lunedì 10 maggio 2010

Cosa aspettarsi dai colloqui indiretti israelo-palestinesi

Di Barry Rubin

La domanda del giorno è: i colloqui indiretti fra Israele e Autorità Palestinese faranno fare progressi al “processo di pace” o risulteranno un fallimento?
In effetti, c’è da domandarsi, a questo punto, quanti sono gli ingenui che credono che la pace sia a portata di mano, e quanti sono i disinformati indotti a pensare che la mancanza di pace sia colpa di Israele.
Quello che occorre, per capire la questione, è esattamente ciò che non viene spiegato da politici, accademici e da tanta parte dei mass-media: l’Autorità Palestinese non ha la volontà né la capacità di arrivare a un accordo di compromesso per la pace. L’estremismo fra i suoi ranghi e nella sua opinione pubblica, unitamente alla sfida sempre presente di Hamas, legano le mani di leader palestinesi che già di per sé non sono poi tanto moderati. Troppo forte è la tentazione di credere che, continuando a “lottare”, a dire “no” e a cercare di capovolgere il sostegno occidentale a Israele, finiranno per ottenere tutto quel che vogliono senza cedere nulla.
Ma questi specifici colloqui, in questo specifico momento, potranno portare un progresso o un insuccesso? Dipende da cosa si intende per “progresso” e da cosa si intende per “fallimento”. Se si pensa di arrivare a un accordo di pace globale, allora il risultato sarà un fallimento perché, tanto per cominciare, l’Autorità Palestinese non vuole un accordo globale: sia le sue politiche interne, sia l’inebriante convinzione che l’amministrazione Obama darà loro ciò che vogliono, tendono a produrre maggiore intransigenza. Se gli Stati Uniti intendono imporre una soluzione ad ogni costo, l’Autorità Palestinese, avendo sentore che questo atteggiamento non può che sfociare nel fallimento dei colloqui, non si sentirà in alcun modo incoraggiata ad accettare un accordo. A quel punto, qualunque tentativo di forzare le cose fatto da persone che in effetti – siamo onesti – non capiscono granché delle questioni in ballo, né di come funziona la politica in Medio Oriente, alla lunga potrà solo portare a un disastro.
Se invece più saggiamente si useranno questi colloqui per ridurre le tensioni fra le parti e affrontare problemi più immediati cui è possibile dare una risposta – crescita economica, cooperazione per la sicurezza, modalità per rendere l’Autorità Palestinese più stabile politicamente, migliore per la sua popolazione e capace di sopravvivere alla sfida di Hamas – allora questi colloqui potranno essere proficui.
Dal punto di vista dell’amministrazione Obama, se si accontenterà della “grande impresa” d’aver ottenuto colloqui indiretti (dopo che la sua politica ha contribuito a ritardarli tanto a lungo), allora potrà fare la lieta scoperta che tali colloqui possono avere un valore in se stessi. E si convincerà che quei colloqui possono rabbonire arabi e musulmani, rendendo più accessibili gli obiettivi della politica americana su altre questioni grazie al sostegno arabo, ad esempio, su ciò che gli Stati Uniti stanno facendo per le sanzioni all’Iran, o per il ritiro dall’Iraq, o per ridurre il terrorismo anti-americano. Il che è tutt’altro che certo, ma farà sentire meglio l’amministrazione Usa e forse i suoi elettori.
Se i colloqui diventeranno diretti il mondo se ne rallegrerà molto, dimenticando che questo ci riporta semplicemente alla situazione che c’era nel 2008, peraltro anche allora senza grandi progressi. In effetti, colloqui diretti fra israeliani e palestinesi sono andati avanti per diciassette anni, con Israele che per tutto quel periodo ha offerto uno stato palestinese come esito dei colloqui, e che già dieci anni fa offriva ai palestinesi la possibilità di costituire subito uno stato con capitale a Gerusalemme est e un territorio equivalente a tutta la Cisgiordania e la striscia di Gaza.
A proposito, quando finalmente si vedranno i più seguiti mass-media occidentali riportare con esattezza quelle che sono le vere richieste di Israele per una composizione di pace definitiva? E cioè: garanzie per la sicurezza, cessazione di ogni ulteriore rivendicazione palestinese, uno stato palestinese smilitarizzato senza eserciti stranieri sul suo suolo, reinsediamento dei profughi palestinesi nello stato palestinese, riconoscimento di Israele come stato ebraico in cambio del riconoscimento della Palestina come stato arabo? Non sono, questi punti, almeno altrettanti rilevanti delle richieste palestinesi circa uno stato, lo smantellamento degli insediamenti ebraici e le rivendicazioni territoriali? Finché i leader occidentali non capiranno perché non vi sono stati progressi e finché non imposteranno le loro politiche di conseguenza, come porrà esservi una svolta tale da risolvere la questione?

(Da: Global Research in International Affairs-GLORIA, 4.5.10)
(http://www.israele.net/articolo,2819.htm)

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