venerdì 16 marzo 2012

Un fragilissimo cessate il fuoco

Dopo quattro giorni di conflitto, l'ultimo round di scontri con le organizzazioni terroristiche nella striscia di Gaza sembra volgere al termine. In effetti le principali parti coinvolte avevano un preciso interesse ad evitare l’escalation.
Gli obiettivi di Israele, in questa fiammata di violenze, erano limitati al contenimento delle ricadute conseguenti all’eliminazione mirata di Zuhair al-Qaissi, capo terrorista dei Comitati di Resistenza Popolare nella striscia di Gaza. Qaissi era considerato una “bomba a orologeria” che stava preparando un attentato dalla penisola del Sinai in preda all’anarchia, analogo a quello architettato lo scorso agosto.
L’obiettivo dei Comitati di Resistenza Popolare, della Jihad Islamica palestinese e di altri gruppi terroristi “muqawama” (irriducibili), pesantemente finanziati e sostenuti dall’Iran, era e rimane quello di sequestrare e/o ammazzare degli israeliani e trascinare Israele in un conflitto diretto con l’Egitto post-Mubarak. Esattamente l’obiettivo che Israele ha voluto sventare uccidendo Qaissi.
Ma Israele non era interessato a una vera escalation, che avrebbe potuto causare numerose vittime civili non intenzionali, soprattutto considerando la strategia palestinese di sparare i razzi dai centri densamente abitati e di usare i civili come scudi umani. E benché le batterie anti-missili del sistema Cupola i ferro schierate ad Ashdod, Ashkelon e Beersheba abbiano garantito una significativa protezione a decine di migliaia di israeliani che vivono nel raggio della gittata dei razzi sparati da Gaza, prolungare il conflitto significava aumentare il rischio di subire vittime civili israeliane.
Anche Hamas, che controlla la maggior parte della striscia di Gaza, non era interessata a un’escalation, quantunque la cosa più avanti possa anche cambiare. La storica organizzazione fondamentalista palestinese è in via di mutamento, mentre cerca di smarcarsi dalla sua vecchia alleanza con Iran e Siria e di allinearsi con gli stati sunniti, soprattutto con l’Egitto dove la Fratellanza Musulmana, organizzazione madre di Hamas, sta salendo al potere. Hamas ha un chiaro interesse a mostrare all’Egitto e ad altri stati “moderati” sunniti d’essere capace di mantenere la stabilità a Gaza. Tanto più che l’Egitto, che sta attraversando un tremendo sconvolgimento politico da quando Hosni Mubarak è stato estromesso, ha i suoi problemi – soprattutto le tensioni fra giunta militare e islamisti – e non ha voglia di veder scoppiare una guerra ai suoi confini nord-orientali. Ed infatti l’Egitto ha giocato un ruolo chiave nel favorire il cessate il fuoco. Il capo dell’intelligence Murad Muafi e altre figure delle forze armate egiziane hanno fornito l’indispensabile collegamento fra Israele e i gruppi terroristi di Gaza. Amos Gilad, direttore degli affari politico-militari presso il ministero della difesa israeliano, ha dichiarato martedì a radio Galei Tzahal che non c’è stato nessun accordo formale con Hamas o altre organizzazioni terroristiche che operano nella striscia di Gaza, dal momento che Israele “non si accorda con gli assassini”. Piuttosto, ha spiegato Gilad, Israele attraverso gli egiziani ha fatto arrivare il messaggio “calma in cambio di calma”, pur riservandosi il diritto di condurre eliminazioni mirate quando si rende necessario per prevenire attentati.
Ma il cessate il fuoco è molto fragile. Martedì stesso (e poi ancora mercoledì e giovedì) diversi ordigni sono stati sparati dalla striscia di Gaza sul sud di Israele, mentre i Comitati di Resistenza Popolare e la Jihad Islamica, che hanno dimostrato di disporre di moltissimi razzi, continueranno a pianificare attacchi contro “l’entità sionista”.
Ancora più inquietante è la possibilità assai concreta che l’interesse politico di Hamas ed Egitto per il mantenimento della calma a Gaza possa mutare. Il crescente estremismo nell’Egitto dell’era post-Mubarak è apparso evidente domenica quando il parlamento, ora praticamente controllato dalla Fratellanza Musulmana, ha avviato procedure di voto volte a bloccare la ricezione del miliardo di dollari e più in aiuti che gli Stati Uniti forniscono ogni anno al Cairo. I parlamentari islamisti sono evidentemente molto turbati dal caso giudiziario che coinvolge alcune ONG americane che si battono per i diritti umani in Egitto. Lunedì, poi, il parlamento egiziano ha votato a favore dell’espulsione dell’ambasciatore d’Israele e per il blocco delle esportazioni di gas verso Israele. Una votazione fatta per alzata di mano su una dichiarazione della Commissione per gli Affari Arabi in cui si affermava che l’Egitto non sarà mai amico, partner o alleato di Israele. Limitare gli aiuti americani è considerato un modo per ridurre l’influenza che gli Stati Uniti possono esercitare sulla politica egiziana. Il che potrebbe dare mano libera all’Egitto, nei prossimi anni, per abrogare gli Accordi di pace di Camp David e adottare una posizione più ostile a Israele.
Purtroppo, nei primi giorni di fragile cessate il fuoco, mentre più di un milione di israeliani nel sud del paese cerca di tornare a una vita normale, già si profilano all’orizzonte i segnali della prossima tornata di scontri.

