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mercoledì 8 giugno 2011

Intervista a Shimon Peres – Tg1 e Rai News 24



A pochi giorni dalla visita in Italia, dove parteciperà alle celebrazioni per il 2 Giugno, il Presidente dello Stato di Israele, Shimon Peres, mi ha rilasciato una lunga intervista trasmessa dal Tg1 delle 20.00 e, in forma integrale, da Rai News 24. Per chi volesse leggerla, ecco la trascrizione integrale in italiano.

Claudio Pagliara. Abbiamo assistito alla calorosa accoglienza tributata dal Congresso americano al premier Netanyahu. Come presidente dello Stato di Israele, che significato gli attribuisce?

Shimon Peres. Chiaramente, l’espressione di amicizia ad Israele è molto significativa per tutti noi. Abbiamo una lunga tradizione di profonde relazioni con gli Stati Uniti. d’America: il Presidente, l’Amministrazione, il Congresso, la gente. Per noi è molto importante. Siamo molto lieti che il Congresso abbia riaffermato il suo sostegno ad Israele.

I palestinesi hanno reagito negativamente al discorso di Netanyahu. Lei crede che il premier avrebbe dovuto esprimere un chiaro sì ad un compromesso territoriale basato sui confini del ’67 , come suggerito da Obama?

Dobbiamo distinguere tra discorsi e processo di pace. Prima di tutto, penso che si possa arrivare ad una vera pace solo in un modo: attraverso un accordo. Una parte in causa non può imporre la pace all’altra. Può imporre altre cose, ma non la pace. E la pace è un processo Non avviene con uno o due discorsi. Il processo inizia con delle questioni aperte. Sono aperte perché c’è un disaccordo e bisogna trovare un terreno comune. Poi bisogna condurre il negoziato per cercare di superare le differenze. E’ vero che in questo momento siamo alle pre – condizioni. Dobbiamo creare l’atmosfera giusta affinché le parti partecipino al negoziato, ognuno con le sue posizioni. Il negoziato deve essere diretto, tra israeliani e palestinesi, animati dalla consapevolezza delle differenze e dalla volontà di superarle.

La sensazione in Europa è che il processo di pace sia infinito…

L’unità d’Italia ha richiesto 80 anni , perché siete così impazienti? E’ molto difficile unificare i popoli in questo piccolo fazzoletto di terra, ma stiamo facendo passi avanti, non restiamo fermi ai blocchi di partenza.. Innanzitutto, siamo d’accordo che la base del negoziato sono i confini del ‘67 e non quelli del ‘47 . Vengono chiamati con nomi diversi. Ovviamente, nessuno suggerisce che Israele torni ai confini del ‘67 perché le realtà sono cambiate; le dimensioni del ‘67, ecco ciò di cui si parla. E ora i palestinesi hanno un’Autorità nazionale. Non dimentichiamo che non c’è mai stato storicamente uno Stato palestinese. La Cisgiordania era nelle mani dei giordani, che non l’hanno data ai palestinesi; la Striscia di Gaza era nella mani degli egiziani, che non l’hanno data ai palestinesi. Noi abbiamo lasciato Gaza completamente e abbiamo favorito la nascita di una Autorità palestinese. In Cisgiordania, i palestinesi stanno sviluppando con successo la loro economia, stanno costruendo le loro forze di sicurezza, anche col nostro aiuto. Io vorrei che le cose andassero anche meglio, ma è difficile: i palestinesi sono divisi e la guerra ha creato tutta una serie di problemi. Ma sono convinto che le differenze si sono accorciate e che, con uno sforzo genuino, si possa arrivare alla pace.

L’Autorità Palestinese però ha scelto un’altra strada, il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Onu. Molti Paesi europei sono propensi a dire di sì. Perché lei crede che l’Europa farebbe meglio a non votare a favore?

Per creare una nazione, non basta dichiararlo. Ci vogliono atti, non parole. Affinché uno stato palestinese nasca, deve essere chiaro che non porrà una minaccia ad Israele. Nessuno vuole uno stato palestinese in guerra con lo stato d’Israele. Non avrebbe alcun senso. Così, bisogna pensare allo stesso tempo allo Stato palestinese e alla sicurezza di Israele. Ho chiesto al Segretario generale dell’Onu: “Vuole dichiarare la nascita dello Stato palestinese? OK! Può fermare il terrore? Può fermare il contrabbando di munizioni e razzi? Può fermare il trasferimento da parte dell’Iran di armi e denaro? Se la risposta è no, che significato ha la dichiarazione dello Stato? Ci sono due questioni connesse: una è l’indipendenza dello stato palestinese, l’altra la sicurezza di Israele. Se si fa una sola cosa delle due, niente accadrà. La strada è prima il negoziato diretto e poi l’approvazione delle Nazioni Unite

Israele non vuole trattare con un Governo di unità palestinese che includa Hamas. Ma Rabin usava dire: la pace si fa con i nemici….

E’ vero, ma solo se i nemici vogliono la pace. Finché i leader di Hamas agiscono da terroristi, accumulano missili, e li usano, non c’è alcuna possibilità. E in ogni caso, questa è anche la posizione del quartetto. Loro, non noi, hanno posto tre condizioni ad Hamas: rinuncia al terrore, riconoscimento di Israele, rispetto degli accordi firmati. Sono riconoscente al Presidente del Consiglio italiano per aver portato questa posizione in sede europea. E al vostro Presidente della Repubblica che la condivida. Se c’è terrore e pace allo stesso tempo, la pace è destinata a cadere vittima del terrore Se i palestinesi vogliono unirsi, ok. Siamo per un fronte unito, non siamo per la divisione, ma ciò che veramente li divide è l’avere due eserciti. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Palestinese, che io rispetto molto, ha detto: un popolo, un fucile. Non abbiamo obiezioni su questo. Ma se poi dice: un popolo, due fucili , uno spara l’altro parla, si contraddice..

Cosa pensa della primavera araba? Porterà più o meno stabilità in Medio Oriente?

