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mercoledì 23 novembre 2011

Quel generale prestato alla politica che la piazza odia più di Mubarak

Il personaggio Il feldmaresciallo Mohammed Hussein Tantawi, capo della Giunta militare di transizione, ex fedelissimo del raìs

L'uomo più potente e oggi forse più odiato d' Egitto, il generale Mohammed Hussein Tantawi, non accetta interviste, non parla in tv, in realtà non ama nemmeno - dicono fonti diplomatiche egiziane - fare politica. Quando incontrò Hillary Clinton, le confessò di «non vedere l' ora di tornare in caserma. Un esercito lo so comandare, un Paese no». È passato qualche mese da quelle parole: allora Tantawi era già a capo della Giunta militare di transizione, l' esercito era ricordato per il sostegno alla Rivoluzione. Oggi la strana luna di miele tra la «piazza» e i soldati è finita. Nel celebre slogan di Tahrir, «il popolo vuole la caduta del regime», l' ultima parola è stata sostituita con «generale». Tantawi resta schivo, c' è chi dice misterioso, ma quello che ha fatto (di male) e non ha fatto (di bene) è noto a tutti. E intanto è cresciuto il sospetto che si sia affezionato al potere e punti perfino a diventare raìs. Quando due mesi fa fu visto in abito scuro girare per il centro del Cairo a parlare con la gente e stringere mani, l' allarme scattò subito sui social network. Una prova di popolarità in vista della candidatura, affermarono molti, rispondendogli che «l' Egitto non voleva un abito civile, ma un governo civile». Poco dopo iniziarono a spuntare manifesti per la città inneggianti a «Tantawi raìs»: siamo fan autofinanziati, hanno dichiarato i capi della campagna, per altro prematura visto che le presidenziali non sono nemmeno annunciate. Ma al di là di questi «incidenti», pare improbabile che Tantawi punti a restare al potere. Anche se la voglia di tornare in caserma forse si è affievolita. Settantacinque anni, origine nubiana, ovvero del profondo Sud, ufficiale dal 1956 ed eroe nelle tre guerre contro Israele nonché in quella all' Iraq del 1991, da quella data Tantawi fu ministro della Difesa di Hosni Mubarak e uno dei suoi più fidi (e affini) sostenitori. «I suoi sottoposti lo chiamano il cagnolino del raìs, con cui condivide l' amore per lo status quo e la stabilità, l' età avanzata e la resistenza ai cambiamenti», lo descriveva la diplomazia Usa in Wikileaks tre anni fa. Certo non è il ritratto di un rivoluzionario, anche se all' inizio la «piazza» gli diede fiducia. Considerandolo non solo meglio di Mubarak (un altro generale ed eroe di guerra che all' inizio fu poco convinto del ruolo politico), ma anche di Omar Suleiman, l' ex capo dell' intelligence che per brevissimo tempo fu vicepresidente, ma il Paese non accettò come nuovo leader anche per le accuse di tortura. Ora, però, la transizione sta durando troppo, le opacità e gli errori del «reggente» aumentano. Tra le prime, lamenta l' opposizione, la testimonianza al processo Mubarak in cui non è chiaro cosa abbia detto Tantawi del suo ex raìs sull' ordine di sparare alla folla nella rivoluzione (pare sia stato sul vago, «non sapevo niente»). Tra i tanti errori, soprattutto la comunità finanziaria gli imputa di aver rinunciato al prestito da 3 miliardi del Fmi, aumentando il disastro dell' economia. «Non voleva l' aiuto di nessuno, ha agito per orgoglio», dice un imprenditore egiziano. Un' altra caratteristica del Generale, oltre alla fedeltà, alla ritrosia e all' amore per l' ordine.

Cecilia Zecchinelli
(22 novembre 2011) - Corriere della Sera

martedì 13 settembre 2011

Al Cairo il telefono della giunta squilla a vuoto (e favorisce gli islamisti)

Ecco cosa è accaduto durante l’assalto dell’ambasciata di Israele in Egitto. Il ruolo di Obama e la visita di Erdogan



Il maggiore giornale egiziano, al Ahram, paragona l’assalto all’ambasciata d’Israele alla caduta del Muro di Berlino. Hamdeen Sabahi, candidato alla presidenza egiziana, esulta dicendo che “la bandiera sionista aveva inquinato l’aria egiziana per trent’anni”. Il quotidiano israeliano Israel Hayom lo chiama “l’esodo”: mai prima d’ora l’intero corpo diplomatico israeliano, ottanta persone fra ambasciatore, assistenti e guardie di sicurezza, era stato costretto ad abbandonare il Cairo.