(Da: Jerusalem Post, 13.3.12)

http://www.israele.net/articolo,3387.htm

sabato 18 febbraio 2012

È tempo di rottamare l’Unrwa






L’agenzia Onu per i profughi palestinesi (l’UNRWA ovvero United Nations Relief and Works Agency for Palestinian Refugees) costituisce uno dei più grossi ostacoli al processo di pace. Lo ha ribadito la parlamentare israeliana Einat Wilf (del partito Indipendenza, che fa capo a Ehud Barak), durante un incontro con 65 ambasciatori e diplomatici di alto livello provenienti da tutto il mondo che si è tenuto agli inizi del mese presso l’Università Bar-Ilan.
Einat Wilf ha lanciato una nuova campagna parlamentare internazionale per promuovere una riforma dell’UNRWA e contrastare “l’inflazione quantitativa dei profughi”, con lo scopo di rendere concretamente possibile la soluzione a due stati. “Quando sento un palestinese affermare che esiste un ‘diritto al ritorno’ all’interno del sovrano stato di Israele – ha spiegato Einat Wilf – mi domando se costui voglia davvero la pace e accetti il concetto di una soluzione a due stati, che in quanto tale prevede uno stato ebraico accanto a uno stato arabo”. Ed ha aggiunto: “In tutto il mondo, solo l’UNRWA riconosce una sorta di diritto ereditario automatico allo status di profugo”.
Infatti - a differenza dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees), l’organismo che si fa carico di tutti i profughi del mondo che non siano palestinesi - l’UNRWA garantisce i suoi servizi a tutti i discendenti dei profughi palestinesi della guerra del 1948 anche dopo più generazioni: un meccanismo attraverso il quale l’ammontare dei profughi palestinesi registrati non fa che aumentare ogni anno.
La parlamentare israeliana fa appello alla comunità internazionale perché affronti la questione della continua “inflazione” del numero dei profughi palestinesi, e intende rivolgersi direttamente alle commissioni dei vari Parlamenti incaricate di approvare gli stanziamenti a favore dell’UNRWA. La sua proposta è che le commissioni trasferiscano i fondi destinati all’UNRWA dal finanziamento di base per usi generali a finanziamenti mirati per scopi e progetti specifici. Ad esempio, spiega Einat Wilf, se la striscia di Gaza farà indiscutibilmente parte del futuro stato palestinese, un bambino che nasce oggi a Gaza non può essere considerato “profugo”. I paesi donatori continuino a finanziare ospedali, scuole e assistenza sociale nella striscia di Gaza, ma che il loro aiuto non sia legato allo status di profugo, bensì alle necessità reali.
Einat Wilf accusa l’UNRWA di minare gli sforzi volti a sostenere l’Autorità Palestinese come futuro governo di uno stato palestinese, e suggerisce che i fondi diretti ai programmi dell’UNRWA in Cisgiordania vengano trasferiti direttamente all’Autorità Palestinese, che possa così rafforzare le strutture del suo futuro stato. Inoltre, suggerisce che i programmi dell’UNRWA in Libano, Siria e Giordania vengano accorpati con quelli dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati.
Una volta che fossero attuate queste misure, spiega Wilf, la quantità totale di veri profughi palestinesi (riconosciuti come tali in base agli standard applicati a tutte le altre comunità di profughi del mondo) si “sgonfierebbe” scendendo a circa 30.000. Secondo la Wilf, questo numero “effettivo” di profughi palestinesi aprirebbe la strada alla soluzione a due stati, giacché “anche un governo israeliano di destra” sarebbe disposto ad accettare l’ingresso in Israele di profughi palestinesi nell’ordine di questa cifra, a patto che accettino di convivere in pace coi loro vicini (laddove, al contrario, la continua minaccia palestinese di pretendere l’ingresso in Israele di milioni di discendenti di profughi non può essere accettatala da nessun governo israeliano).
Alcuni dei diplomatici presenti hanno obiettato che questi passi non andrebbero fatti prima dell’accordo di pace definitivo, osservando che quella dei profughi è una delle questioni chiave che devono essere affrontate nel quadro dei negoziati. Einat Wilf ha tuttavia ribattuto che, se il processo non viene rovesciato, è molto improbabile che i negoziati possano avere successo.

