Il presidente americano annuncia in televisione la morte del leader di Al Qaeda: "Ho dato indicazioni alla Cia di considerare questo come il nostro obiettivo prioritario".
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato al mondo la morte di Osama Bin Laden con questo discorso:
"Buona sera. Questa notte posso riferire alla gente d'America e al mondo che gli Stati Uniti hanno portato a termine un'operazione in cui è stato ucciso Osama Bin Laden, il leader di Al Qaida, un terrorista che è responsabile dell'omicidio di migliaia di uomini, donne e bambini innocenti. Sono passati quasi dieci anni da quel giorno luminoso di settembre oscurato dal peggiore attacco della nostra storia contro americani. Le immagini dell'11 settembre sono scolpite nella nostra memoria nazionale: aerei dirottati comparire all'improvviso in un limpido cielo di settembre; le torri gemelle collassare al suolo; un fumo nero alzarsi dal Pentagono; il disastro del volo 93 in Shanksville, in Pennsylvania, dove le azioni di cittadini eroici hanno consentito di evitare una distruzione e un dolore ancora maggiori".
"Tuttavia sappiamo che le immagini peggiori sono quelle che non sono state viste alla luce del sole. La sedia vuota di una famiglia a tavola. I bambini che sono stati costretti a crescere senza la madre o il padre. I genitori che non proveranno mai più l'abbraccio del figlio. Quasi tremila persone strappate da noi, che hanno lasciato un vuoto nei nostri cuori. L'11 settembre 2001 la gente d'America nel momento del lutto si è stretta insieme. Abbiamo offerto una mano ai vicini, il sangue ai feriti. Abbiamo riaffermato i legami che ci uniscono l'uno all'altro e il nostro amore per la comunità e il Paese. Quel giorno, non importa da dove venissimo né quale Dio pregassimo o di quale razza fossimo, noi eravamo uniti come una sola famiglia di americani. Eravamo uniti anche nella determinazione di proteggere la nostra Nazione e di di rendere alla giustizia coloro che avevano commesso questo attacco spregevole. Venimmo rapidamente a conoscenza che gli attacchi dell'11 settembre erano stati portati da Al Qaida, un'organizzazione terroristica guidata da Osama Bin Laden, che aveva apertamente dichiarato guerra agli stati Uniti e che era determinata ad uccidere innocenti nel nostro paese e nel mondo. Così siamo andati in guerra contro Al Qaida per proteggere i nostri cittadini, i nostri amici, i nostri alleati".
"Negli ultimi dieci anni grazie al lavoro eroico delle nostre Forze Armate e del nostro antiterrorismo, abbiamo ottenuto grandi risultati in questo sforzo. Abbiamo smantellato attacchi terroristici e rafforzato la nostra difesa interna. In Afganistan abbiamo rimosso il governo dei Talebani, che aveva dato a Bin Laden e ad Al Qaida rifugio e sostegno. E nel mondo abbiamo lavorato con i nostri amici e alleati per catturare o uccidere membri di Al Qaida, compresi molti di quelli che presero parte al complotto dell'11 settembre. Tuttavia Osama Bin Laden era riuscito ad evitare la cattura e a fuggire dall'Afganistan in Pakistan. Nello stesso tempo Al Qaida ha continuato ad operare da quella zona di confine nel mondo attraverso i suoi affiliati".
"Per questo poco dopo aver assunto l'incarico ho dato indicazioni a Leon Panetta, il Direttore della CIA, di considerare la cattura o l'uccisione di Bin Laden la priorità della guerra contro Al Qaida, anche se noi continuavamo il nostro più ampio impegno per distruggere, smantellare e sconfiggere la sua rete. Poi nell'agosto scorso dopo anni di lavoro senza sosta della nostra Intelligens mi è stato riferito di un possibile accesso a Bin Laden. Non era certo e ci sono voluti molti mesi per abbattere questa minaccia. Mi sono riunito ripetutamente con la mia squadra di sicurezza nazionale per raccogliere più informazioni sulla possibilità che Bin Laden era stato localizzato in un rifugio nascosto in Pakistan. La scorsa settimana ho deciso che avevamo informazioni di intelligens sufficenti per agire e ho autorizzato l'operazione per prendere osama Bin Laden e assicurarlo alla giustizia".
"Oggi, sotto la mia direzione, gli Stati Uniti hanno lanciato un'operazione mirata contro quel rifugio ad Abbottabad, in Pakistan. Una piccola squadra di americani ha portato a termine l'operazione con coraggio e capacità straordinarie. nessun americano è rimasto ferito. Hanno fatto attenzione a evitare vittime civili. E dopo un conflitto a fuoco hanno ucciso Bin Laden e hanno preso in custodia il suo corpo. Per oltre due decenni Bin Laden è stato il leader e il simbolo di Al Qaida e ha continuato a pianificare attacchi contro il nostro paese e alleati. La morte di Bin Laden segna il risultato significativo nell'impegno della nostra nazione di sconfiggere Al Qaida. Tuttavia la sua morte non segna la fine del nostro impegno. Non ci sono dubbi sul fatto che Al Qaida continuerà a perseguire attacchi contro di noi. Noi dobbiamo rimanere vigili in patria e fuori, e lo saremo".