La notizia politica più importante dell’assalto è che senza l’intervento del presidente americano Barack Obama ci sarebbe stata una strage di israeliani. Durante la crisi il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e il ministro della Difesa, Ehud Barak, hanno tentato di telefonare al feldmaresciallo Mohammed Tantawi, l’ufficiale di grado più alto dopo la caduta di Mubarak, per farlo intervenire. La versione ufficiale dice che Tantawi “non si trovava”. La verità è che non ha accettato la telefonata israeliana. “Farò quello che posso”, ha detto Obama a Netanyahu, riuscendo a costringere gli egiziani a creare una via di fuga per gli israeliani. L’ex generale egiziano Sameh Seif ha detto che l’assalto è colpa della casta militare che governa il paese. E il sospetto che la giunta abbia lasciato mano libera ai manifestanti è forte.
Il governatore di Giza, dove sorge l’ambasciata, ha promesso alla folla che non costruirà un altro muro a protezione degli israeliani. La sicurezza attorno al diciottesimo piano era altissima. Non erano ammessi telefonini, c’erano metal detector, telecamere e guardie armate. Un protocollo voleva che gli israeliani, prima di abbandonare le proprie case diretti all’ambasciata, dovessero accertarsi di non essere seguiti e cambiare spesso il loro itinerario.

Alle cinque del pomeriggio di venerdì migliaia di egiziani si ritrovano in piazza Tahrir. L’ordine è di marciare sull’ambasciata israeliana. Giorni prima un influente leader religioso dei Fratelli musulmani, Salah Sultan, aveva emesso una fatwa che legittimava l’uccisione dell’ambasciatore, Yitzhak Levanon.

Salah Sultan aveva accusato l’ambasciata di “corrompere” i giovani con prodotti per capelli che ledono le capacità riproduttive. La vice Guida suprema della Fratellanza, Mahmoud Ezzat, aveva accusato il personale israeliano di essere “spie”. “Rappresentante sionista, vattene o muori”, recitava uno dei volantini distribuiti dalla Fratellanza davanti all’ambasciata.

Ieri, mentre arrivava al Cairo il premier turco Recep Tayyip Erdogan, un comunicato della potente confraternita islamica ha giustificato l’attacco, dicendo che l’assalto all’ambasciata è stata “una reazione legittima”. I Fratelli musulmani hanno chiesto una “revisione” del trattato di Camp David. “Israele dovrebbe aver capito il messaggio, l’Egitto è cambiato, la regione è cambiata”, si legge in un comunicato dei Fratelli musulmani. E ancora: “E’ stata una esplosione di sentimento nazionale nel cuore degli egiziani”. Venerdì sera dentro all’ambasciata, chiusa per Shabbat, c’erano sei guardie israeliane. Alle sei i manifestanti abbattono il muro di tre metri a difesa dell’edificio al grido di “Allah Akbar” e “Sinai Sinai”. A mezzanotte da Israele arriva l’ordine di evacuare il personale. I sei israeliani restano chiusi in una “stanza sicura” dell’ambasciata, dietro a una porta di ferro. Alcuni manifestanti riescono a entrare nell’ambasciata, rubano centinaia di documenti di proprietà d’Israele e strappano la bandiera ebraica. Da Gerusalemme Netanyahu, Barak e il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman seguono il raid dalle telecamere. Il capo del Mossad, Tamir Pardo, invia un Boeing 707 al Cairo per portare in salvo tutti. Gli israeliani fuggono indossando la kefiah. L’aereo decolla alle tre e atterra in Israele alle cinque del mattino di sabato. Oggi resta un solo israeliano nel paese, è il viceambasciatore Yisrael Tikochinsky-Nitzan, trasferito in una località “sicura”. Si sa che tre delle guardie rinchiuse nell’ambasciata hanno sparato in aria per allontanare gli egiziani saliti al diciottesimo piano. L’ordine era di “sparare per uccidere” nel caso gli egiziani avessero sfondato anche l’ultima porta. Il capo delle guardie, “Yonatan”, aveva già spedito un sms d’addio alla moglie: “Ti amo”. Quella predata venerdì scorso era stata la prima bandiera israeliana a sventolare in una capitale araba, dal 17 febbraio 1980.