Senza la primavera araba non ci sarà mai stabilità. Gli arabi devono entrare nel XXI secolo. Hanno ancora una economia tradizionale, nazionale e agricola, che li costringe alla povertà. I problemi del Medio Oriente sono la povertà, la mancanza di acqua. Non c’è soluzione senza tecnologie avanzate. Guardi Israele: non ha acqua e non ha molta terra eppure ha una delle agricolture più avanzate del mondo. Possono fare lo stesso, non ci sono differenze. Certo, la vecchia generazione è ancorata alle tradizioni, ma si sta facendo largo una nuova generazione che incarna la speranza di libertà. Questi giovani usano i computer, hanno accesso a Facebook, YouTube, internet, possono vedere sui loro schermi quando orribile sia la dittatura, quanto terribile sia la corruzione, quanta povertà ci sia a causa dell’ economia tradizionale. Paragonano la loro situazione a quella di altre giovani generazioni. E si chiedono: perché lì è così e qui no? Non sono più disposti a chiudere gli occhi. Ed è molto difficile mantenere le dittature quando la gente apre gli occhi. Non sono sicuro che vinceranno al primo round: hanno idee, ma l’establishment ha i fucili Basta vedere ciò che accade in Siria. Il governo spara e loro manifestano. Manifestano con forza, hanno tutto il mio rispetto. Per il bene del popolo arabo, per il bene della pace, per il bene di tutti noi, gli arabi entrino nell’era della libertà, dell’economia moderna! E’ una grande speranza. Anche mia personale. Auguro loro successo.

Il Paese dove iniziò la primavera, prima che si chiamasse così, fu L’Iran. Ora in Iran non ci sono manifestazioni. Netanyahu ha detto, tre giorni fa, che il tempo sta scadendo, riferendosi al programma nucleare. Cosa si può fare per fermarlo?

Innanzitutto, il problema Iran non è monopolio di Israele. L’Iran è riconosciuto come un pericolo da tutti i leader del nostro tempo, da Obama a Putin, dall’Italia alla Francia. Tutti sostengono che non si può vivere in un mondo dove armi nucleari siano nella mani di una leadership irresponsabile. Dobbiamo dunque guardare all’Iran come un problema del mondo, che non ricade sulle sole nostre spalle. Ciò che andrebbe fatto è rafforzare le sanzioni. Secondo me, è anche necessaria una campagna morale: stiamo combattendo per i nostri valori, non è una questione di soldi. Ahmedinajad viola i valori nei quali crediamo: impicca innocenti, incita all’odio. E’ terribile che non ci sia una rivolta morale. Gli iraniani avevano manifestato contro il regime, ma non sono stati aiutati, sono ancora indignati e alla fine penso che anche il regime iraniano dovrà fare i conti con le aspirazioni delle giovani generazioni. Non è un regime stabile.

L’Iran sostiene gli Hezbollah in Libano e sostiene Hamas qui. Gli Hezbollah stanno uccidendo il Libano. E Hamas ha diviso il popolo palestinese. Non c’è una sola cosa positiva che venga dai leader iraniani. Vogliono distruggere Israele, negano l’Olocausto, impiccano persone oneste, danno denaro e armi ad ogni terrorista e come se non bastasse vogliono la bomba nucleare. Dobbiamo prendere ogni misura per impedirlo, non dico Israele ma tutto il mondo. A ancor prima, dobbiamo dotarci di una strategia di difesa,. Ad esempio, un sistema antimissilistico che ci protegga dall’Iran da ogni lato, in modo che non sia in grado di lanciare missili. Sono convinto che è possibile.


Lei crede che scienza e tecnologia possono cambiare il volto del Medio Oriente. Che contributo può dare Israele in questo campo?

Israele il suo contributo lo dà con la sua stessa esistenza. Abbiamo una piccola porzione di terra, con poca acqua, senza petrolio e fino a poco fa senza gas, eppure la nostra economia va estremamente bene. Cosa abbiamo? Un popolo, tecnologia e una società libera. Una società libera non è solo una società dove c’è libertà di parola. È una società dove ci sono diritti uguali per tutti. Le faccio un esempio. Se le donne sono discriminate, abbiamo una nazione dimezzata. E una nazione dimezzata non progredisce. Se le donne sono discriminate, non hanno possibilità di avere una adeguata educazione. E se non sono istruite non possono istruire i loro figli. Gli uomini la fanno da padroni in famiglia Obama mi ha chiesto chi sono i più grandi oppositori della democrazia in Medio Oriente? Gli ho risposto: i mariti . Non basta introdurre nuovi macchinari, bisogna cambiare stile di vita. Le donne devono avere accesso all’educazione, alla scienza, alla tecnologia, a tutto. Così aiuteranno i loro figli ad essere ambasciatori del futuro invece che vittime del passato Sono certo che il mondo arabo farà questo passo. Nulla lo salverà dalla povertà, senza il pieno accesso di tutti alla scienza e alla tecnologia. 50 anni fa la Cina era povera come l’Egitto di oggi. Non è il denaro che ha salvato la Cina, è il cambio di sistema . Si possono sostituire presidenti e ministri: nulla cambierà: Bisogna cambiare il sistema per sfuggire dalla povertà.

Presidente, lei sarà ospite d’onore alla cerimonia del 2 giugno a Roma. Qual è lo stato delle relazioni tra Italia e Israele?

Si può davvero dire che tra Israele e Italia non c’è solo una relazione diplomatica, c’è quasi una storia d’amore. Prima di tutto, gli israeliani amano moltissimo gli italiani, il Paese, la gentilezza, la bellezza, la musica, la cultura. Non è scritto nei libri diplomatici ma è nei nostri cuori. Anche nei momenti più difficili, l’Italia è sempre stata speciale. Oggi le nostre relazioni sono estremamente buone, sia con Roma che col Vaticano. Per noi, l’Unità d’Italia, è un esempio. Mazzini e Garibaldi li studiamo sui nostri libri di storia: Mazzini con la sua mente raffinata, Garibaldi con il suo cavallo veloce. L’unità d’Italia è un evento mondiale. Sono veramente felice di partecipare a queste celebrazioni.

Lei ha appena incontrato qui in Israele il Presidente Napolitano, una visita che ha acceso la luce sui rapporti tra Risorgimento e sionismo. Che impressione ne ha avuto?

