lunedì 11 luglio 2011

Perché Israele deve scegliere il negoziato

ABRAHAM B. YEHOSHUA

La campagna condotta da Israele contro l’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento di un proprio Stato all’Assemblea delle Nazioni Unite il prossimo settembre è a mio parere politicamente e moralmente scorretta e connessa alla questione del riconoscimento internazionale dei confini del 1967.

Permettetemi di riassumere brevemente una storia forse poco conosciuta alla maggior parte dei lettori italiani. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina.
E votò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico - Israele -, e uno arabo - la Palestina. L’area assegnata a questi due Paesi era più o meno la stessa. Lo Stato ebraico sarebbe stato costituito da circa 14 mila chilometri quadrati di territorio (per metà desertico) e quello palestinese da più o meno 13 mila.

I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo. Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale e all’interno dei quali il territorio di Israele si estende per 20.000 chilometri quadrati mentre quello della Palestina (Striscia di Gaza e Cisgiordania) per 7.000.

Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi: la Cisgiordania, allora sotto dominio giordano, e la Striscia di Gaza, in mano all’Egitto. Quest’ultima è ora governata dai palestinesi di Hamas mentre la Cisgiordania è ancora in mano israeliana. La decisione dell’Assemblea generale a settembre riguarderà sostanzialmente la questione territoriale del futuro Stato palestinese mentre, a quanto pare, non farà riferimento al ritorno dei profughi, alla smilitarizzazione, a Gerusalemme Est come capitale di tale Stato, e, naturalmente, al futuro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Temi che dovranno essere discussi nel corso di negoziati diretti.

Il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sancirà dunque la decisione presa dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 riguardo alla partizione della regione, sostenuta a suo tempo da Israele e alla base della sua legittimità internazionale. Se quindi il governo di Gerusalemme è sincero nel voler riconoscere uno Stato palestinese - come ha ripetutamente dichiarato - perché si oppone tanto alla prevista risoluzione di settembre? Penso che l’unica ragione sia il riferimento ai confini del 1967.

Il governo israeliano intende annettere parti della Cisgiordania, sia per via degli insediamenti lì presenti che per i vincoli storici con luoghi sacri agli ebrei. Dobbiamo però renderci conto che il territorio del futuro Stato palestinese (soltanto un quarto dell’intera regione) è il minimo di quanto spetta al suo popolo. E la tesi di Israele secondo la quale i confini del 1967 sarebbero indifendibili è problematica. È ovvio che lo Stato ebraico va assolutamente protetto da eventuali aggressioni ma tale protezione non sarà assicurata da insediamenti civili nel cuore della popolazione araba né dall’annessione.

Solo basi militari, israeliane e internazionali, lungo il Giordano, al confine orientale del futuro Stato, potranno fronteggiare eserciti arabi che vogliano introdursi in Palestina per attaccare lo Stato ebraico. E potrebbe anche essere necessario dislocare postazioni di sorveglianza internazionali e israeliane in punti strategici per garantire che le forze armate palestinesi non si armino con artiglieria pesante. Tutte queste misure non intaccherebbero l’identità nazionale palestinese (così come le basi militari straniere in Europa e in altre regioni durante la Guerra Fredda). Una presenza militare è sostanzialmente temporanea e un domani, mutate le circostanze, sarà possibile rimuoverla. Viceversa i civili israeliani in enclave all’interno dello Stato palestinese sarebbero una costante provocazione che rinfocolerebbe odio e dissenso.

