sabato 16 ottobre 2010

Al cuore del conflitto

Di Ari Shavit

La richiesta che Israele venga riconosciuto come stato nazionale del popolo ebraico è legittima e ragionevole. Vi sono almeno sette ragioni per affermarlo.

Prima ragione. Questo è esattamente il motivo per cui siamo qui. Il supremo obiettivo del sionismo è che, in Terra d’Israele, il popolo d’Israele abbia una sede nazionale riconosciuta dal diritto internazionale. Chi nega il diritto del popolo ebraico a una propria sede nazionale è un razzista. Chi che non capisce che la sede nazionale del popolo ebraico deve essere riconosciuta internazionalmente è uno stolto. Senza riconoscimento di Israele come stato nazionale del popolo ebraico (da parte di tutte le nazioni, a cominciare da quelle confinati), l’impresa del sionismo resta appesa un filo.

Seconda ragione. Qui sta il cuore del conflitto. Il conflitto israelo-palestinese nasce dal fatto che, per un secolo, il movimento nazionale ebraico e il movimento nazionale palestinese hanno rifiutato di riconoscersi l’un l’altro. Nel 1993 Israele ha riconosciuto il popolo palestinese e i suoi diritti, ma fino ad oggi i palestinesi non hanno riconosciuto il popolo ebraico e i suoi diritti. Questo è il grande fallimento degli Accordi di Oslo, che ha compromesso il processo di pace sin dall’inizio. Affinché prevalga una vera pace, in questo paese, deve esservi pace fra lo stato nazionale arabo-palestinese e lo stato nazionale ebraico-israeliano.

Terza ragione. Fermare la valanga. Da vent’anni a questa parte è in atto un grave processo. Mentre Israele continua a riconoscere sempre più i diritti naturali dei palestinesi, i diritti naturali dei suoi stessi cittadini vengono via via annullati dal resto del mondo. Le concessioni ideologiche fatte da Israele non agiscono a suo favore, ma contro di lui. Quando l’Israele di Ehud Olmert (che offriva invano ai palestinesi uno stato pari al 100% di Cisgiordania e Gaza e la condivisione di Gerusalemme) risulta essere meno “legittimo”, sulla scena internazionale, dell’Israele di Yitzhak Shamir (che si rifiutava di negoziare coi palestinesi), agli occhi degli israeliani non c’è più alcun reale incentivo a fare altre concessioni. Solo il riconoscimento di Israele come stato nazione del popolo ebraico può fermare la valanga e creare una legittimazione reciproca, israeliana e palestinese.

Quarta ragione. Porre fine alla pretesa del cosiddetto “diritto al ritorno”. I palestinesi continuano a reclamare il diritto di “tornare” nelle case, nei villaggi, nelle città all’interno dello stato sovrano Israele, una richiesta che equivale alla fine dello stato degli ebrei. Poiché la rivendicazione del “ritorno” è al cuore dell’ethos nazionale palestinese, i palestinesi non possono abbandonarla. Tuttavia, il riconoscimento di Israele come stato nazionale del popolo ebraico potrebbe districare entrambe le parti da questa trappola: permetterebbe di frenare e controbilanciare la richiesta del ritorno, neutralizzando la natura esplosiva di tale rivendicazione.

Quinta ragione. Imprimere una svolta nella coscienza del mondo arabo musulmano. I rapporti ragionevoli che oggi esistono fra Israele e i paesi arabi moderati si muovono su un ghiaccio sottile. Questi paesi accettano Israele come un dato di fatto, ma non come una entità legittima. Riconoscendo Israele come stato nazione del popolo ebraico indicherebbero chiaramente a tutti gli abitanti, da Marrakech ad Alessandria d’Egitto a Baghdad, che Israele non è un impianto straniero, bensì parte integrante e inseparabile del Medio Oriente. Gli arabi devono riconoscere la piena legittimità del sovrano stato ebraico.

Sesta ragione. Ricomporre le relazioni fra Israele ed Europa cristiana. A tutt’oggi l’Europa non ha risolto il suo complesso ebraico. Riconoscimento di Israele come stato nazionale del popolo ebraico significa anche riconoscimento da parte dell’Europa delle sue responsabilità morali per gli anni di persecuzione anti-ebraiche. Il continente che nel XX secolo ha decimato e quasi del tutto sterminato il popolo ebraico riconoscerà e si farà garante del diritto di quel popolo a vivere e autogovernarsi.

Settima ragione. Tranquillizzarci. L’aspirazione fondamentale degli ebrei israeliani è quella di avere una casa sicura. Il riconoscimento esplicito che Israele è la casa del popolo ebraico rafforzerebbe la disponibilità degli israeliani ad assumersi dei rischi e abbandonare dei territori. Solo il riconoscimento del focolare nazionale ebraico renderà possibile la creazione rapida e pacifica di un focolare nazionale palestinese.

Una postilla. La richiesta che Israele venga riconosciuto come stato nazionale del popolo ebraico non può essere fatta senza mantenere un autentico impegno verso Israele come democrazia. Senza garantire pieni ed eguali diritti ai non-ebrei in Israele, lo stato nazionale ebraico non potrebbe reggersi.