La forza del presidente Napolitano risiede nei suoi valori, nel fatto che è animato da onestà intellettuale e sentimento per la gente. E’ un esempio che si può governare con la buona volontà e non con la forza. Per questo è rispettato in ogni posto, non solo in Italia, ma anche qui. E quando ci siamo incontrati, dopo 5 minuti eravamo già amici. Siamo animati dalla stessa filosofia e vediamo le cose allo stesso modo. Ho il più alto rispetto per lui. Gli siamo molto grati di essere venuto qui per ritirare il premio Dan David, il cui conferimento è anch’esso una espressione di rispetto.

http://www.claudiopagliara.it/2011/05/intervista-a-shimon-peres-tg1-e-rai-news-24/#more-573

domenica 10 aprile 2011

Iran, scintille con i Paesi arabi


La televisione di Stato iraniana ha accusato l'Arabia Saudita e la Giordania di avere organizzato le proteste in Siria insieme agli Usa e a Israele e di avere fornito anche armi all'opposizione. L'Iran ha espulso tre diplomatici del Kuwait in risposta ad un'analoga misura presa dal Paese arabi


Teheran, 10-04-2011

Quello che non ha potuto il programma nucleare iraniano sembrano poterlo fare le rivolte nella regione: il solco tra Teheran e i Paesi arabi vicini si approfondisce ogni giorno di piu', con scambi durissimi di accuse e guerre diplomatiche. L'ultimo sviluppo e' l'espulsione da parte dell'Iran di tre diplomatici del Kuwait, per ritorsione ad un'analoga iniziativa presa a fine marzo dall'Emirato, che aveva denunciato l'organizzazione di una rete di spionaggio sul proprio territorio agli ordini della Repubblica islamica. Nel frattempo la televisione di Stato iraniana lancia accuse di fuoco all'Arabia Saudita e alla Giordania, affermando che le proteste e le violenze in Siria - alleato di ferro di Teheran in funzione anti-israeliana - sono fomentate proprio da Riad e Amman.

Le relazioni non sono mai state facili tra la Repubblica islamica iraniana, fondata dopo la rivoluzione del 1979 con un governo religioso sciita e che ha nell'anti-americanismo uno dei suoi pilastri, e i Paesi arabi di tradizione sunnita alleati di Washington. Un discorso che vale per le monarchie che si affacciano sull'altra sponda del Golfo, prima fra tutte l'Arabia Saudita, ma anche per Paesi piu' lontani che con Israele hanno avviato un processo di pace: la Giordania dei sovrani Hashemiti e, fino a ieri, l'Egitto del deposto presidente Hosni Mubarak. I progressi nel programma nucleare iraniano non hanno potuto che far aumentare i timori e le diffidenze dei vicini arabi.

Sul finire dello scorso anno Wikileaks scrisse che l'Arabia Saudita e altri Paesi arabi del Golfo sarebbero stati preoccupati al punto da spingere segretamente per un attacco militare degli Usa contro la Repubblica islamica. Se le rivelazioni non hanno avuto conseguenze a livello ufficiale, a far venire alla luce del sole in tutta la loro gravita' i contrasti sono state le sollevazioni popolari in Medio Oriente e Nord Africa. In particolare con le accuse dei Paesi arabi a Teheran di sostenere la rivolta in Bahrein - dove la maggioranza della popolazione e' sciita - e la condanna iraniana dell'intervento delle truppe saudite per riportare la calma nel piccolo Stato-arcipelago.

A tutto questo si e' sovrapposto lo scontro diplomatico con il Kuwait, dove il mese scorso tre persone - due iraniani e un kuwaitiano - sono state condannate a morte per spionaggio in favore di Teheran. I tre diplomatici successivamente espulsi erano accusati di avere avuto relazioni con questa rete di spionaggio. Da qui la rappresaglia annunciata oggi dall'Iran. Ma forse a dare ancor meglio l'idea della gravita' della crisi e' il commento odierno della televisione iraniana in inglese PressTv che accusa Arabia Saudita, Giordania - e in parte il primo ministro libanese uscente Saad Hariri - di avere organizzato con gli Usa le proteste e le violenze in Siria.

A "dirigere" l'operazione, aggiunge l'emittente di Stato di Teheran, e' l'ex vice presidente siriano Abdul Halim Khaddam, che si dimise nel 2005 accusando il regime di Bashar al-Assad di essere implicato nell'assassinio in quell'anno a Beirut dell'ex primo ministro libanese Rafik Hariri, padre di Saad. Secondo PressTv, il complotto mirerebbe a provocare "la caduta dell'asse Teheran-Damasco-Beirut" e "l'eliminazione della resistenza libanese", cioe' le milizie sciite libanesi di Hezbollah, sostenute dalla Siria e dall'Iran, che rappresentano una delle maggiori minacce per Israele.

http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=151774

mercoledì 16 marzo 2011

La Marina israeliana scopre un arsenale a bordo di una nave cargo

16 marzo 2011

Il 15 marzo 2011 le Forze della Marina militare israeliana hanno abbordato e perquisito la nave Victoria, battente bandiera liberiana, dopo aver ricevuto il necessario consenso. La decisione di compiere l’abbordaggio si è basata su comprovati rapporti secondo i quali la nave stava trasportando armi illegali destinate alle organizzazioni terroristiche della Striscia di Gaza. La nave si trovava al largo della costa israeliana, in mare aperto nelle acque del Mediterraneo.

In una perquisizione preliminare compiuta dalla squadra che ha effettuato l’abbordaggio, sulla nave è stata rinvenuta una notevole quantità di armi e attrezzature militari. Sulla base dei documenti della nave e del resoconto dell'equipaggio, la nave è salpata inizialmente dal porto di Latakia, in Siria, e ha poi proceduto per il porto di Mersin, in Turchia. La nave era diretta verso l'Egitto. È stato appurato che la Turchia non ha alcuna connessione con il tentativo di contrabbando di armi.

Questo tentativo di contrabbandare grandi quantità di armi, a bordo della nave Victoria, costituisce un’ulteriore dimostrazione dell’assoluta necessità che Israele esamini tutte le merci che entrano nella Striscia di Gaza controllata da Hamas. Israele non può permettere che armi ed equipaggiamenti militari giungano nelle mani di terroristi, i quali ne faranno uso contro la sua popolazione civile.

Il traffico illegale di armi verso la Striscia di Gaza rappresenta una minaccia diretta e imminente per la sicurezza e la salvaguardia dello Stato di Israele e dei suoi cittadini, che continuano a trovarsi sotto l'incessante attacco di razzi e colpi di mortaio provenienti da Gaza. L’abbordaggio della nave Victoria, pertanto, è stato un legittimo atto di autodifesa.

Le prove sinora emerse indicano che le armi a bordo della nave provengono dall’Iran, che cerca in tutti i modi di armare la Striscia di Gaza. Sotto il dominio di Hamas la Striscia di Gaza è divenuta parte dell'asse Iran-Siria-Hamas.