L’eventualità di una folla di civili palestinesi, tra cui donne e bambini, che si riversano nelle strade di villaggi e città per manifestare in maniera non violenta (come avviene ultimamente in vari Paesi arabi) contro avamposti e insediamenti israeliani in Cisgiordania dopo la decisione dell’Onu a settembre mi inquieta molto. L’Anp saprebbe tenere a bada tali manifestazioni? E cosa farebbe Israele? Invierebbe l’esercito per reprimerle con la forza? E gli estremisti israeliani come reagirebbero a quelle proteste dinanzi alle loro case?
Un simile scenario potrà essere evitato se il governo di Israele sosterrà a settembre la risoluzione delle Nazioni Unite e avvierà subito negoziati diretti su tutte le questioni controverse, come lo ha esortato a fare il Presidente degli Stati Uniti.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8968&ID_sezione=&sezione=

venerdì 1 luglio 2011

Omicidio Hariri, quattro mandati di cattura I media:"Sono membri di Hezbollah"

La procura ha 30 giorni per eseguire gli arresti. Il movimento sciita, al governo con 19 ministri, è anche maggioranza in Parlamento. Il premier: "Agiremo con responsabilità"

BEIRUT - E' arrivato alla svolta uno dei casi più oscuri della recente storia mediorientale. La procura generale del Libano ha ricevuto dall'Onu l'atto di accusa del tribunale internazionale messo in piedi per trovare i responsabili dell'omicidio di Rafik Hariri, l'ex primo ministro del Paese dei Cedri ucciso in un attentato nel 2005. I mandati, riferiscono fonti giudiziarie libanesi citate dalla TV locale Lbc, sarebbero a carico di Mustafa Badruddin, Salim Ayash, Abdel Majid Ghamlush e Hasan Isa. Secondo i media libanesi, tutti gli indagati sono esponenti del gruppo sciita Hezbollah.

Il contesto. La fase finale dell'inchiesta sull'omicidio Hariri si intreccia con un momento cruciale della politica libanese, che cerca di uscire dallo stallo dopo che Hezbollah ha conquistato la maggioranza parlamentare nelle ultime elezioni. Il movimento sciita -presente con 19 ministri nella squadra del nuovo premier, il miliardario sunnita Najib Mikati- ha chiesto a quest'ultimo di troncare la cooperazione con il Tribunale. La procura ha 30 giorni di tempo per eseguire gli arresti, un arco temporale che si interseca con la scadenza del 13 luglio, data in cui Mikati dovrà presentare il proprio programma al Parlamento altrimenti il governo dovrà dimettersi.

Il premier: "Agiremo con responsabilità". Parlando in conferenza stampa, Mikati ha assicurato che "il governo agirà con responsabilità e seguirà passo passo gli sviluppi che seguiranno alla formalizzazione
odierna delle accuse. La nostra lealtà a Hariri - ha detto - impone di lavorare per il raggiungimento della verità e al tempo stesso per preservare la stabilità del Paese. Ricordiamo però che le accuse non sono condanne e che ogni imputato è innocente fino a prova contraria", ha aggiunto il premier, che ha ricordato: "La pace civile deve essere la priorità su tutto".

Le trattative. Nei giorni scorsi i vertici di Hezbollah avrebbero avuto diversi incontri con il premier per trovare una posizione comune sulla linea da seguire con il Tribunale nel momento in cui saranno rese note le incriminazioni, ma da ambienti governativi non è trapelato alcun dettaglio. In molti però dubitano che i mandati verranno eseguiti, e che materialmente i quattro accusati verranno mai consegnati alla giustizia.

Il figlio: "Momento storico". Molto soddisfatto Saad Hariri, capo dell'opposizione e figlio del premier assassinato. "Dopo anni di pazienza e di lotta - ha annunciato in un comunicato - oggi siamo assistiamo ad un momento storico per il Libano a livello politico, di giustizia e di sicurezza". Se venisse provato il legame diretto tra i responsabili dell'omicidio ed Hezbollah riemergerebbero anche le accuse al regime siriano, molto vicino al movimento sciita. Dal 2005 al 2008, proprio il regime di Damasco, ora scosso da proteste popolari senza precedenti, era stato da più parti indicato come il mandante dell'omicidio Hariri.

http://www.repubblica.it/esteri/2011/06/30/news/omicidio_hariri_quattro_mandati_di_cattura_sono_membri_di_hezbollah-18442211/