non cedete alle vecchie ossessioni e non manifestate nuovi malcontenti in modo precipitoso”. Ciò che abbiamo fatto noi lo possono fare

anche gli altri.
Signor Presidente, siamo determinati a fare questo accordo con i palestinesi un successo permanente. Israele considererà il successo economico dei

palestinesi come fosse proprio; e ritengo che una nuova sicurezza risponderà alle aspirazioni degli israeliani ed alle necessità dei palestinesi. Gaza,

dopo settemila anni di sofferenza, può emanciparsi dal bisogno. Gerico, dopo il crollo delle mura, può finalmente vedere fiorire di nuovo i suoi

giardini.
Al volgere del XX secolo, abbiamo appreso dagli USA e dalla Russia che non vi sono risposte militari ai nuovi pericoli militari, ma solo soluzioni

politiche. Le economie vincenti non sono più monopolio dei ricchi e dei benestanti. Esse rappresentano un chiaro invito ad ogni Paese pronto ad

adottare la combinazione di scienza ed apertura mentale. Assistiamo alla fine di questo secolo ad un fenomeno per cui la politica può ottenere molto

di più tramite la cordialità, che tramite il potere; e che la generazione dei giovani che guarda la televisione confronterà il proprio destino con le

fortune e sfortune degli altri. Vedrà la libertà, osserverà la pace e la prosperità in tempo reale. Saprà di poter ottenere di più, lavorando più

duramente. Se vogliamo rappresentare le loro speranze, dobbiamo combinare politiche sagge e sicurezza regionale con le economie di mercato. Da

un punto di vista storico siamo nati tutti uguali, e su un piano di uguaglianza possiamo dare vita ad una nuova era.
“Osservate, verrà il giorno in cui” dice il Signore “il contadino lascerà la zappa e la pigiatura dell’uva e non dovrà gettare i semi, e le montagne

verseranno vino dolce e tutte le colline daranno frutto” (Amos 9: 13)

martedì 10 febbraio 2009

Intervista al Primo Ministro Palestinese Salam Fayyad


Riporto un’ interessante intervista, apparsa su Famiglia Cristiana n 6/2009 a firma de giornalista Fulvio Scaglione, a Salam Fayyad premier dell’ANP. Emerge dalle parole del premier la giusta visione che solo la politica, i negoziati e l’implementazione degli stessi porteranno alla giusta soluzione di due popoli per due Stati.


Intervista al Primo Ministro Palestinese Salam Fayyad

“Basta con la violenza da entrambe le parti”

I razzi di Hamas sono inaccettabili e la reazione di Israele è sproporzionata: “Ma dobbiamo risorgere dalle ceneri”.

Ramallah

Forse solo uno che si è occupato di problemi planetari alla Banca mondiale (1985- 1995) e al Fondo monetario internazionale (1996-2001) poteva ritrovarsi a gestire uno Stato che non c’è. Salam Fayyad è dal 2007 primo ministro dell’Autorità palestinese. Dicono che abbia messo un argine ai mille rivoli che dissestavano, in dollari, la burocrazia di qui. Intanto, mi riceve con puntualità svizzera, in un ufficio dall’ordine teutonico. Gaza sembra lontana ed è invece vicinissima.

Signor primo ministro, che cosa c’è nei suoi pensieri in queste settimane?

“Tristezza. Il numero dei morti e l’ampiezza delle distruzioni sono senza precedenti , il mondo intero se n’è reso conto. Con il passare dei giorni, però dietro lo shock si affaccia un pensiero più inquietante: che sarà dei sopravvissuti? E i giovani, come reagiranno? Credo che i fatti di Gaza resteranno a lungo impressi nelle loro menti, e non senza conseguenze. E’ una grande preoccupazione per il futuro”.

Le proteste, le trattative, l’inviato di Obama che viene e va, gli aiuti per la Striscia di Gaza. Riesce ancora a governare?

“Certo che sì. Alcune cose sono troppo importanti, meritano comunque la precedenza: una maggiore coinvolgimento degli Usa, per esempio, è da ricercare con forza. Ma c’è molto più di questo nel mio lavoro. L’anno scorso ho convocato un convegno mondiale di imprenditori, per stimolare le attività economiche in Palestina. Lo slogan era: “C’è un party a Betlemme, siete tutti invitati”. Molti qui mugugnavano : “Ma come, c’è l’occupazione, il Muro, e tu parli di party…”. Però nella serata finale 1.300 persone mangiavano insieme , davanti alla basilica della Natività, allegre e serene”.