Il trasferimento di armi alle organizzazioni terroristiche nella striscia di Gaza costituisce una palese violazione della risoluzione 1860 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (2009), che invita gli Stati membri a intensificare gli sforzi per prevenire il "traffico illecito di armi e munizioni " nella Striscia di Gaza (par. 6); e costituisce altresì una violazione della risoluzione 1373 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (2001), la quale, tra l'altro, invita tutti gli Stati ad astenersi dalla prestazione di qualsiasi forma di sostegno alle organizzazioni terroristiche e di cessare la fornitura di armi a tali gruppi. Israele sta anche verificando eventuali ulteriori violazioni di altre risoluzioni pertinenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Va inoltre notato che nulla, nel manifesto di carico della nave Victoria, rivelava la vera natura del contenuto dei container presenti nella nave, in aperta violazione delle pertinenti disposizioni delle convenzioni e degli standard professionali dell'Organizzazione Marittima Internazionale, compresi la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) e il Codice marittimo internazionale delle merci pericolose (IMDG).

Questo è però soltanto uno degli innumerevoli tentativi di contrabbando compiuti negli anni: c’è stata una serie di casi precedenti (per esempio i casi delle navi cargo Santorini, Abu Hassan, Karine A, Hansa India, Monchegorsk, Francop ed Everest) in cui normali e semplici spedizioni commerciali transnazionali sono state sfruttate da parte degli Stati che sponsorizzano il terrorismo, tra cui l'Iran, la Siria e il Libano, che ne hanno abusato al fine di agevolare il traffico illegale di armi destinato alle organizzazioni terroristiche nella regione.

Scoperte 50 tonnellate di armi
Elenco preliminare delle armi e dei sistemi bellici scoperti a bordo della nave

La nave Victoria trasportava almeno 50 tonnellate di armi, una quantità simile a quella della Karin A, la nave diretta all’Autorità palestinese e intercettata dalla marina israeliana nel 2002. Secondo la Marina israeliana si tratta solo di una stima preliminare, e il reale quantitativo di armi presenti a bordo della nave sarà verificato solo dopo che la nave Victoria attraccherà al porto di Ashdod. Assieme alle armi strategiche trovate sulla nave, è stata rinvenuta anche una grande quantità di proiettili per mortaio da 60 e 120 mm.


Elenco preliminare delle armi e dei sistemi bellici scoperti a bordo della nave cargo Victoria e scaricati al porto di Ashdod
:

230 proiettili di mortaio (120 mm)
2.270 proiettili di mortaio (60 mm)
6 missili C-704 anti-nave
2 sistemi radar di fabbricazione inglese
2 lanciarazzi
2 gru idrauliche di montaggio per il sistema radar
66.960 proiettili per fucili Kalashnikov (7,62 mm)

Tra le armi trovate sul ponte della Vittoria, i 13 militari del Commando della Marina hanno rinvenuto anche dei missili anti-nave C-704 dotati di radar e di una gittata di 35 chilometri. "Queste sono armi strategiche. Se Hamas riuscisse a mettere le sue mani su di esse, potrebbero causare seri danni a infrastrutture strategiche, in mare e di terra", ha affermato il contrammiraglio Rani Ben-Yehuda.

Secondo Ben Yehuda, questi tipi di missili sono pericolosi non solo per le navi della Marina ma anche per le navi civili in genere che arrivano al porto di Ashdod. "Poiché questi missili possono essere programmati per funzionare automaticamente, essi costituiscono una minaccia per qualsiasi ulteriore obiettivo all'interno della loro gittata. Sono più facili da controllare e dirigere rispetto ai missili precedenti", ha spiegato il contrammiraglio.

L’ufficiale della Marina ha aggiunto che sono state rinvenute a bordo anche dei manuali in persiano, assieme ad altri simboli dell'esercito dei Guardiani della Rivoluzione islamica, un'altra prova del fatto che la nave Victoria sia stata un tentativo iraniano di mutare l’equilibrio delle forze nel Medio Oriente.



- Fotografie e filmati ufficiali dell'IDF, che documentano l'operazione e il ritrovamento delle armi (dal Blog ufficiale dell'IDF)
http://idfspokesperson.com/

- Fotografie delle armi e del materiale rinvenuti a bordo della nave
http://www.flickr.com/photos/idfonline/sets/72157626272235856/show



http://roma.mfa.gov.il/mfm/web/main/document.asp?DocumentID=194475&MissionID=41

mercoledì 12 gennaio 2011

In Libano è crisi di governo. 10 ministri di Hezbollah si dimettono contro la sentenza sull'omicidio Hariri.

Il governo di unità nazionale in Libano è in crisi. Dieci ministri di Hezbollah si sono dimessi nel giorno in cui il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riceve alla Casa Bianca il primo ministro libanese, Saad Hariri, per discutere, tra l'altro, dell'inchiesta internazionale sulla morte del padre di Saad, Rafik, ucciso nel 2005 in un attentato. Il verdetto del Tribunale speciale per il Libano dovrebbe arrivare a breve e la condanna del "Partito di Dio" è altamente probabile. Per questo i ministri di Hezbollah hanno abbandonato l'esecutivo.

Hezbollah lascia governo
Dieci ministri dell'opposizione libanese guidata dal movimento sciita Hezbollah hanno presentato poco fa le dimissioni, aprendo così ufficialmente la crisi del governo di unità nazionale del premier Saad Hariri. L'annuncio, in diretta televisiva, è stato dato da uno dei ministri dimissionari, mentre il premier Saad Hariri arrivava alla Casa Bianca a Washington per un incontro con il presidente Barack Obama.

L'apertura di una crisi di governo (che conta 30 ministri) era già nell'aria ieri sera, quando esponenti dell'opposizione avevano affermato che l'iniziativa avviata a luglio da Siria e Arabia Saudita per superare lo stallo politico in Libano «è giunta ad un punto morto».
Uno stallo provocato dal braccio di ferro con il movimento Hezbollah sulla richiesta al premier Hariri di interrompere la collaborazione con il Tribunale speciale per il Libano (Tsl) che indaga sull'assassinio nel 2005 dell'ex premier Rafik Hariri.