(Da: Jerusalem Post, 1.2.12)
http://www.israele.net/articolo,3363.htm

venerdì 27 gennaio 2012

I rischi del cinismo e dell'indifferenza: perché è importante ricordare

Il Giorno della Memoria e il valore della testimonianza

Il brivido di orrore che hanno avvertito, poche settimane fa, i lettori dei giornali e la moltitudine planetaria dei frequentatori del web è la prova di quanto sia necessaria la mobilitazione, e non una sola volta all'anno, per difendere il valore della memoria. Il giovane titolare di una palestra di Dubai, a caccia di clienti, ha infatti ideato cartelloni pubblicitari con la foto dell'ingresso del più noto e sinistro campo di sterminio nazista. Accompagnandola con uno slogan agghiacciante: «Magri come fosse Auschwitz». Quel che raggela non è soltanto l'accostamento tra il culto del fitness e i lager dove si sterminavano gli ebrei, ma il fatto che l'ideatore si sia permesso quest'infamia, raccogliendo almeno all'inizio una confortante, e in qualche caso entusiastica risposta dai vecchi e nuovi frequentatori della palestra. È l'ultimo inquietante segnale che spiega come sia un obbligo vigilare per non dimenticare.

I negazionisti dell'Olocausto, a cominciare dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, sono sempre in agguato, e il pericolo più grande è che, dopo la scomparsa degli ultimi sopravvissuti-testimoni, si faccia strada un oblio generalizzato, magari lasciando spazio a teorie infamanti, alimentate da una diffusa (e da alcuni voluta) ignoranza. Con l'obiettivo di cancellare una delle pagine più terribili della storia dell'umanità: l'annientamento di sei milioni di ebrei. Colpevoli di un solo crimine: appunto, di essere ebrei.

Per aiutare i giovani a conoscere, e quelli meno giovani a non dimenticare quanto accadde meno di 70 anni fa in un grande Paese europeo, anche noi abbiamo deciso di offrire un contributo, ripercorrendo il sentiero della sofferenza e della morte, con il fondamentale aiuto di un gruppo di sopravvissuti (Guarda il docu-web). Per dare un titolo al nostro lavoro, abbiamo preso a prestito da Goti Bauer, una eroica e generosa donna uscita viva dal campo di sterminio di Auschwitz, una frase laconica e tragicamente vera: «Salvi per caso». È proprio così. I pochissimi che sono tornati alla vita, dopo aver attraversato l'intero tunnel dell'orrore e della bestialità umana, ce l'hanno fatta soltanto grazie ad alcune fortuite circostanze. Alcuni hanno pagato persino da sopravvissuti un atroce supplemento di dolore. Guardati, anzi scrutati con sospetto perché erano riusciti a salvarsi.