di Giulio Meotti
http://www.ilfoglio.it/soloqui/10334

lunedì 14 febbraio 2011

Lettera aperta a un intellettuale egiziano

Di Yair Lapid

Ho cercato il tuo viso fra le masse, in tv, per più di due settimane. Per un attimo mi è sembrato di vederti in piazza al-Tahrir, circondato da estranei, mentre fotografavi i soldati con il tuo cellulare, ma forse è stata solo la mia immaginazione.
Come molti israeliani, la vostra rivoluzione mi riempie sia di speranza che di preoccupazione. Spero che funzioni, perché ve la meritate, esattamente come ogni persona al mondo si merita di vivere da libero cittadino, in un regime democratico, con la possibilità di determinare il proprio destino. Tuttavia sono anche preoccupato, e lo sono proprio a causa tua e dei tuoi colleghi, gli intellettuali egiziani, che per anni sono stati alla testa delle campagne di odio e di paura contro Israele. E non posso fare a meno di domandarmi: è in questa direzione che intendete portare il vostro nuovo Egitto?
Annullerete il nostro trattato di pace? Intendete continuare a dare agli israeliani la colpa di tutti gli insuccessi del vostro paese? Andrete a unire le vostre forze a quelle dei Fratelli Musulmani per dare vita a un altro bellicoso stato mediorientale, fondato sull’odio contro le donne, contro la democrazia, contro gli ebrei? O forse dovrei innanzitutto farti un’altra domanda: qual è la tua definizione di intellettuale?
Non mi aspetto neanche per un momento che tu condivida la nostra politica verso i palestinesi. Spesso non la condivido neppure io. Ma gli intellettuali sono persone che dovrebbero essere in grado di rispondere alla domanda “chi sono io?” non soltanto rispondendo alla domanda “contro chi sono io?”. Gli intellettuali dovrebbero saper rispondere alla domanda “in che Dio credo?” non solo dicendo “quale Dio detesto”. Gli intellettuali dovrebbero poter rispondere alla domanda “quale bandiera impugno?” senza dover dire “quale bandiera do alle fiamme”.
L’Egitto esiste da più di cinquemila anni, avete inventato la geometria, l’astronomia e la carta; siete un popolo antico e fiero, responsabile del proprio destino. Nessuno, tranne voi stessi, è responsabile di ciò che vi è accaduto. Nessuno, tranne voi stessi, è responsabile per ciò che deve ancora avvenire.
Leggo pubblicazioni cariche di odio sui vostri giornali, appelli al boicottaggio, proclami apertamente antisemiti, e invece di arrabbiarmi mi domando: come può essere che la pretesa di dare agli israeliani la colpa di tutti i vostri guai non risulti insultante innanzitutto a te stesso? Sei una persona istruita, amico mio, hai letto tutte le grandi opere dal “Contratto sociale” di Rousseau alla “Trilogia del Cairo” di Naguib Mahfouz, e sai bene quanto me – forse anche più di me – che l’odio è la consolazione patetica e pericolosa di coloro che non stimano se stessi. Guardati dentro per un momento, dai un lungo sguardo in profondità e dimmi: è davvero Israele la causa di tutti le pene dell’Egitto? Non hai consapevolezza, in fondo al cuore, che si tratta di una pretesa ridicola? È forse Israele che impedisce ai giovani egiziani di trovare un onesto lavoro che dia loro uno stipendio decoroso? Siamo forse noi israeliani che spingiamo i vostri funzionari pubblici a saccheggiare le casse dello stato? Siamo forse noi che abbiamo contraffatto i risultati delle vostre elezioni? Siamo stati forse noi ad impedirvi di realizzare un sistema sanitario pubblico? E che dire di un sistema educativo? Di una agricoltura moderna? Di un’industria sviluppata? E se anche avessimo voluto fare tutto questo, pensi davvero che ne avremmo avuto modo? Credimi, amico mio, non siamo poi così capaci. Anche noi abbiamo i nostri problemi, i nostri poveri, e persino le pallottole che uccidono leader che hanno osato inseguire un sogno.
Voi oggi avete l’opportunità di ricostruire il vostro paese. Ma volete fondarlo sulla verità, o su una menzogna perversa e patetica che vi condannerebbe ad altri cento anni di inutile rabbia? Il nostro comune antenato Abramo disse: “Non ci sia discordia tra me e te, né tra i miei pastori e i tuoi pastori, perché siamo fratelli”. Non c’è nessun conflitto fra noi, amico mio. E non abbiamo alcuna pretesa di decidere al vostro posto come debba essere il vostro paese, o chi debba governarlo. Vi offriamo la nostra amicizia, la continuazione della pace fra eguali che predomina fra noi, e il nostro riconoscimento del fatto che nessuno, tranne voi, può gestire la vostra vita da uomini liberi.
La risposta che ci offrirete sarà decisiva per molto più che non semplicemente le future relazioni con un piccolo stato separato da voi da un deserto; giacché, dopo che avrete completato la vostra battaglia contro il regime, avrà inizio una battaglia molto più grande: in che genere di paese tipo volete vivere? Su quali principi sarà fondato? Quale sarà il suo carattere? Sceglierete la facile soluzione di addossare ad altri tutta la colpa dei vostri problemi? O sceglierete la soluzione difficile e coraggiosa di guardare in faccia la vostra gente e dire: dipende soltanto da noi.