Il Tsl ha sede in Olanda ed è presieduto dal giudice italiano Antonio Cassese, e prevedibilmente nelle prossime settimane dovrebbe giungere all'incriminazione di alcuni membri dello stesso Hezbollah. Questa mattina, i ministri dell'opposizione avevano esplicitamente minacciato di dimettersi se non fosse stata accolta la loro richiesta di convocare una riunione dell' esecutivo per prendere una decisione relativa proprio alla questione del Tribunale internazionale, che Hezbollah definisce «un progetto israeliano» per screditarlo.

L'Iran non riconosce verdetto
Sayyed Nasrallah, leader del partito radicale sciita, ha aggiunto che non permetterà nessun arresto dei membri della sua organizzazione. Anche l'Iran nelle scorse settimane è sceso in campo a fianco degli Hezbollah: l'ayatollah Khamenei ha affermato che il verdetto del tribunale Onu sarà «nullo e privo di valore». Malgrado il pressing di Hezbollah il premier Saad Hariri ha rifiutato di disconoscere il Tribunale speciale. Di qui la minaccia di aprire una crisi politica, giunta oggi da Hezbollah.

Obama sostiene Hariri jr.
I rischi della situazione libanese verranno discussi oggi nell'incontro alla Casa Bianca. Obama «incontrerà oggi il primo ministro Hariri per parlare del sostegno Usa alla sovranità, indipendenza e stabilità del Libano», ha spiegato il portavoce Robert Gibbs. Il presidente americano ha discusso per telefono della crisi libanese anche con il re saudita Abdallah, che si trova a New York dove è stato sottoposto recentemente a un'operazione chirurgica.
Analoghi colloqui si sono svolti tra il primo ministro Hariri e il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, la quale si è definita «fortemente preoccupata per gli attuali tentativi di destabilizzare il Libano».

http://www.ilsole24ore.com/art/notiz...?uuid=AYaQKCzC

domenica 2 gennaio 2011

L'Onu verso la condanna di Hezbollah per l'omicidio Hariri. Iran: la sentenza non ha valore

L'Iran sta preparando la reazione all'imminente sentenza del tribunale speciale dell'Onu per il Libano sull'uccisione dell'ex primo ministro libanese Rafik Hariri. L'ayatollah Ali Khamenei, guida suprema di Teheran, lunedì ha detto che la sentenza del tribunale dell'Onu (che ha puntato il dito accusatore prima sulla Siria e poi su Hezbollah) «è nulla e priva di valore».

Anche Hezbollah ha rilasciato una dichiarazione – secondo quanto riporta il giornale libanese The Daily Star e la Press Tv iraniana – in cui accusa il Tribunale speciale dell'Onu di «preparare una falsa sentenza che coinvolgerebbe alcuni membri di Hezbollh stesso» nell'assassinio dell'ex primo ministro Rafik Hariri. Sayyed Nasrallah, leader di Heazbolah, ha poi aggiunto che non permetterà nessun arresto di alcun membro della sua organizzazione.
Pronta la reazione del figlio di Hariri, Saad, oggi primo ministro libanese che ha detto di rispettare le posizioni della Guida suprema iraniana Ali Khamenei ma «che le risoluzioni internazionali sono risoluzioni internazionali» e quindi vanno rispettate.

Hariri si è già recato recentemente a Damasco - secondo fonti riservate - per invitare la Siria e proseguire nell'opera di mediazione insieme ai sauditi per evitare lo scoppio di nuovi conflitti nella regione.

Ma Teheran ha deciso, in vista del prossimo incontro a Istanbul sul suo controverso piano nucleare, di soffiare sul fuoco e in occasione della sentenza del tribunale dell'Onu (data ormai per imminente dagli iraniani) per minacciare di far esplodere la protesta prima a Beirut, dove alcuni analisti paventano addirittura un colpo di stato per imporre uno stato islamico con a capo Nasrallah e cacciare i filo-occidentali) e poi far aumentare la tensione al confine con Israele e far naufragare senza appello i negoziati di pace israelo-palestinesi.

Non a caso nel corso del suo recente viaggio in Libano il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha chiarito cosa intenda quando definisce il sud del Libano «la frontiera dell'Iran con Israele». In conferenza stampa nel palazzo presidenziale di Baabda Ahmadinejad ha detto che «è necessario liberare la Palestina, occorre porre fine all'occupazione israeliana delle terre palestinesi, siriane e libanesi, in caso contrario l'area non vedrà mai la luce». Retorica populista per accreditarsi presso le masse arabe e sunnite?

Può darsi, ma resta il fatto che Ahmadinejad in Libano si è comportato come un signore in visita al suo feudo che non tollererà una sentenza che metterebbe sul banco degli accusati proprio Hezbollah, il suo fedele alleato nel paese dei cedri. Ecco perché da Teheran la guida suprema Khamenei ha messo le mani avanti dichiarando in anticipo «nullo e senza valore» il prossimmo verdetto del tribunale speciale dell'Onu. In caso contrario Teheran è pronta a dar fuoco alle polveri al confine meridionale.

Vittorio Da Rold, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-12-31/lonu-condanna-hezbollah-lomicidio-110922.shtml?uuid=AYBPqxvC