Lo sterminio fu pianificato, organizzato e realizzato in un Paese importante, quella Germania patria di filosofi, di intellettuali, di musicisti, di letterati di straordinaria grandezza. Non si può giustificare l'orrore di una cieca acquiescenza con le umiliazioni subite dal popolo tedesco alla fine della prima guerra mondiale, quando i vincitori dettarono ai vinti condizioni durissime e spietate. Nulla di razionale può spiegare come gente colta e fiera si sia lasciata sedurre fino a spingere «democraticamente» nelle stanze del potere un uomo spietato e complessato: quell'Adolf Hitler che, dopo aver attaccato militarmente e ferocemente il mondo, stabilì la scientifica eliminazione di tutta la popolazione ebraica: in Germania e nei paesi europei occupati dai nazisti.

Eppure è accaduto in Europa! A parte qualche apprezzabile e minoritario movimento di opposizione, a parte l'inconcludente ma abbastanza diffusa microresistenza raccontata da Hans Fallada nel libro Ognuno muore solo, e a parte il coraggio di pochi temerari che cercarono di eliminare l'aguzzino che aveva «sporcato e offeso l'onore della Germania», e che pagarono con la morte la loro ribellione, la lucida follia di Hitler riuscì a prevalere per oltre un decennio, tra la «quasi indifferenza» del mondo. Jan Karski, l'agente segreto polacco infiltrato nei campi e poi esfiltrato perché potesse raccontare ai potenti della Terra il genocidio degli ebrei purtroppo non fu ascoltato. Se lo avessero ascoltato, la guerra contro Hitler sarebbe forse cominciata prima.

Pregavamo che arrivassero gli aerei a bombardare i campi di sterminio. Meglio morire così che nelle camere a gas», ha ripetuto più volte uno dei sopravvissuti più celebri, il premio Nobel Elie Wiesel. Siamo andati a cercare e abbiamo trovato alcuni di coloro che hanno vissuto per intero l'incubo che ha abitato l'«interminabile notte della ragione». Per gli ebrei greci, le deportazioni cominciarono alla vigilia della primavera dei 1943, da Salonicco, la città che è stata chiamata «Madre di Israele». Questo perché, allora, gli ebrei erano quasi il 50 per cento della popolazione della città, che contava 120.000 abitanti. I deportati furono circa 58.000. Ne tornarono poco più di 2.000. C'è chi si salvò perché conosceva il tedesco, come Heinz Kounio; o semplicemente perché, costretto ad adattarsi alla ferocia di Auschwitz-Birkenau, aveva una forza e un carattere d'acciaio come Benjamin Kapon; chi si salvò perchè poteva contare su un passaporto spagnolo - come Nina Benroubi, Rachel Revah e Raul Saporta - e quindi fu deportato in un campo, quello di Bergen Belsen, dove si moriva di fame e di freddo ma non vi era la spietata macchina della selezione di Auschwitz: cenno con la mano destra dell'ufficiale medico nazista per indicare camera a gas immediata per bambini, anziani e disabili; cenno con la mano sinistra per chi, a un primo esame, poteva servire per i più duri lavori manuali.

Per gli italiani, i treni dell'infamia partivano generalmente dal binario 21 della stazione centrale di Milano. Carrozze per il trasporto-animali stipate di ebrei, che prima raggiungevano il campo di Fossoli, vicino a Carpi, in provincia di Modena, dove avveniva la turpe consegna dei prigionieri ai nazisti. E si preparava il viaggio-in condizioni disumane- verso Auschwitz. Liliana Segre racconta come abbia cercato di sopravvivere tappandosi le orecchie per non sentire le grida, in tante lingue, di bambini strappati ai genitori, pur sapendo qual era il loro destino. Nedo Fiano racconta di come si salvò perchè conosceva il tedesco, e poi perché sapeva cantare e spesso doveva intrattenere gli aguzzini, ottenendo un po' di cibo oltre al rancio della vergogna: un litro di zuppa semiputrescente e 60 grammi di pane al giorno. Franco Schönheit racconta del vantaggio di avere un cognome tedesco e di avere soltanto il 50 per cento di sangue ebraico. Molti episodi dettagliati che spiegano quel «Salvi per caso»: prima la cattura, poi il viaggio, la vita nel campo di sterminio, il lavoro massacrante, le frustate al primo errore, il fumo dai camini, l'odore della carne bruciata. Poi il cammino della morte, al quale i deportati furono obbligati dai nazisti in fuga. E infine la liberazione, l'inizio di una nuova vita, il desiderio di dimenticare.