(Da: YnetNews, 12.2.11)
http://www.israele.net/articolo,3060.htm

venerdì 11 febbraio 2011

Mubarak si arrende: "Mi dimetto" In Egitto il potere passa ai militari

L'annuncio del vicepresidente
Suleiman. E la piazza festeggia

CAIRO
Il vicepresidente egiziano Omar Suleiman ha annunciato in televisione che il presidente Hosni Mubarak ha rinunciato al suo mandato presidenziale e ha incaricato le forze armate di gestire gli affari dello stato.

Scene di giubilo e di gioia sono scoppiate a Medan Tahrir al Cairo subito dopo l'annuncio da parte di Suleiman. Decine di migliaia di persone che affollano la piazza del centro della capitale egiziana, sventolano esultanti la bandiera egiziana. La folla ha reagito con un immenso boato.

«Solo la Storia potrà giudicare il nostro presidente Mohammad Hosni Mubarak», ha commentato la tv di Stato egiziana. «Il presidente Mubarak si è dimesso e questa è stata la principale richiesta dei manifestanti», ha aggiunto l’annunciatore. «Fino alla fine il nostro rais si è dimostrato saggio e lungimirante nel fare la scelta migliore per la nostra cara patria», ha detto, mentre una voce in sottofondo proveniente dal suo auricolare gli dettava le frasi da ripetere ai telespettatori.

Mubarak ha lasciato questa mattina il Cairo per recarsi, insieme alla famiglia, nella sua residenza di Sharm-el-Sheikh. L’aereo del presidente egiziano è atterrato all’aeroporto mentre era in corso la preghiera del venerdì islamico. Il capo di stato si è recato «sotto un ingente dispiegamento di uomini della sicurezza verso il palazzo presidenziale di Sharm, a pochi passi da un importante hotel della zona. Poco dopo è atterrato nell’aeroporto locale anche un elicottero carico di bagagli che sono stati portati con l’ausilio di 3 auto verso il palazzo presidenziale». Fonti sostengono che Mubarak era accompagnato da un alto ufficiale dell’esercito ma non dai suoi familiari. Secondo il sito «il fatto che abbia portato molte valigie può voler dire che dovrebbe espatriare direttamente dall’aeroporto di Sharm».

http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/388616/

sabato 5 febbraio 2011

"Errori sull'Egitto come con l'Iran" Su Obama lo spettro di Carter

Le accusa di idealismo affiorano nei commenti di stampa e sui blog specializzati. Nuova apertura del presidente Usa ai manifestanti: "Sentiamo la vostra voce"