"Nel fare questo, dobbiamo anche riaffermare anche che gli Stati Uniti non sono in guerra con l'Islam e non lo saranno mai. Ho sempre detto in modo chiaro, così come ha fatto il Presidente Bush dopo l'11 settembre che la nostra guerra non è contro l'Islam. Bin Laden non era un leader musulmano: era un assassino di massa di musulmani. Al Qaida ha davvero ucciso musulmani in molti paesi incluso il nostro. Per questo la sua sconfitta dovrebbe essere accolta con favore da tutti coloro che credono nella pace e nella dignità umana. Nel corso degli anni ho ripetutamente chiarito che noi avremmo agito in Pakistan se avessimo saputo dove Bin Laden si trovava. E' ciò che abbiamo fatto. Ma è importante precisare che la cooperazione del nostro antiterrorismo con il Pakistan ha contribuito a portarci a Bin Laden e all'edificio in cui si nascondeva. Bin Laden aveva dichiarato guerra contro il Pakistan e contro i pakistani".
La minaccia del terrorismo internazionale connota l'attuale fase di trasformazione del sistema politico internazionale. Una ricostruzione delle vicende storico-politiche che hanno scosso l'intero pianeta. Da una parte lo Stato d'Israele e dall'altra la nascita dell'Autorità Nazionale Palestinese, dietro l'affermarsi del terrorismo.
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lunedì 2 maggio 2011
sabato 5 febbraio 2011
"Errori sull'Egitto come con l'Iran" Su Obama lo spettro di Carter
Le accusa di idealismo affiorano nei commenti di stampa e sui blog specializzati. Nuova apertura del presidente Usa ai manifestanti: "Sentiamo la vostra voce"
di VITTORIO ZUCCONI
C'È uno spettro che si aggira nella Casa Bianca: il suo nome è Jimmy Carter. È il volto dell'uomo che incarnò dolorosamente i limiti delle buone intenzioni. A ogni ora che sgocciola via senza uno happy ending in Egitto, Obama deve camminare al buio, grazie a servizi di intelligence ancora una volta addormentati e colti di sorpresa, come nella Russia del dopo Breznev, come nell'Iran dello Scià, come nell'Egitto di Mubarak, sul filo esilissimo teso fra le pressioni per cambiare l'amico di ieri e la sensazione che l'America voglia cucirsi un dopo-regime su misura, sapendo che non esistono opzioni militari da sganciare sul Cairo per cambiare regime a forza.
Il ricordo del disastro del 1979, che come oggi ha visto la Cia e i servizi di spionaggio clamorosamente colti alla sprovvista da un evento epocale, torna come brividi di una febbre che puntualmente riaffiora quando Washington misura la distanza che corre fra predicare la democrazia in casa altrui e ottenerla. Sono giorni che qui ricordano troppo da vicino il trono dello Scià spazzato via dalle piazze in rivolta a Teheran, e l'Iran trasformato dal più solido alleato americano nella regione al mortale nemico dell'Occidente satanico, mentre Carter esitava e si torceva impotente le mani, fino alla cattura degli ostaggi e alla disastrosa spedizione per liberarli. Gli eventi che diedero il colpo di grazia alla vacillante presidenza di Carter.
Comincia, sulle pagine dei giornali, nelle chat e nei blog della Rete, nelle domande dei giornalisti che ieri sera hanno confrontato
il Presidente in diretta teletrasmessa, a riaffiorare la maledizione di una domanda che ricorre a ogni crisi internazionale, dagli anni della vittoria dei comunisti di Mao Zedong sui nazionalisti di Chang Kaishek in Cina (altra "sorpresa"): chi ha perso l'Egitto? Per ora, sulle pubblicazioni come il National Journal o nei blog degli esperti di cose mediorientali come il professor Juan Cole, la risposta è ancora negativa, o cauta. Barack Obama non è Jimmy Carter, l'Egitto non è l'Iran, la piazza del Cairo non è pilotata dai chierici sciiti fondamentalisti e, soprattutto, l'Egitto non è ancora stato perso da nessuno.
Anzi, la sterzata che Obama e Hillary Clinton hanno impresso alla posizione americana passando dall'attendismo pilatesco e chiaramente spiazzato delle prime ore alla richiesta pubblica di andarsene subito, ripetuta anche ieri sera a Mubarak, fanno credere che questa volta, a differenza di trentadue anni or sono, l'America abbia virato per non trovarsi a veleggiare controvento.