(Da: Ha’aretz, 14.10.10)

mercoledì 6 ottobre 2010

Per non dimenticare la barbara tortura e l'omicidio di Ilan Halimi



In un libro, il peggior caso di antisemitismo in Francia
di Paolo Pillitteri

In un'Europa dove sembrano riemergere i rigurgiti di un pericolosissimo
antisemitismo, è praticamente ignorata la storia del martirio del giovane
francese Ilan Halimi. Un bellissimo libro, edito da Salomone Belforte &C.
Livorno, ricorda quell'assassinio raccontato dalla madre, Ruth Halimi e da
Emilie Frèche: "24 giorni, la verità sulla morte Ilan Halimi".E' Venerdì, 20
gennaio 2006 a Parigi. Ilan Halimi, scelto perchè ebreo dalla "banda dei
Barbari", una gang con a capo Youssef Fafana, viene rapito e condotto in un
appartamento in periferia. Vi rimarrà sequestrato e torturato per tre
settimane prima di essere buttato in un bosco dai suoi carnefici. Ritrovato
nudo lungo un binario della ferrovia fuori Parigi, Ilan non sopravviverà al
suo calvario. Il libro è lo straziante, sconvolgente racconto in cui la
madre di Ilan ricorda quei 24 giorni di incubo. 24 giorni nel corso dei
quali Ruth ha ricevuto più di seicento chiamate, richieste di riscatto, il
cui ammontare cambierà continuamente, insulti, minacce, foto del figlio
torturato. Ore, giorni, settimane interminabili, che la madre trascorrerà in
ufficio senza dire niente a nessuno, comportandosi come se tutto andasse
bene per lasciar lavorare la Polizia. Ma la Polizia non sa con che razza di
individui ha a che fare. Non valuta l'odio e la ferocia di un antisemitismo
assoluto che domina i rapitori. Non considera, tra l'altro, che Ilan possa
essere ucciso dalla bestiale gang con a capo l'orrendo Youssef Fofana. Sul
filo del ricordo, il libro ci presenta una storia di sangue e di morte nel
cuore dell'Europa, in Francia, "in un paese dove, come Daniel Pearl a
Karachi, un uomo può essere rapito sotto gli occhi i tutti - scrive
Bernard-Henry Levi nella prefazione - di un intero quartiere, trasportato da
un luogo all'altro, affamato, assassinato lentamente, torturato, passato da
un carnefice all'altro quando uno di questi cede, ancora spostato, e questo
per 24 giorni". Anche Pierluigi Battista, sempre nella prefazione, mette in
evidenza il ritorno dell'odio contro gli ebrei, contro Israele, contro la
sua esistenza, rammentando, nella terribile storia di Halimi, l'ipocrisia
con cui a parole si proclama "Mai più Auschwitz!" ma intanto si relega fra
le brevi di cronaca la notizia di un giovane ebreo francese che viene
rapito, torturato e bruciato a Parigi, solo perché è ebreo. E' il dettaglio
decisivo e sconcertante che non si vuole mai vedere... stiamo assistendo
impotenti e umiliati a una nuova caccia all'ebreo, e facciamo finta di non
accorgercene". Il libro ripropone in tutta la sua evidenza la "cattiva
coscienza" dell'Europa, aggiunge Giulio Meotti, un continente dove "la morte
di Ilan non ha meritato espressioni indignate da parte dell'opinione
pubblica, non ha urtato la sensibilità di chi è sempre pronto a dichiararsi
per il dialogo, la convivenza, la tolleranza. L'esecuzione di Ilan è passata
nel silenzio, rosa dall'indifferenza, la sua fotografia non ha fatto il giro
del mondo, i dettagli della sua morte sono stati criptati come degrado
metropolitano. C'è una foto di Halimi, ha i capelli corti, una maglietta, è
felice, sorride alla vita. Quel sorriso deve tormentare per sempre la
fragile, cattiva coscienza dell'Europa". Del resto, aggiungiamo noi, è
sempre più visibile, palpabile, drammaticamente operante, oltre al silenzio
colpevole su tragedie come quella di Ilan, il progetto di delegittimare
Israele. Ha recentemente e lucidamente rilevato Shmuel Trigano, Accademico
dell'Università Ouest Nanterre La Défance di Parigi e direttore della
rivista Controverses, che un simile "progetto si ripercuoterà su tutti gli
stati democratici, soprattutto gli stati europei. Potrebbe rivelarsi una
tappa determinante sulla via della loro stessa delegittimazione, nella
prospettiva di un'Europa sotto l'influenza arabo-islamica che qualsiasi
persona democratica deve rifiutare". Intanto il veleno antisemita fermenta
nei Parlamenti della vecchia Europa. L'antisionismo è il nuovo
antigiudaismo. Ha ricordato Aznar "se cade Israele cadremo tutti noi: è la
prima linea di difesa dell'Occidente".

(l'Opinione, 1 ottobre 2010)