giovedì 22 aprile 2010

Se saltano le regole al confine siro-libanese

di Jonathan Spyer


La convocazione al Dipartimento di stato americano del vice capo della missione diplomatica siriana a Washington, Zouheir Jabbour, per riferire sui trasferimenti di armi siriane a Hezbollah non è che l’ultima testimonianza del fatto che le rinnovate tensioni al confine settentrionale d’Israele sono tutt’altro che infondate. La Siria ha ripetutamente smentito i recenti rapporti secondo cui avrebbe autorizzazione il trasferimento ai libanesi Hezbollah di missili balistici Scud-D. Ma la questione degli Scud è solo un particolare, sebbene rilevante, all’interno di un quadro più ampio che è venuto chiaramente a galla sin dall’agosto 2006. Si tratta della realtà entro la quale la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che pose fine alla guerra fra Israele e Hezbollah dell’estate 2006, è stata trasformata in lettera morta dal “blocco della resistenza” costituito da Iran, Siria e Hezbollah.
Vale la pena ricordare che all’epoca la risoluzione 1701 venne sbandierata come un significativo successo della diplomazia. Era la risoluzione che avrebbe dovuto rafforzare la basi della rinnovata sovranità libanese, che allora sembrava possibile dopo il ritiro delle forze armate siriane dal Libano nel 2005. Le sue disposizioni erano assai chiare. La risoluzione prescrive il “disarmo di tutti i gruppi in Libano cosicché … non vi siano né armi né autorità in Libano oltre a quelle dello Stato libanese”. Essa inoltre proibiva esplicitamente “la vendita e fornitura di armi e materiale connesso in Libano ad eccezione di quanto autorizzato dal suo governo”.
Hezbollah e i suoi sostenitori hanno calcolato, a ragione, che né il governo libanese né le Nazioni Unite né la “comunità internazionale” avrebbero avuto la capacità o la volontà di far rispettare queste clausole.
Le Nazioni Unite stesse hanno ammesso la grave inadeguatezza degli arrangiamenti lungo il confine siro-libanese. L’Onu ha condotto due analisi della situazione su quel confine: una nel giugno 2007, l’altra nell’agosto 2008. Il secondo rapporto ha rilevato, per dirla nel linguaggio asciutto di questo genere di documenti, che “anche tenendo conto della difficile situazione politica in Libano durante lo scorso anno”, i progressi verso il conseguimento degli obiettivi enunciati nella risoluzione 1701 sono stati “insufficienti”. La “difficile situazione politica” del 2008 è un riferimento al fatto che l’unico tentativo del governo elettivo libanese di far rispettare la sua sovranità da parte degli alleati nel paese di Siria e Iran era finito nel maggio di quell’anno con la violenta disfatta del governo stesso. Hezbollah e i suoi alleati avevano semplicemente chiarito che qualunque tentativo di interferire con i loro dispositivi militari sarebbe stato affrontato con la forza pura e semplice, e in effetti nessun ulteriore tentativo venne più fatto. Il risultato è stato che negli ultimi tre anni e mezzo, sotto gli occhi indifferenti del resto del mondo, sulle strade che collegano la Siria al Libano è risuonato il rumore dei camion dei fornitori intenti a portare armamenti siriani e iraniani in Libano.
La reazione di Israele è stata quella di tenere d’occhio la situazione e mettere in chiaro che il superamento di certi limiti in termini di tipo, calibro e gittata delle armi messe a disposizione di Hezbollah, sarebbe stato considerato un casus belli. Il recente innalzamento della tensione è dovuto appunto all’emergere di prove che questi limiti vengono impunemente calpestati.
La cosa non è iniziata coi rapporti sugli Scud. Nei mesi scorsi erano già diventate di pubblico dominio le prove di tipi d’armi che indicano una volontà siriana e iraniana di trasformare Hezbollah in una fidata minaccia strategica contro Israele. Tali armi fornite a Hezbollah comprendono missili terra-terra M-600, sistemi missilistici portatili terra-aria Igla-S che possono costituire un pericolo per i caccia israeliani impegnati a monitorare i cieli del Libano meridionale, e ora i sistemi di missili balistici Scud-D. Se i rapporti circa tali armamenti sono corretti, ciò farebbe di Hezbollah il gruppo paramilitare non statale di gran lunga meglio armato al mondo.
Il che non significa che la guerra sia necessariamente imminente. Israele non sembra aver fretta di castigare Hezbollah e la Siria per essersi fatti beffe dei limiti stabiliti. A differenza dei suoi nemici, il governo israeliano deve rendere conto all’opinione pubblica e gli sarebbe difficile giustificare di fronte al pubblico israeliano un intervento preventivo, che potrebbe senz’altro sfociare in una nuova guerra. D’altra parte, anche Hezbollah e Siria non sembrano aver fretta di aprire le ostilità. Hanno semplicemente introiettato il fatto che nulla sembra poter seriamente ostacolare le loro attività attraverso il confine orientale del Libano, e quindi procedono a ritmo sostenuto.
La più chiara lezione di questi ultimi eventi è lo status fittizio di garanzie e risoluzioni internazionali quando non siano sostenute da una reale volontà di farle rispettare. Il fallimento dell’occidente nel garantire il governo elettivo libanese ha permesso di fatto a Hezbollah di impadronirsi del paese. Non aver insistito per l’attuazione della risoluzione 1701 ha consentito a quanto pare la trasformazione strategica di Hezbollah nel corso degli ultimi tre anni e mezzo. Anche se il “blocco della resistenza” non cerca un conflitto nell’immediato, tuttavia nulla indica che i suoi appetiti siano si siano saziati con i suoi recenti guadagni. Leggi, elezioni e accordi non lo ostacolano. Opera, piuttosto, secondo il dettato di un certo “condottiero” tedesco del XX secolo, che disse: “Voi state là con le vostre leggi, io starò qui con le mie baionette: vedremo chi vincerà”. La vera domanda naturalmente è quanto a lungo la vittima designata di tale atteggiamento sia disposta a lasciare che vada avanti.

(Da. Jerusalem Post, 21.4.10)

mercoledì 22 luglio 2009

VINCERA’ IL POPOLO


PARLA SHIRIN EBADI, L’IRANIANA PREMIO NOBEL PER LA PACE


VINCERA’ IL POPOLO

“QUESTA E’ LA RIVOLUZIONE DELLA GENTE, IN IRAN SI E’ ORMAI DIFFUSA UNA MENTALITA’ DEMOCRATICA CHE FINIRA’ CON L’IMPORSI “.
“SONO LAICA MA IN CARCERE HO PREGATO MOLTO”.

Shirin Ebadi è stata il primo magistrato donna dell’Iran. Con la Rivoluzione del 1979 le fu revocata l’autorizzazione e solo nel 1992 le è stata data la possibilità di aprire uno studio di avvocato. Da allora difende, gratuitamente, i perseguitati politici e le vittime del regime. Come Zahra Bani-Yaghub, 27 anni, medico. Sedeva in un parco con il suo fidanzato quando fu arrestata dagli agenti della “buoncostume”. Due giorni dopo il corpo fu restituito alla famiglia: suicidio. Shirin Ebadi è riuscita a dimostrare che nella cella dove si trovava era impossibile impiccarsi. Anche per questo nel 2003 le è stato confermato il premio Nobel per la pace.
La Ebadi è arrivata in Italia grazie alla Fondazione “Alexander Langers” e ha parlato alla regione Toscana, al Senato e alla Camera. Continuerà a sensibilizzare gli animi su quanto sta accadendo, poi tornerà in Iran, dove per lei potrebbe iniziare una nuova stagione di lavoro oppure aprirsi la porta del carcere.
“Sono già stata in carcere. Mi hanno sempre tenuta in isolamento. Per fortuna sono di piccola statura, altrimenti non mi sarei potuta sdraiare nel buco di cemento dov’ero rinchiusa. Non ci davano un cuscino, un libro, nulla. Non c’erano finestre e la luce era sempre accesa, così si perdeva anche la cognizione del tempo. Alla fine si cominciano ad avere le allucinazioni: gli psicologi la chiamano “tortura bianca” “.

