sabato 4 settembre 2010

I colloqui fra israeliani e palestinesi




Di fronte alla parola pace anche noi cercheremo di essere speranzosi, positivi. Di fatto ce ne sono alcune ragioni: la determinazione dell’amministrazione Obama ad ottenere un risultato; l’evidente passaggio di Netanyahu dal ruolo del politico a quello dello statista che con sguardo ampio sul Medio Oriente agisce anche in base al pericolo iraniano; e per Abu Mazen l’idea che la debolezza interna causata da Hamas possa essere curata solo dall’enorme supporto internazionale che la partecipazione al processo di pace gli può fornire.

Ma è impossibile fare finta di non aver mai visto lo spettacolo di pompa e circostanza offerto a Washington, impossibile dimenticare i tappeti rossi su cui hanno marciato con i leader protagonisti, anche i loro fallimenti. Se aveste chiuso gli occhi durante la cerimonia di Washington, avreste potuto credervi a Madrid nel ’91, sul prato della Casa Bianca nel ’93, a Wye Plantation nel ’98, a Camp David nel 2000, a Aqaba nel 2003, a Annapolis nel 2007... In tutte le occasioni, e la cronista non ne ha mancata una, fra strette di mano e sorrisi si è esaltato il ruolo della leadership «dei bravi», la speranza per «il futuro dei nostri figli», il «futuro di pace per due popoli destinati a vivere fianco a fianco».

Ogni volta l’illusione è stata la stessa, e il mondo ha spinto sempre sulla stessa strada: le rinunce territoriali di Israele avrebbero placato il mondo palestinese. Questo sentiero, che ha prodotto variegati ritiri, fra cui quello da tutte le città palestinesi e quello, unilaterale, da Gaza, ha visto il moltiplicarsi degli attentati. Lo spargimento di sangue è stato terribile proprio in conseguenza e a seguito delle trattative. La prospettiva della condivisione ha sempre moltiplicato il risentimento ideologico per la presenza ebraica sulla «ummah» islamica, e si è esacerbato, a volte in modo ridicolo, il diniego del fatto evidente che Israele non sia certo un’estraneo sulla terra divenuta cruciale proprio per la scoperta, quattromila anni fa, del monoteismo ebraico.

Ma Netanyahu ha preparato una sua strada. Ha portato il Likud e il suo governo a accettare la formula «due stati per due popoli», con grave rischio per la sicurezza ha tolto un gran numero di check point, ha promosso le riforme economiche del premier Fayyad, e ha compiuto il gran gesto del congelamento degli insediamenti. Ramallah è una bella città dove vale la pena vivere in pace; a Jenin, culla del terrore, è stato aperto un cinema multisala... Ma il comma di questo atteggiamento è il cambiamento strategico di Bibi, che a Washington ha posto due condizioni per la pace, mai state prioritarie: la sicurezza, ovvero la garanzia che un nuovo Stato Palestinese non diventi una succursale missilistica iraniana come Gaza, e che sia demilitarizzato; e il riconoscimento dello Stato d’Israele come stato del popolo ebraico. Abu Mazen ha subito risposto dicendo che non può accettare, e ha riproposto i suoi temi: l’occupazione, Gerusalemme, i profughi. Lui che è un profugo di Safed, non potrebbe fare diversamente.

Ma forse si tratta di una prima dura risposta di facciata, come la precondizione di riconfermare il congelamento per proseguire i colloqui. Anche su questo punto c’è già stato il no di Netanyhu. Ma lo stop alle costruzioni, l’ammissione dei profughi, il ritiro territoriale... tutto questo può essere frastagliato, negoziato, selezionato, per fasi, per zone, per tempi. C’è solo una cosa che deve essere scelta una volta per tutte, e Bibi l’ha capita bene: la decisione di accettare il proprio vicino. Abu Mazen non l’ha ancora fatto. Anche se usa duramente la sua polizia contro Hamas, lo dimostra in tante occasioni come quando ha recitato la sura del Corano per l’apoteosi dell’anima di Amin Al Hindi, il capo dell’eccidio di Monaco del ’72, quando undici atleti israeliani furono trucidati. O quando accetta che una piazza di al Bireh venga intitolata a Dalal Mughrabi, la terrorista che uccise 37 civili israeliani e ne ferì 71 su un autobus. Questo è il nodo: sicurezza e accettazione. Altrimenti i ragazzi palestinesi cresceranno nell’idea che sia la violenza contro gli israeliani la vera soluzione, e non un trattato di pace. Abu Mazen sa che gli ebrei hanno sempre abitato a Safed senza mai andarsene, nei millenni. Che hanno affrontato condizioni molto dure pur di non lasciare la loro terra. Forse non vuole rinunciare all’idea di tornare a Safed, ma sa di aver sempre avuto un appassionato, ben radicato coinquilino.

http://www.ilgiornale.it/esteri/i_colloqui_israeliani_e_palestinesi/04-09-2010/articolo-id=471048-page=0-comments=1

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