Ma il confine fra invocare l'intervento politico degli Usa e maledirne l'ingerenza nel resto del mondo, è sempre labilissimo, perché i precedenti contano. Nell'identificazione fra il detestato regime del "Pavone", il trono dei Pahlavi, e quell'America che aveva organizzato il rovesciamento del presidente eletto, Mossadeq, per controllare il petrolio iraniano, immediatamente collocò Washington fra i demoni da esorcizzare. Anche nell'Egitto del 2011 i trent'anni di sostegno a Hosni Mubarak appannano la credibilità della Casa Bianca, come quella degli europei.
"Sentiamo la vostra voce", ha ripetuto ieri Obama. Per ora, anche l'opposizione repubblicana a Obama si affida alle scelte del Presidente senza contestarle, come ha fatto uno dei massimi leader repubblicani, il senatore Mitch O'Connell. Emergono, ma senza acuti isterici o scatti di islamofobia, le paure per il movimento dei Fratelli Mussulmani, la sola grande forza organizzata nell'opposizione a Mubarak. Si sa, e rassicura, che l'Egitto, con modeste riserve di greggio, per sopravvivere deve necessariamente affidarsi al resto del mondo e ai suoi buoni rapporti internazionali, così come il suo esercito si regge sui due milioni di dollari americani annui per esistere.
Eppure, un elemento in comune fra il 2011 e il 1979 che spalancò la porta a Reagan dopo l'umiliazione di Carter esiste e inquieta i giorni della Casa Bianca. Come Carter, uomo di impeccabile reputazione e di immensa buona volontà tradotte nella pace di Camp David fra Begin e Sadat, anche Obama appare come un uomo mosso dalle migliori intenzioni, ma incapace di tradurle in azione. Israele, con Netanyahu troppo debole in casa propria, gli ha sbattuto la porta in faccia alla richiesta di congelare la propria espansione nelle terre che dovrebbero formare il futuro stato palestinese. L'Iran ha continuato a muoversi sulla strada dell'energia nucleare. La Cina non dà alcun segno di allentare la morsa sul dissenso né di permettere alla propria moneta di flottare sui mercati e quindi di ridurre la competitività delle sue esportazioni drogata dal basso valore del renminbi.
Obama predica bene, come bene predicava il devotissimo insegnante di dottrina georgiano, Jimmy Carter, ma il mondo non ascolta. Resta la sincera, solenne invocazione alla "democrazia" ripetuta anche ieri sera, senza sapere che cosa la democrazia possa produrre. Negli anni del dopoguerra, quando in Grecia si tennero libere elezioni che i comunisti sembravano certi di vincere, fu chiesto al presidente Eisenhower se si rendesse conto del rischio. "È il rischio della democrazia - rispose imperturbabile il vecchio generale - quando la si invoca, poi di deve essere pronti a vivere con i suoi risultati".
(05 febbraio 2011) http://www.repubblica.it/esteri/2011/02/05/news/errori_sull_egitto_come_con_l_iran_su_obama_lo_spettro_di_carter-12081081/?ref=HREA-1
di VITTORIO ZUCCONI
C'È uno spettro che si aggira nella Casa Bianca: il suo nome è Jimmy Carter. È il volto dell'uomo che incarnò dolorosamente i limiti delle buone intenzioni. A ogni ora che sgocciola via senza uno happy ending in Egitto, Obama deve camminare al buio, grazie a servizi di intelligence ancora una volta addormentati e colti di sorpresa, come nella Russia del dopo Breznev, come nell'Iran dello Scià, come nell'Egitto di Mubarak, sul filo esilissimo teso fra le pressioni per cambiare l'amico di ieri e la sensazione che l'America voglia cucirsi un dopo-regime su misura, sapendo che non esistono opzioni militari da sganciare sul Cairo per cambiare regime a forza.
Il ricordo del disastro del 1979, che come oggi ha visto la Cia e i servizi di spionaggio clamorosamente colti alla sprovvista da un evento epocale, torna come brividi di una febbre che puntualmente riaffiora quando Washington misura la distanza che corre fra predicare la democrazia in casa altrui e ottenerla. Sono giorni che qui ricordano troppo da vicino il trono dello Scià spazzato via dalle piazze in rivolta a Teheran, e l'Iran trasformato dal più solido alleato americano nella regione al mortale nemico dell'Occidente satanico, mentre Carter esitava e si torceva impotente le mani, fino alla cattura degli ostaggi e alla disastrosa spedizione per liberarli. Gli eventi che diedero il colpo di grazia alla vacillante presidenza di Carter.