Nell’immaginario di molti, l’Islam corrisponde al male. Combattere il regime significa combattere l’Islam?

“La divisione tra religione e Stato è imprescindibile, lo dimostra il fallimento della Rivoluzione iraniana. In tal senso sono assolutamente laica. Da un altro punto di vista, però, sono molto legata alla mia estrazione musulmana. Nutro un profondo rispetto per la religione e, insieme a me, anche gli iraniani che ogni notte gridano “Iddio è grande” dai tetti delle case. Io non sarei sopravvissuta al carcere se non avessi potuto pregare. Laicità non significa disprezzo per la fede, anzi. E’ il solo modo per difendere la religione dalle strumentalizzazioni del potere”.

All’inizio lei ha sostenuto la Rivoluzione, poi ne ha preso le distanze…

“Innescare cambiamenti politici con rivoluzioni è inaccettabile, comporta un prezzo di sangue troppo alto e ingiustizie intollerabili. Però devo ammettere che ci sono stati anche risultati positivi nella coscienza del nostro popolo. Prima del 1979, l’Iran era asservito alla politica statunitense, una condizione di sudditanza che aveva fatto perdere alla popolazione ogni fiducia nel Paese. Con la Rivoluzione gli iraniani sono tornati ad essere artefici del proprio destino”.

Nel 1980 Khamenei, grande nemico di Moussavi, ha preso il posto di Khomeini come Giuda suprema.

“Khomeini aveva un carisma che l’attuale Guida non potrà mai avere”.

C’è chi ritiene che Moussavi, primo ministro dal 1980 al 1989, sia troppo legato all’establishment per guidare l’Iran a un cambiamento profondo.

“Non sono i politici i protagonisti della contestazione ma il popolo. La democrazia è una cultura, non si può imporre ma si sviluppa tra la gente. Gli ultimi avvenimenti hanno creato e diffuso in Iran una mentalità democratica che alla fine arriverà a imporsi. E’ solo questione di tempo. Alcuni politici potrebbero aiutare il processo, altri ritardarlo, ma bisogna lasciare al popolo l’iniziativa di scegliersi i propri rappresentanti”.

Lei entrerà in politica?

“Non sono un politico ma un difensore dei diritti umani. I politici sono alla testa del popolo, devono interpretarne le esigenze e guidarli verso la loro realizzazione. Io mi colloco dietro al popolo e la mia funzione è di controllare che i politici rispettino i diritti fondamentali della gente”.

L’idea di far coincidere lo sciopero generale con il periodo tradizionale di ritiro spirituale in moschea è molto significativa. Quali saranno adesso i prossimi passi della contestazione?

“E’ presto per dirlo. Però adesso tutti dovrebbero aver capito che l’Islam è contro la frode e le bugie, l’uccisione di innocenti, l’incarcerazione di 1.200 persone, in massima parte giovani. Nei filmati si vede che i cecchini hanno ucciso sparando dal tetto di palazzi governativi e la polizia ha attaccato alle tre di notte il dormitorio degli studenti universitari, facendo 5 vittime. Il regime non ha più giustificazioni dal punto di vista religioso e ha perso ogni credibilità dal punto di vista politico. D’altra parte il popolo non è solo, sempre più spesso i religiosi si schierano con i democratici. Anche l’Associazione degli insegnanti del seminario di Qom, una delle più importanti città sante, ha messo in dubbio l’imparzialità del Consiglio dei guardiani, che ha ratificato il risultato delle elezioni. I religiosi hanno anche chiesto che siano rilasciati gli arrestati e puniti coloro che hanno ordinato i pestaggi e le uccisioni”.

Cosa si aspetta da Europa e Usa?

“Più senso di responsabilità. Da quando si è saputo che Nokia e Siemens hanno venduto al regime la tecnologia per controllare l’identità degli utenti della Rete, suggerisco di boicottare i cellulari Nokia. Stiamo pensando di ricorrere contro le multinazionali in sede UE e Onu. Devono capire il male che hanno fatto. Gli agenti del regime hanno bloccato la mia casella di posta elettronica e l’hanno utilizzata per inviare false email a mio nome. Hanno creato un finto sito democratico, invitando le vittime dei pestaggi a denunciare le violenze, fornendo i loro nomi e cognomi, quindi li hanno tutti arrestati. Hanno imprigionato persino Ebrahim Yazdi, un oppositore di quasi ottant’anni, mentre era ricoverato in ospedale. La comunità internazionale è per noi importante. Vorremmo nuove elezioni sotto controllo dell’Onu. Quando l’Iran aderirà al Tribunale penale internazionale, io potrò andare in pensione. Però occorre che le istituzioni internazionali assumano fino in fondo il loro ruolo di garanti”.

Famiglia Cristina n° 28/2009, a cura di Ahmad Gianpiero Vincenzo.

venerdì 5 giugno 2009

AL CUORE DEL PROBLEMA DEL MEDIO ORIENTE

di Salvatore Falzone



La prima visita del Presidente americano, Barack Obama, in Medio Oriente è stata seguita con grande attenzione. Obama, al secondo giorno della sua visita dopo aver incontrato in Arabia il re Abdullah, si è recato in Egitto dove ha incontrato Hosni Mubarak ed ha parlato all’Università del Cairo davanti ad una platea visibilmente ansiosa del suo discorso.

Obama ha parlato in maniera magistrale, ha toccato tutti i punti del problema mediorientale: conflitto arabo-israelo-palestinese, libertà religiosa, diritti delle donne, Iran, politica estera americana e democrazia.

In particolare sul conflitto che oppone arabi e israeliani è stato molto chiaro nell’indicare il “riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile”.

E’ partito da un presupposto molto limpido sul diritto di esistenza dello Stato di Israele ed ha condannato tutti gli stereotipi che alimentano l’odio e la negazione della storia del popolo ebraico.

Rivolgendosi ai palestinesi il Presidente ha ricordato la situazione piena di sofferenza nella quale dal ’48 in poi si sono trovati.

“L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese, alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio”.