Per molto tempo questi sopravvissuti hanno taciuto. Da qualche anno si sono decisi a parlare, a raccontare, a spiegare, a dare puntigliosa, sofferta e dolorosa testimonianza di quel che hanno vissuto. Di quel «mostro» che da qualche parte, nel mondo, potrebbe ancora rinascere: perché quel «mai più!», gridato una volta all'anno, il 27 gennaio, Giorno della Memoria, non basta. Sta diventando quasi un esercizio retorico. Tutti sappiamo che riprodurre le condizioni di quell'orrore è purtroppo possibile se non si sorveglia costantemente. Se non ci si trasforma in intransigenti guardiani della democrazia e del rispetto dei diritti umani.
Ai sopravvissuti che abbiamo incontrato vogliamo dire un grazie di cuore e mandare un forte abbraccio. Le loro testimonianze aiuteranno a non cadere nell'abisso del cinismo, della menzogna, dell'indifferenza e dell'ignoranza.

Antonio Ferrari
Alessia Rastelli

http://www.corriere.it/cultura/12_gennaio_26/ferrari-memoria_57119422-483d-11e1-9901-97592fb91505.shtml

martedì 17 gennaio 2012

Sciopero dei tir in Sicilia

Presidi anche in Calabria da Catanzaro a Reggio, lungo l'A1 e ai traghetti

Con l'inizio della settimana, è scattato lo sciopero dei trasporti in Sicilia "Operazione vespri siciliani". La protesta, promossa da "Forza d'urto" - il movimento nato da Autotrasportatori Aias, Movimento dei Forconi, pescatori, imprenditori agricoli e da altre organizzazioni - durerà cinque giorni, e si concluderà alla mezzanotte di venerdì prossimo. A Palermo blocchi al porto e nel primo tratto della A19 fino a Villabate. Blocchi anche nell'agrigentino. Code agli ingressi in autostrada.



PALERMO -

Blocco totale del trasporto in Sicilia dalla mezzanotte di lunedì. L'iniziativa di protesta, che si concluderà alle 24 di venerdì prossimo, è stata promossa da numerose aziende di trasporto, strutturate e non strutturate, che hanno aderito al movimento "Forza d'Urto" che vedeva già la partecipazione degli autotrasportatori dell'Aias, del "Movimento dei Forconi, degli imprenditori del settore agricolo, dei pescatori e di diverse altre categorie. All'origine della protesta il caro carburanti che penalizza l'economia.
Rallentamenti del traffico si sono registrati sulla strada statale 624 Palermo-Sciacca e sulla statale 121 tra Bolognetta e Palermo. Presidi di autotrasportatori sono stati istituiti al porto di Palermo ed a Termini Imerese.
Disagi allo svincolo di San Gregorio, a Catania, e in quello di Acireale, con una lunga fila di tir fermi. Presidi sulla strada che collega Francofonte a Catania e sulla 417 per Gela. Della ventina di blocchi previsti dal Movimento, molti si concentrano nel catanese. Dal porto del capoluogo si è mosso verso la Prefettura il corteo dei pescatori aderenti al Apmp (Associazione pescatori marittimi professionali).
Pesanti disagi anche nel nisseno a causa dello sciopero. I distributori di carburante del capoluogo hanno esaurito le scorte di benzina e gasolio a causa del blocco delle vie d'accesso alla città. Ieri mattina già a partire dalle 9 il traffico in entrata e uscita da Caltanissetta è andato in tilt a causa di blocchi stradali che hanno paralizzato la strada statale 640, sia nel tratto della bretella che collega l'autostrada A19 con Caltanissetta, sia all'imbocco per Agrigento.
In tutta la regione già da domenica le prime file ai distributori di carburante a causa del fermo.
La protesta corre anche su social network come twitter: tra gli ashtag per seguire in diretta i blocchi, #fermosicilia e #forconi.