Comincia, sulle pagine dei giornali, nelle chat e nei blog della Rete, nelle domande dei giornalisti che ieri sera hanno confrontato
il Presidente in diretta teletrasmessa, a riaffiorare la maledizione di una domanda che ricorre a ogni crisi internazionale, dagli anni della vittoria dei comunisti di Mao Zedong sui nazionalisti di Chang Kaishek in Cina (altra "sorpresa"): chi ha perso l'Egitto? Per ora, sulle pubblicazioni come il National Journal o nei blog degli esperti di cose mediorientali come il professor Juan Cole, la risposta è ancora negativa, o cauta. Barack Obama non è Jimmy Carter, l'Egitto non è l'Iran, la piazza del Cairo non è pilotata dai chierici sciiti fondamentalisti e, soprattutto, l'Egitto non è ancora stato perso da nessuno.
Anzi, la sterzata che Obama e Hillary Clinton hanno impresso alla posizione americana passando dall'attendismo pilatesco e chiaramente spiazzato delle prime ore alla richiesta pubblica di andarsene subito, ripetuta anche ieri sera a Mubarak, fanno credere che questa volta, a differenza di trentadue anni or sono, l'America abbia virato per non trovarsi a veleggiare controvento.
Ma il confine fra invocare l'intervento politico degli Usa e maledirne l'ingerenza nel resto del mondo, è sempre labilissimo, perché i precedenti contano. Nell'identificazione fra il detestato regime del "Pavone", il trono dei Pahlavi, e quell'America che aveva organizzato il rovesciamento del presidente eletto, Mossadeq, per controllare il petrolio iraniano, immediatamente collocò Washington fra i demoni da esorcizzare. Anche nell'Egitto del 2011 i trent'anni di sostegno a Hosni Mubarak appannano la credibilità della Casa Bianca, come quella degli europei.
"Sentiamo la vostra voce", ha ripetuto ieri Obama. Per ora, anche l'opposizione repubblicana a Obama si affida alle scelte del Presidente senza contestarle, come ha fatto uno dei massimi leader repubblicani, il senatore Mitch O'Connell. Emergono, ma senza acuti isterici o scatti di islamofobia, le paure per il movimento dei Fratelli Mussulmani, la sola grande forza organizzata nell'opposizione a Mubarak. Si sa, e rassicura, che l'Egitto, con modeste riserve di greggio, per sopravvivere deve necessariamente affidarsi al resto del mondo e ai suoi buoni rapporti internazionali, così come il suo esercito si regge sui due milioni di dollari americani annui per esistere.
Eppure, un elemento in comune fra il 2011 e il 1979 che spalancò la porta a Reagan dopo l'umiliazione di Carter esiste e inquieta i giorni della Casa Bianca. Come Carter, uomo di impeccabile reputazione e di immensa buona volontà tradotte nella pace di Camp David fra Begin e Sadat, anche Obama appare come un uomo mosso dalle migliori intenzioni, ma incapace di tradurle in azione. Israele, con Netanyahu troppo debole in casa propria, gli ha sbattuto la porta in faccia alla richiesta di congelare la propria espansione nelle terre che dovrebbero formare il futuro stato palestinese. L'Iran ha continuato a muoversi sulla strada dell'energia nucleare. La Cina non dà alcun segno di allentare la morsa sul dissenso né di permettere alla propria moneta di flottare sui mercati e quindi di ridurre la competitività delle sue esportazioni drogata dal basso valore del renminbi.
Obama predica bene, come bene predicava il devotissimo insegnante di dottrina georgiano, Jimmy Carter, ma il mondo non ascolta. Resta la sincera, solenne invocazione alla "democrazia" ripetuta anche ieri sera, senza sapere che cosa la democrazia possa produrre. Negli anni del dopoguerra, quando in Grecia si tennero libere elezioni che i comunisti sembravano certi di vincere, fu chiesto al presidente Eisenhower se si rendesse conto del rischio. "È il rischio della democrazia - rispose imperturbabile il vecchio generale - quando la si invoca, poi di deve essere pronti a vivere con i suoi risultati".
(05 febbraio 2011) http://www.repubblica.it/esteri/2011/02/05/news/errori_sull_egitto_come_con_l_iran_su_obama_lo_spettro_di_carter-12081081/?ref=HREA-1
mercoledì 12 gennaio 2011
In Libano è crisi di governo. 10 ministri di Hezbollah si dimettono contro la sentenza sull'omicidio Hariri.
Il governo di unità nazionale in Libano è in crisi. Dieci ministri di Hezbollah si sono dimessi nel giorno in cui il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riceve alla Casa Bianca il primo ministro libanese, Saad Hariri, per discutere, tra l'altro, dell'inchiesta internazionale sulla morte del padre di Saad, Rafik, ucciso nel 2005 in un attentato. Il verdetto del Tribunale speciale per il Libano dovrebbe arrivare a breve e la condanna del "Partito di Dio" è altamente probabile. Per questo i ministri di Hezbollah hanno abbandonato l'esecutivo.