di VITTORIO ZUCCONI

C'È uno spettro che si aggira nella Casa Bianca: il suo nome è Jimmy Carter. È il volto dell'uomo che incarnò dolorosamente i limiti delle buone intenzioni. A ogni ora che sgocciola via senza uno happy ending in Egitto, Obama deve camminare al buio, grazie a servizi di intelligence ancora una volta addormentati e colti di sorpresa, come nella Russia del dopo Breznev, come nell'Iran dello Scià, come nell'Egitto di Mubarak, sul filo esilissimo teso fra le pressioni per cambiare l'amico di ieri e la sensazione che l'America voglia cucirsi un dopo-regime su misura, sapendo che non esistono opzioni militari da sganciare sul Cairo per cambiare regime a forza.
Il ricordo del disastro del 1979, che come oggi ha visto la Cia e i servizi di spionaggio clamorosamente colti alla sprovvista da un evento epocale, torna come brividi di una febbre che puntualmente riaffiora quando Washington misura la distanza che corre fra predicare la democrazia in casa altrui e ottenerla. Sono giorni che qui ricordano troppo da vicino il trono dello Scià spazzato via dalle piazze in rivolta a Teheran, e l'Iran trasformato dal più solido alleato americano nella regione al mortale nemico dell'Occidente satanico, mentre Carter esitava e si torceva impotente le mani, fino alla cattura degli ostaggi e alla disastrosa spedizione per liberarli. Gli eventi che diedero il colpo di grazia alla vacillante presidenza di Carter.

Comincia, sulle pagine dei giornali, nelle chat e nei blog della Rete, nelle domande dei giornalisti che ieri sera hanno confrontato
il Presidente in diretta teletrasmessa, a riaffiorare la maledizione di una domanda che ricorre a ogni crisi internazionale, dagli anni della vittoria dei comunisti di Mao Zedong sui nazionalisti di Chang Kaishek in Cina (altra "sorpresa"): chi ha perso l'Egitto? Per ora, sulle pubblicazioni come il National Journal o nei blog degli esperti di cose mediorientali come il professor Juan Cole, la risposta è ancora negativa, o cauta. Barack Obama non è Jimmy Carter, l'Egitto non è l'Iran, la piazza del Cairo non è pilotata dai chierici sciiti fondamentalisti e, soprattutto, l'Egitto non è ancora stato perso da nessuno.

Anzi, la sterzata che Obama e Hillary Clinton hanno impresso alla posizione americana passando dall'attendismo pilatesco e chiaramente spiazzato delle prime ore alla richiesta pubblica di andarsene subito, ripetuta anche ieri sera a Mubarak, fanno credere che questa volta, a differenza di trentadue anni or sono, l'America abbia virato per non trovarsi a veleggiare controvento.

Ma il confine fra invocare l'intervento politico degli Usa e maledirne l'ingerenza nel resto del mondo, è sempre labilissimo, perché i precedenti contano. Nell'identificazione fra il detestato regime del "Pavone", il trono dei Pahlavi, e quell'America che aveva organizzato il rovesciamento del presidente eletto, Mossadeq, per controllare il petrolio iraniano, immediatamente collocò Washington fra i demoni da esorcizzare. Anche nell'Egitto del 2011 i trent'anni di sostegno a Hosni Mubarak appannano la credibilità della Casa Bianca, come quella degli europei.

"Sentiamo la vostra voce", ha ripetuto ieri Obama. Per ora, anche l'opposizione repubblicana a Obama si affida alle scelte del Presidente senza contestarle, come ha fatto uno dei massimi leader repubblicani, il senatore Mitch O'Connell. Emergono, ma senza acuti isterici o scatti di islamofobia, le paure per il movimento dei Fratelli Mussulmani, la sola grande forza organizzata nell'opposizione a Mubarak. Si sa, e rassicura, che l'Egitto, con modeste riserve di greggio, per sopravvivere deve necessariamente affidarsi al resto del mondo e ai suoi buoni rapporti internazionali, così come il suo esercito si regge sui due milioni di dollari americani annui per esistere.
Eppure, un elemento in comune fra il 2011 e il 1979 che spalancò la porta a Reagan dopo l'umiliazione di Carter esiste e inquieta i giorni della Casa Bianca. Come Carter, uomo di impeccabile reputazione e di immensa buona volontà tradotte nella pace di Camp David fra Begin e Sadat, anche Obama appare come un uomo mosso dalle migliori intenzioni, ma incapace di tradurle in azione. Israele, con Netanyahu troppo debole in casa propria, gli ha sbattuto la porta in faccia alla richiesta di congelare la propria espansione nelle terre che dovrebbero formare il futuro stato palestinese. L'Iran ha continuato a muoversi sulla strada dell'energia nucleare. La Cina non dà alcun segno di allentare la morsa sul dissenso né di permettere alla propria moneta di flottare sui mercati e quindi di ridurre la competitività delle sue esportazioni drogata dal basso valore del renminbi.