http://www.grr.rai.it/dl/grr/notizie/ContentItem-9ec285ee-aae7-4344-b64d-4331a32a18cd.html

domenica 15 gennaio 2012

Dalla Sicilia parte la protesta del Movimento dei Forconi




Probabilmente, tutti noi ne subiremo le conseguenze, come qualche disagio per chi viaggia o qualche difficoltà nel trovare i prodotti… ma i promotori del Movimento dei Forconi hanno già chiesto pubblicamente scusa per gli eventuali fastidi chiedendo, nel frattempo, di condividere le ragioni della protesta e di aderire alle giornate siciliane di mobilitazione, dal 16 al 20 gennaio 2012.
“È la rivoluzione di un popolo che è ai limiti della sopportazione, stanco della classe politica e dell’intero sistema che ci emargina e ci prevarica”: queste le parole di uno dei fondatori del Movimento, Mariano Ferro, in un’intervista prima dell’inizio della protesta.
Il Movimento dei Forconi è un’associazione di agricoltori, artigiani, allevatori e pastori costituitasi per lottare contro lo status quo e contro il potere costituito.
Già negli scorsi mesi era sceso in piazza a più riprese ma, con la quattro giorni di Gennaio, incalza con maggiore veemenza per denunciare le criticità e la disperazione della gente. Il Movimento, che si dichiara libero politicamente e al di fuori di ogni strumentalizzazione, ha pensato in grande decidendo di occupare pacificamente tutti i punti nevralgici della Sicilia.
”Snobbato inizialmente dai mezzi di informazione, i promotori del movimento hanno creato pagine su facebook e video per divulgare finalità e obiettivi. L’adesione degli autotrasportatori ha amplificato notevolmente la notizia della manifestazione che cercherà di bloccare i punti nevralgici dell’isola. “Sarà una manifestazione tranquilla e pacifica” rassicurano i promotori. Al momento, è molto difficile fare previsioni sul numero di aderenti e sulle conseguenze della mobilitazione.

http://www.vivienna.it/2012/01/14/dalla-sicilia-parte-la-protesta-del-movimento-dei-forconi/

sabato 7 gennaio 2012

LA SIRIA IN FIAMME

Ombre e spie dietro agli attentati di Damasco

In un paese blindato dalla censura si combatte una violenta lotta fra opposizioni e i militari fedeli ad Assad


WASHINGTON
- La prima strage il 23 dicembre davanti alla sede dei servizi segreti a Damasco. Ora un’altra esplosione, sempre nella capitale, attribuita ad un kamikaze. Due massacri che suscitano molti interrogativi sui presunti colpevoli. Le informazioni verificabili sono poche, dunque possiamo fare solo ipotesi.

TRE IPOTESI AL VAGLIO-1) Gli attentati sono opera di un’ala radicale dell’opposizione: in Siria e nei paesi vicini operano molti gruppi jihadisti. Hanno le capacità tecniche, dispongono di elementi pronti al martirio e conoscono bene il teatro operativo. Le principali formazioni dissidenti hanno preso le distanze dagli attacchi ma non hanno un controllo pieno ed effettivo su quanti si sono ribellati al clan Assad. 2) Gli attacchi fanno parte di una strategia del doppio binario varata dall’opposizione. Insieme alla lotta che si svolge ogni giorno nelle città e nei villaggi, si conduce una guerra clandestina, molto più violenta, che prevede anche attentati. In questo modo cercano di scuotere la comunità internazionale per ottenere un intervento diretto. 3) E’ una manovra degli 007 per dimostrare che gli avversari sono dei «terroristi». Damasco avrebbe anche «usato» le dichiarazioni del capo dell’Esercito libero siriano (composto da disertori e basato in Turchia) che due giorni fa ha annunciato azioni spettacolari. Altro aspetto: le bombe sono iniziate ad esplodere dopo l’arrivo nel paese degli osservatori della Lega araba. Venuti per verificare le atrocità compiute dal regime sono stati testimoni delle due stragi. Un blogger ha aggiunto: se davvero volevano colpire i simboli del potere avrebbero potuto attaccare una grande manifestazione pro-regime prevista per oggi a Damasco, invece hanno scelto un bersaglio più facile. 4) Probabilmente è solo una coincidenza. O forse qualcuno vuole sfruttare il clima di violenza. L’attacco del 23 è stato preceduto da un grande attentato qaedista in Iraq. Lo schema si è ripetuto: ieri più di 70 persone sono morte per una serie di esplosioni in città irachene, oggi si contano le vittime a Damasco.