Hezbollah lascia governo
Dieci ministri dell'opposizione libanese guidata dal movimento sciita Hezbollah hanno presentato poco fa le dimissioni, aprendo così ufficialmente la crisi del governo di unità nazionale del premier Saad Hariri. L'annuncio, in diretta televisiva, è stato dato da uno dei ministri dimissionari, mentre il premier Saad Hariri arrivava alla Casa Bianca a Washington per un incontro con il presidente Barack Obama.
L'apertura di una crisi di governo (che conta 30 ministri) era già nell'aria ieri sera, quando esponenti dell'opposizione avevano affermato che l'iniziativa avviata a luglio da Siria e Arabia Saudita per superare lo stallo politico in Libano «è giunta ad un punto morto».
Uno stallo provocato dal braccio di ferro con il movimento Hezbollah sulla richiesta al premier Hariri di interrompere la collaborazione con il Tribunale speciale per il Libano (Tsl) che indaga sull'assassinio nel 2005 dell'ex premier Rafik Hariri.
Il Tsl ha sede in Olanda ed è presieduto dal giudice italiano Antonio Cassese, e prevedibilmente nelle prossime settimane dovrebbe giungere all'incriminazione di alcuni membri dello stesso Hezbollah. Questa mattina, i ministri dell'opposizione avevano esplicitamente minacciato di dimettersi se non fosse stata accolta la loro richiesta di convocare una riunione dell' esecutivo per prendere una decisione relativa proprio alla questione del Tribunale internazionale, che Hezbollah definisce «un progetto israeliano» per screditarlo.
L'Iran non riconosce verdetto
Sayyed Nasrallah, leader del partito radicale sciita, ha aggiunto che non permetterà nessun arresto dei membri della sua organizzazione. Anche l'Iran nelle scorse settimane è sceso in campo a fianco degli Hezbollah: l'ayatollah Khamenei ha affermato che il verdetto del tribunale Onu sarà «nullo e privo di valore». Malgrado il pressing di Hezbollah il premier Saad Hariri ha rifiutato di disconoscere il Tribunale speciale. Di qui la minaccia di aprire una crisi politica, giunta oggi da Hezbollah.
Obama sostiene Hariri jr.
I rischi della situazione libanese verranno discussi oggi nell'incontro alla Casa Bianca. Obama «incontrerà oggi il primo ministro Hariri per parlare del sostegno Usa alla sovranità, indipendenza e stabilità del Libano», ha spiegato il portavoce Robert Gibbs. Il presidente americano ha discusso per telefono della crisi libanese anche con il re saudita Abdallah, che si trova a New York dove è stato sottoposto recentemente a un'operazione chirurgica.
Analoghi colloqui si sono svolti tra il primo ministro Hariri e il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, la quale si è definita «fortemente preoccupata per gli attuali tentativi di destabilizzare il Libano».
http://www.ilsole24ore.com/art/notiz...?uuid=AYaQKCzC
Hezbollah lascia governo
Dieci ministri dell'opposizione libanese guidata dal movimento sciita Hezbollah hanno presentato poco fa le dimissioni, aprendo così ufficialmente la crisi del governo di unità nazionale del premier Saad Hariri. L'annuncio, in diretta televisiva, è stato dato da uno dei ministri dimissionari, mentre il premier Saad Hariri arrivava alla Casa Bianca a Washington per un incontro con il presidente Barack Obama.
L'apertura di una crisi di governo (che conta 30 ministri) era già nell'aria ieri sera, quando esponenti dell'opposizione avevano affermato che l'iniziativa avviata a luglio da Siria e Arabia Saudita per superare lo stallo politico in Libano «è giunta ad un punto morto».
Uno stallo provocato dal braccio di ferro con il movimento Hezbollah sulla richiesta al premier Hariri di interrompere la collaborazione con il Tribunale speciale per il Libano (Tsl) che indaga sull'assassinio nel 2005 dell'ex premier Rafik Hariri.
Il Tsl ha sede in Olanda ed è presieduto dal giudice italiano Antonio Cassese, e prevedibilmente nelle prossime settimane dovrebbe giungere all'incriminazione di alcuni membri dello stesso Hezbollah. Questa mattina, i ministri dell'opposizione avevano esplicitamente minacciato di dimettersi se non fosse stata accolta la loro richiesta di convocare una riunione dell' esecutivo per prendere una decisione relativa proprio alla questione del Tribunale internazionale, che Hezbollah definisce «un progetto israeliano» per screditarlo.