Sospetto che ci sia una morale?

“Eccola: risorgiamo dalle ceneri. Come possiamo superare una crisi come quella di Gaza se non trasformiamo tristezza e rabbia in energia e speranza? Non metteremo fine all’occupazione da parte di Israele sentendoci miserabili. E non arriveremo mai a uno Stato autonomo, che viva in pace con tutti i vicini, Israele incluso, inserito nella comunità mondiale, tollerante, aperto, se non crediamo nelle nostre possibilità”.

Una bella serata in piazza , però, non fa Stato…

“Ovvio. Lì c’era il simbolo. Nella realtà quotidiana bisogna scegliere la concretezza al posto dei discorsi o , peggio,delle avventure. Bisogna cambiare le cose sul terreno, in senso letterale: la prima condizione per far finire l’occupazione è che la nostra gente resti sulla terra, e per farla restare devi aiutarla a vivere meglio. Un Governo onesto, ospedali, linee elettriche, asili, scuole, ecco le cose che ci daranno un futuro”.

Ancor più frustante, quindi, vedere le macerie di Gaza. Là, inoltre, gli uomini fedeli al presidente Abu Mazen e al suo Governo se la stanno vedendo piuttosto brutta…

“E’ pazzesco . Ma c’è una lezione anche qui. Il nostro compito è fare l’opposto di ciò che ci ha portati a tutto questo. Distruggono? E noi ricostruiamo. Sparano? Rinunciamo alla violenza. Non si parlano? Parliamo con tutti . Solo così arriveremo a far capire che il problema è l’occupazione israeliana, punto. E non “l’occupazione israeliana, ma…”


Nella crisi di Gaza, però, ci sono alcuni dati certi. Uno è che c’era una tregua e Hamas l’ha denunciata, sparando poi centinaia di missili…

“La violenza di Hamas contro Israele è inaccettabile e ingiustificabile. In più, l’ho detto prima e lo ripeto, i palestinesi otterranno il loro scopo solo se i metodi saranno non violenti. Proprio per questo, però, dico che la reazione sproporzionata di Israele non solo non risolve il problema ma lo aggrava. Guardiamo a quel che è successo finora. Da ani un milione e mezzo di palestinesi vive a Gaza come una prigione. Questo ha forse contribuito a ridurre la violenza? No, la strategia israeliana ha provocato ancor più rabbia. E ha dato ai palestinesi di Gaza la sensazione di non aver nulla da perdere. Bisogna fare l’opposto: dare alla gente qualcosa da perdere per spingerla a scegliere la pace”.

Dal 2007 l’Autorità palestinese ha perso il controllo di Gaza. Una fetta non piccola del budget del suo Governo, però, va ancora alla Striscia…

“Là c’è la nostra gente . Hamas passerà, loro restano e noi dobbiamo aiutarli. Per questo ogni mese spendiamo a Gaza 120 milioni di dollari”.

E’ sicuro che tutti questi soldi non finiscono a Hamas?

“Abbiamo dei meccanismi di garanzia. Uno è far gestire gli interventi a organizzazioni di fiducia. E poi la Striscia ha esigenze particolari: per esempio, il 65 per cento dell’elettricità le arriva da Israele, il 25 dall’Egitto e solo il 10 è prodotto lì. Noi paghiamo i fornitori”.

Ancora l’estate scorsa molti pensavano che un accordo con Israele fosse possibile. Sono successi fatti gravi e tutto è cambiato. Le chiedo solo: si era davvero vicini?

“Devo deluderla . No, non ho mai pensato che fossimo vicini a un accordo. Il Governo uscente di Israele ha fatto molti bei discorsi diplomatici ma, come le devo, a me interessa ciò che avviene sul terreno. E lì ci sono stati più insediamenti e più posti di blocco, a dispetto di quanto era stato stabilito e ribadito ad Annapolis. Il problema è che la pace sia fa solo tra uguali. E noi questa uguale dignità dobbiamo ancora vedercela riconosciuta”.