Guido Olimpio

http://www.corriere.it/esteri/12_gennaio_06/olimpio-analisi-attentati_b94293c0-3862-11e1-86b7-c754a63c4545.shtml

sabato 24 dicembre 2011

La Siria come l’Iraq: gli attentati a Damasco ampliano la crisi del regime di Bashar Assad

L'analisi di Gianandrea Gaiani

Gli attentati contro le sedi dei servizi segreti militari e di polizia nel quartiere centrale Kufr Susa a Damasco rappresentano un’ulteriore escalation della crisi in atto in Siria che sta progressivamente internazionalizzandosi.

Sul piano tecnico, aldilà del bilancio delle vittime e dei feriti, gli attentati sono stati eseguiti con modalità finora inedite nella rivolta siriana ormai degenerata in guerra civile. Due kamikaze a bordo di auto imbottite di esplosivo si sono fatti esplodere contro i comandi dell’intelligence uccidendo “civili e soldati” ha riferito la tv di Stato, affermando che dietro gli attacchi vi è la mano di Al Qaeda. Nel mirino due basi dei servizi di sicurezza. Un attivista dell’Osservatorio siriano per i diritti umani ha riferito anche di una sparatoria subito dopo le detonazioni, aspetto che ricorda le azioni dei miliziani di Al Qaeda in Iraq o dei commando talebani afghani composti da attentatori suicidi e miliziani.

“Le indagini iniziali indicano che si tratta di Al Qaeda”, ha riferito la tv del regime siriano mentre Riad Asaad, capo del Libero Esercito Siriano dei rivoltosi, ha condannato dal suo comando in Turchia ha prima affermato che i militari ribelli non sono in alcun modo coinvolti negli attacchi per poi aggiungere ad Al Jazeera che “c’è il regime dietro gli attentati compiuti questa mattina a Damasco” sostenendo che “fanno gli interessi del regime” il quale può dimostrare agli osservatori della Lega araba giunti ieri in Siria che il governo deve affrontare un’ondata terroristica.

Nessuna ipotesi può essere esclusa ma non è improbabile che Al Qaeda voglia fare la sua parte in un conflitto che vede i movimenti sunniti siriani combattere contro il regime sostenuto dagli sciiti alawiti e legato all’Iran. Del resto le cellule dell’organizzazione terroristica sono massicciamente presenti (e attive, come si è visto anche nei giorni scorsi) in Iraq e in Libano, cioè ai confini con la Siria e proprio il governo di Beirut avrebbe “messo in guardia Damasco due giorni fa sull’infiltrazione in Siria di uomini di Al Qaeda” come ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri siriano.

Non a caso tutti i Paesi arabi sunniti (ad esclusione dell’Iraq che vede al governo i partiti sciiti) stanno valutando di chiudere le proprie ambasciate a Damasco completando l’isolamento della Siria, forse anche in vista di un intervento internazionale che potrebbe essere richiesto dalla Lega Araba e che pare in preparazione in Turchia. Ryadh ha già deciso di chiudere la propria ambasciata ufficialmente a causa delle violenze e della repressione attuata dal regime di Bashar Assad. Vale la pena ricordare che nel marzo scorso i sauditi mostrarono un atteggiamento opposto inviando proprie truppe in appoggio all’emiro sunnita del Bahrein, Hamad bin Isa al-Khalifa, impegnato a reprimere una rivolta popolare della maggioranza sciita.



Gianandrea Gaiani ha seguito tutte le missioni italiane degli ultimi 20 anni. Dirige Analisi Difesa, collabora con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il Foglio e Libero ed è opinionista del Giornale Radio RAI e Radio Capital. Ha scritto Iraq Afghanistan: guerre di pace italiane

23 Dicembre 2011

http://blog.panorama.it/mondo/2011/12/23/la-siria-come-liraq-gli-attentati-a-damasco-ampliano-la-crisi-del-regime-di-bashar-assad-lanalisi/