L'Iran non riconosce verdetto
Sayyed Nasrallah, leader del partito radicale sciita, ha aggiunto che non permetterà nessun arresto dei membri della sua organizzazione. Anche l'Iran nelle scorse settimane è sceso in campo a fianco degli Hezbollah: l'ayatollah Khamenei ha affermato che il verdetto del tribunale Onu sarà «nullo e privo di valore». Malgrado il pressing di Hezbollah il premier Saad Hariri ha rifiutato di disconoscere il Tribunale speciale. Di qui la minaccia di aprire una crisi politica, giunta oggi da Hezbollah.
Obama sostiene Hariri jr.
I rischi della situazione libanese verranno discussi oggi nell'incontro alla Casa Bianca. Obama «incontrerà oggi il primo ministro Hariri per parlare del sostegno Usa alla sovranità, indipendenza e stabilità del Libano», ha spiegato il portavoce Robert Gibbs. Il presidente americano ha discusso per telefono della crisi libanese anche con il re saudita Abdallah, che si trova a New York dove è stato sottoposto recentemente a un'operazione chirurgica.
Analoghi colloqui si sono svolti tra il primo ministro Hariri e il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, la quale si è definita «fortemente preoccupata per gli attuali tentativi di destabilizzare il Libano».
http://www.ilsole24ore.com/art/notiz...?uuid=AYaQKCzC
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sabato 4 luglio 2009
SIRIA - USA: LA SVOLTA?

La Siria è un importante Stato nello scacchiere mediorientale, ai tempi dell’Amministrazione Bush i siriani erano stati indicati come i reggenti di uno “Stato canaglia”. Il presidente siriano, Bashar al Assad , subentrato dopo la morte del padre, ha ereditato un paese dove necessitavano importanti riforme. Inizialmente, il presidente, aveva lanciato segnali in tal senso, basti pensare ad una stampa non più costretta a celebrare i fasti del regime o all’apertura di dibattiti politici e culturali nel proprio paese. Ben presto, però, il partito/Stato Baath con una nomenclatura ingessata in chiusure ideologiche fece sentire tutto il suo peso e la sua potente forza. In poco tempo dalla “Primavera di Damasco” si era passati ad un periodo molto buio.
Lo stesso Assad riferisce, nel corso di un’intervista al settimanale l’Espresso del 15 maggio 08, che “E’ inevitabile che sorgono contrasti quando si inizia un processo di rinnovamento a ritmi incalzanti. Questo conflitto all’interno del Baath è però già stato risolto nel congresso del 2005,[…] Ammetto che non tutto è stato ancora realizzato. Sul fronte della corruzione, per esempio, abbiamo ottenuto buoni risultati al vertice della piramide. Ma molto rimane da fare alla base, a causa di uno sviluppo amministrativo troppo lento”.
Con la nuova amministrazione USA, grazie ai primi interventi di Barack Obama: disimpegno dall’Iraq, chiusura del carcere di Guantanamo e discorso al Cairo, l’America si è presentata con una nuova credibilità e come una forza politica quindi non più come solo una forza militare. Un nuovo clima di speranza si è instaurato, tanto che Assad ha invitato Obama a recarsi per una visita in Siria. Assad non fissa paletti, dice di voler “parlare della pace nella regione” e sottolinea che “ogni vertice tra capi di stato è positivo anche se non si è d’accordo su tutto, si possono accorciare le distanze”.
E’ evidente che il presidente siriano cerca nella mediazione americana un aiuto concreto per far uscire dall’impasse il groviglio mediorientale. Un groviglio che vede la questione siro-israeliana e la questione israelo–palestinese ancora da risolvere.
Dal ’91 in poi, la questione siro-israeliana è stata, al centro di vari tentativi di dialogo e negoziazioni da parte dei rispettivi governi. I territori delle Alture del Golan e delle Fattorie di Shebaa sono stati al centro di negoziazioni, ma ancora ad oggi restano delle divergenze territoriali e sulla sicurezza dei due gli attori. Sulla questione palestinese, ancora oggi restano problemi ma è chiaro che la formazione di uno Stato di Palestina (Gaza e Cisgiordania) con il giusto riconoscimento è la soluzione. Il principio dei due popoli per due Stati con i diritti riconosciuti deve essere irreversibile.
La storia dei negoziati ha mostrato che scegliere solo di affrontare una sola questione senza concentrarsi nella sua globalità, e di conseguenza accantonare l’altra seppur temporaneamente, ha degli effetti molto negativi sia sull’approccio diplomatico che sulla disposizione dell’opinione pubblica verso gli inevitabili compromessi.
Con l’invito di Assad ad Obama, ed una eventuale visita di quest’ultimo, il presidente americano potrebbe dare attraverso la sua credibilità quella forza necessaria per riuscire ad infrangere i tabù, nei quali solo i falchi di tutte le parti interessate hanno da guadagnare, per far decollare la pace che l’intera regione merita.