Obama ha tracciato la situazione di un problema che è strumentalizzato dagli estremisti per far detonare l’intera regione. Poi, ha deciso di rivolgersi verso i dirigenti chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Per i palestinesi ha fatto riferimento alla cessazione delle violenze, a mostrarsi capaci di essere uniti e governare nella logica del benessere per il popolo nonché procedere ai riconoscimenti dei vari accordi precedenti con Israele. Il riferimento ad Hamas è molto chiaro affinché proceda verso un’ evoluzione politica. Mentre, a Israele ha ricordato come la pace deve essere raggiunta attraverso il mantenimento di tutte le promesse stilate negli accordi precedenti e in particolar modo procedere al blocco degli insediamenti.

“Il progresso reale nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso”.

Infine, si è rivolto agli Stati arabi ricordandogli l’importanza dei Piani ultimamente presentati ma che non cancellano una seria parte di responsabilità. Obama è arrivato dritto al cuore del problema mediorientale: aver utilizzato troppe volte la demonizzazione di Israele per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni. In questo ha implicitamente toccato gli elementi presenti nello scacchiere mediorientale: dittature, ideologie, interesse delle elite, riuscito utilizzo dei capri espiatori, rifiuto di porre fine al conflitto israelo-palestinese.

La forza del discorso di Obama sta nella scelta di rivolgersi direttamente ai musulmani, al popolo tutto. Egli cerca una legittimità della pace attraverso il popolo, cerca di rompere quell’equazione che ha visto, per troppo tempo, i dirigenti arabi succubi dell’odio contro Israele e a favore di una chiusura a qualsiasi normalizzazione.

In definitiva, il Presidente americano, cerca di rompere quella barriera psicologica affinché i dirigenti si trovino ad affrontare il problema con le giuste soluzioni reali e finiscano ad incentivare la polarizzazione verso uno scontro continuo. E chiama quella parte di opinione pubblica, di società civile, cosciente e responsabile a far sentire la sua voce. Di certo, il cammino è ancora lungo e irto di ostacoli, la società civile si trova a confrontarsi con duro indottrinamento misto a repressione da parte dello Stato o dei vari fondamentalismi; mentre necessità di pluralismo, non conformismo, tolleranza, responsabilità individuale, coraggio civile. Ma la speranza – seguita da scelte politiche dei vari attori responsabili - di un cambiamento per quella parte del modo ricca di storia, patrimonio dell’intera umanità, deve avere la meglio.

mercoledì 22 aprile 2009

IL BIVIO IRANIANO

di Salvatore Falzone (pubblicato su Obiettivo Affari&Notizie, Anno XXI - n. 368 - 23 aprile 2009)

Bisogna lavorare per la costruzione della pace nel mondo

L’apparizione del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, alla Conferenza dell’ONU sul razzismo “Durban II”, ha lasciato il segno.

Ahmadinejad non ha perso occasione per attaccare Israele bollandolo come “Stato razzista che governa nella Palestina occupata”.

Il presidente iraniano, ovviamente, dimentica la Risoluzione ONU 181 del ’47 che prevedeva la spartizione della Palestina storica in due stati: Stato arabo di Palestina e Stato di Israele. E dimentica che tale Risoluzione fu rifiutata interamente dagli arabi i quali mossero guerra. Alla fine del primo conflitto arabo-israeliano la situazione dei palestinesi fu paradossale “anzi il popolo di Palestina si trovò pesantemente condizionato dalla presenza e dai calcoli politici delle nazioni alle quali chiese aiuto”. (Salvatore Falzone, Nel nostro tempo tra terrorismo e conflitto israelo-palestinese, ed. Bonfirraro 2007, pag. 39)

In realtà i leader della Repubblica Islamica non sono nuovi alle accuse contro Israele. Basti ricordare le diverse conferenze che Teheran ha promosso contro lo Stato ebraico. E’ dall’ottobre del 2005, prima Conferenza dell’era Ahmadinejad, Conferenza su “Un mondo senza sionismo”, che il presidente auspica la sparizione d’Israele dalla carta geografica del Medio Oriente in quanto lo paragona ora ad un elemento estraneo alla società mediorientale, ora ad un male incurabile che deve essere estirpato! E in occasione della “Quarta conferenza internazionale a sostegno della Palestina, modello di resistenza”, che si è tenuta a Teheran il 3 marzo scorso, sia la Guida spirituale, Alì Khamenei, che il Presidente Ahmadinejad, hanno pesantemente attaccato Israele con discorsi paragonabili alle follie e bestialità del regime nazista di Hitler.

“La missione del sionismo è quella di minacciare costantemente il mondo, di impedire il progresso delle nazioni, di preparare il terreno per la presa in possesso della regione e del resto del mondo da parte di quelle superpotenze, di seminare divisioni, di aprire al mercato delle armi occidentali, di depredare le risorse dei popoli oppressi ed anche di prendere il controllo sui popoli di Europa e America. In effetti il regime sionista è la spada avvelenata al servizio della rete del sionismo globale e delle arroganti potenze nella nostra regione e nel mondo intero.” (www.israele.net)

Una retorica che non aiuta per niente la stabilizzazione dell’intera regione e facilita l’attività di scontro messe in atto da Hamas e Hezbollah, organizzazioni appoggiate dall’Iran. La guerra d’estate 2006 tra Hezbollah e Israele e gli scontri durante l’Operazione “Pioggia d’estate del 2006 e l’Operazione “Piombo fuso” del 2008-2009 nascono da una volontà di perpetuare il circolo vizioso di attacco- rappresaglia –guerra.

Questa aggressività dipende dal fatto che oggi la Repubblica Islamica si trova in una situazione di isolamento internazionale e di avere gravi problemi interni quali l’alto tasso di disoccupazione, inflazione e una società, specie tra i più giovani, stanca della retorica del regime.

Una prova delle difficoltà in cui versa l’Iran è data dalle manifestazioni organizzate dai vari apparati che invocano “morte all’America e a Israele”. Esse non sono altro che delle manovre propagandistiche organizzate per dare un’apparenza di unità e mascherare il malcontento della gente. Nel mese di giugno si terranno le elezioni presidenziali alle quali la politica fallimentare di Ahmadinejad dovrà sottoporsi al giudizio popolare. Si spera che la popolazione partecipi senza lasciare il proprio diritto di decidere sul proprio futuro alle parti estremiste. Il popolo iraniano è chiamato a traghettare il paese verso quelle scelte pacifiche, tanto auspicate dal Presidente Usa Obama, per dimostrare la forza del popolo e la grandezza della civiltà iraniana.