Lo stesso Assad riferisce, nel corso di un’intervista al settimanale l’Espresso del 15 maggio 08, che “E’ inevitabile che sorgono contrasti quando si inizia un processo di rinnovamento a ritmi incalzanti. Questo conflitto all’interno del Baath è però già stato risolto nel congresso del 2005,[…] Ammetto che non tutto è stato ancora realizzato. Sul fronte della corruzione, per esempio, abbiamo ottenuto buoni risultati al vertice della piramide. Ma molto rimane da fare alla base, a causa di uno sviluppo amministrativo troppo lento”.
Con la nuova amministrazione USA, grazie ai primi interventi di Barack Obama: disimpegno dall’Iraq, chiusura del carcere di Guantanamo e discorso al Cairo, l’America si è presentata con una nuova credibilità e come una forza politica quindi non più come solo una forza militare. Un nuovo clima di speranza si è instaurato, tanto che Assad ha invitato Obama a recarsi per una visita in Siria. Assad non fissa paletti, dice di voler “parlare della pace nella regione” e sottolinea che “ogni vertice tra capi di stato è positivo anche se non si è d’accordo su tutto, si possono accorciare le distanze”.
E’ evidente che il presidente siriano cerca nella mediazione americana un aiuto concreto per far uscire dall’impasse il groviglio mediorientale. Un groviglio che vede la questione siro-israeliana e la questione israelo–palestinese ancora da risolvere.
Dal ’91 in poi, la questione siro-israeliana è stata, al centro di vari tentativi di dialogo e negoziazioni da parte dei rispettivi governi. I territori delle Alture del Golan e delle Fattorie di Shebaa sono stati al centro di negoziazioni, ma ancora ad oggi restano delle divergenze territoriali e sulla sicurezza dei due gli attori. Sulla questione palestinese, ancora oggi restano problemi ma è chiaro che la formazione di uno Stato di Palestina (Gaza e Cisgiordania) con il giusto riconoscimento è la soluzione. Il principio dei due popoli per due Stati con i diritti riconosciuti deve essere irreversibile.
La storia dei negoziati ha mostrato che scegliere solo di affrontare una sola questione senza concentrarsi nella sua globalità, e di conseguenza accantonare l’altra seppur temporaneamente, ha degli effetti molto negativi sia sull’approccio diplomatico che sulla disposizione dell’opinione pubblica verso gli inevitabili compromessi.
Con l’invito di Assad ad Obama, ed una eventuale visita di quest’ultimo, il presidente americano potrebbe dare attraverso la sua credibilità quella forza necessaria per riuscire ad infrangere i tabù, nei quali solo i falchi di tutte le parti interessate hanno da guadagnare, per far decollare la pace che l’intera regione merita.
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venerdì 5 giugno 2009
AL CUORE DEL PROBLEMA DEL MEDIO ORIENTE
di Salvatore Falzone


La prima visita del Presidente americano, Barack Obama, in Medio Oriente è stata seguita con grande attenzione. Obama, al secondo giorno della sua visita dopo aver incontrato in Arabia il re Abdullah, si è recato in Egitto dove ha incontrato Hosni Mubarak ed ha parlato all’Università del Cairo davanti ad una platea visibilmente ansiosa del suo discorso.
Obama ha parlato in maniera magistrale, ha toccato tutti i punti del problema mediorientale: conflitto arabo-israelo-palestinese, libertà religiosa, diritti delle donne, Iran, politica estera americana e democrazia.
In particolare sul conflitto che oppone arabi e israeliani è stato molto chiaro nell’indicare il “riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile”.
E’ partito da un presupposto molto limpido sul diritto di esistenza dello Stato di Israele ed ha condannato tutti gli stereotipi che alimentano l’odio e la negazione della storia del popolo ebraico.
Rivolgendosi ai palestinesi il Presidente ha ricordato la situazione piena di sofferenza nella quale dal ’48 in poi si sono trovati.
“L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese, alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio”.
Obama ha tracciato la situazione di un problema che è strumentalizzato dagli estremisti per far detonare l’intera regione. Poi, ha deciso di rivolgersi verso i dirigenti chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Per i palestinesi ha fatto riferimento alla cessazione delle violenze, a mostrarsi capaci di essere uniti e governare nella logica del benessere per il popolo nonché procedere ai riconoscimenti dei vari accordi precedenti con Israele. Il riferimento ad Hamas è molto chiaro affinché proceda verso un’ evoluzione politica. Mentre, a Israele ha ricordato come la pace deve essere raggiunta attraverso il mantenimento di tutte le promesse stilate negli accordi precedenti e in particolar modo procedere al blocco degli insediamenti.
“Il progresso reale nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso”.
Infine, si è rivolto agli Stati arabi ricordandogli l’importanza dei Piani ultimamente presentati ma che non cancellano una seria parte di responsabilità. Obama è arrivato dritto al cuore del problema mediorientale: aver utilizzato troppe volte la demonizzazione di Israele per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni. In questo ha implicitamente toccato gli elementi presenti nello scacchiere mediorientale: dittature, ideologie, interesse delle elite, riuscito utilizzo dei capri espiatori, rifiuto di porre fine al conflitto israelo-palestinese.
La forza del discorso di Obama sta nella scelta di rivolgersi direttamente ai musulmani, al popolo tutto. Egli cerca una legittimità della pace attraverso il popolo, cerca di rompere quell’equazione che ha visto, per troppo tempo, i dirigenti arabi succubi dell’odio contro Israele e a favore di una chiusura a qualsiasi normalizzazione.
In definitiva, il Presidente americano, cerca di rompere quella barriera psicologica affinché i dirigenti si trovino ad affrontare il problema con le giuste soluzioni reali e finiscano ad incentivare la polarizzazione verso uno scontro continuo. E chiama quella parte di opinione pubblica, di società civile, cosciente e responsabile a far sentire la sua voce. Di certo, il cammino è ancora lungo e irto di ostacoli, la società civile si trova a confrontarsi con duro indottrinamento misto a repressione da parte dello Stato o dei vari fondamentalismi; mentre necessità di pluralismo, non conformismo, tolleranza, responsabilità individuale, coraggio civile. Ma la speranza – seguita da scelte politiche dei vari attori responsabili - di un cambiamento per quella parte del modo ricca di storia, patrimonio dell’intera umanità, deve avere la meglio.
Obama ha parlato in maniera magistrale, ha toccato tutti i punti del problema mediorientale: conflitto arabo-israelo-palestinese, libertà religiosa, diritti delle donne, Iran, politica estera americana e democrazia.
In particolare sul conflitto che oppone arabi e israeliani è stato molto chiaro nell’indicare il “riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile”.
E’ partito da un presupposto molto limpido sul diritto di esistenza dello Stato di Israele ed ha condannato tutti gli stereotipi che alimentano l’odio e la negazione della storia del popolo ebraico.
Rivolgendosi ai palestinesi il Presidente ha ricordato la situazione piena di sofferenza nella quale dal ’48 in poi si sono trovati.
“L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese, alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio”.
Obama ha tracciato la situazione di un problema che è strumentalizzato dagli estremisti per far detonare l’intera regione. Poi, ha deciso di rivolgersi verso i dirigenti chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Per i palestinesi ha fatto riferimento alla cessazione delle violenze, a mostrarsi capaci di essere uniti e governare nella logica del benessere per il popolo nonché procedere ai riconoscimenti dei vari accordi precedenti con Israele. Il riferimento ad Hamas è molto chiaro affinché proceda verso un’ evoluzione politica. Mentre, a Israele ha ricordato come la pace deve essere raggiunta attraverso il mantenimento di tutte le promesse stilate negli accordi precedenti e in particolar modo procedere al blocco degli insediamenti.
“Il progresso reale nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso”.
Infine, si è rivolto agli Stati arabi ricordandogli l’importanza dei Piani ultimamente presentati ma che non cancellano una seria parte di responsabilità. Obama è arrivato dritto al cuore del problema mediorientale: aver utilizzato troppe volte la demonizzazione di Israele per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni. In questo ha implicitamente toccato gli elementi presenti nello scacchiere mediorientale: dittature, ideologie, interesse delle elite, riuscito utilizzo dei capri espiatori, rifiuto di porre fine al conflitto israelo-palestinese.
La forza del discorso di Obama sta nella scelta di rivolgersi direttamente ai musulmani, al popolo tutto. Egli cerca una legittimità della pace attraverso il popolo, cerca di rompere quell’equazione che ha visto, per troppo tempo, i dirigenti arabi succubi dell’odio contro Israele e a favore di una chiusura a qualsiasi normalizzazione.
In definitiva, il Presidente americano, cerca di rompere quella barriera psicologica affinché i dirigenti si trovino ad affrontare il problema con le giuste soluzioni reali e finiscano ad incentivare la polarizzazione verso uno scontro continuo. E chiama quella parte di opinione pubblica, di società civile, cosciente e responsabile a far sentire la sua voce. Di certo, il cammino è ancora lungo e irto di ostacoli, la società civile si trova a confrontarsi con duro indottrinamento misto a repressione da parte dello Stato o dei vari fondamentalismi; mentre necessità di pluralismo, non conformismo, tolleranza, responsabilità individuale, coraggio civile. Ma la speranza – seguita da scelte politiche dei vari attori responsabili - di un cambiamento per quella parte del modo ricca di storia, patrimonio dell’intera umanità, deve avere la meglio.
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