Obama predica bene, come bene predicava il devotissimo insegnante di dottrina georgiano, Jimmy Carter, ma il mondo non ascolta. Resta la sincera, solenne invocazione alla "democrazia" ripetuta anche ieri sera, senza sapere che cosa la democrazia possa produrre. Negli anni del dopoguerra, quando in Grecia si tennero libere elezioni che i comunisti sembravano certi di vincere, fu chiesto al presidente Eisenhower se si rendesse conto del rischio. "È il rischio della democrazia - rispose imperturbabile il vecchio generale - quando la si invoca, poi di deve essere pronti a vivere con i suoi risultati".

(05 febbraio 2011) http://www.repubblica.it/esteri/2011/02/05/news/errori_sull_egitto_come_con_l_iran_su_obama_lo_spettro_di_carter-12081081/?ref=HREA-1

sabato 29 gennaio 2011

Egitto, le paure della diplomazia "Se salta Mubarak cade il Nord Africa"

di VINCENZO NIGRO

Egitto, le paure della diplomazia "Se salta Mubarak cade il Nord Africa" Hosni Mubarak con Barack Obama
"Se cade Mubarak cade il Nord Africa". E' questo lo spirito catastrofico ma probabilmente realistico con cui i tradizionali sostenitori del governo egiziano (a partire da Stati Uniti, Italia, Francia e Germania) guardano a questo venerdì di preghiere e proteste al Cairo e in tutto l'Egitto. Il sistema di polizia egiziano non è come quello tunisino, non dipende da una limitata cricca familiare stretta intorno agli affari della famiglia di Ben Alì. E soprattutto, allertati dai segnali arrivati da Tunisia e Algeria, i generali del Cairo sono pronti alla battaglia di questo venerdì 28 gennaio.

Al momento sono stati bloccati Internet e i social network attraverso i quali i manifestanti si coordinano nelle proteste. Ma tagliare i telefoni, le comunicazioni, non riuscirà a modificare le condizioni di protesta politica e popolare che hanno portato anche l'Egitto a protestare contro il suo governo. L'unica possibilità per un'evoluzione non catastrofica della situazione in Egitto è che, assieme ad esercito, polizia e servizi segreti, il regime Mubarak mobiliti rapidamente un'azione politica, un'iniziativa che governi il cambiamento.

In Algeria ci sono voci di un rapido cambio di ministri all'interno del governo. Ma per l'Egitto non basterà un rimpasto, soprattutto se le manifestazioni di oggi rafforzeranno un'ondata di protesta che grazie alla rabbia accumulata è in grado di durare per giorni e giorni. Se salta Mubarak è il caos: 80 milioni di egiziani fuori controllo al confine di
Israele e al confine marittimo dell'Europa sono una seria incognita. Forse il regime non salterà. Ma se Mubarak dura, se la repressione continuerà immutabile, anche il caos continuerà. L'unica speranza è che i segnali di un vero cambiamento arrivino presto, siano rapidi, concreti e che riescano a convincere il popolo egiziano.

http://www.repubblica.it/esteri/2011/01/28/news/egitto_mubarak-11759895/

venerdì 5 giugno 2009

AL CUORE DEL PROBLEMA DEL MEDIO ORIENTE

di Salvatore Falzone



La prima visita del Presidente americano, Barack Obama, in Medio Oriente è stata seguita con grande attenzione. Obama, al secondo giorno della sua visita dopo aver incontrato in Arabia il re Abdullah, si è recato in Egitto dove ha incontrato Hosni Mubarak ed ha parlato all’Università del Cairo davanti ad una platea visibilmente ansiosa del suo discorso.

Obama ha parlato in maniera magistrale, ha toccato tutti i punti del problema mediorientale: conflitto arabo-israelo-palestinese, libertà religiosa, diritti delle donne, Iran, politica estera americana e democrazia.

In particolare sul conflitto che oppone arabi e israeliani è stato molto chiaro nell’indicare il “riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile”.

E’ partito da un presupposto molto limpido sul diritto di esistenza dello Stato di Israele ed ha condannato tutti gli stereotipi che alimentano l’odio e la negazione della storia del popolo ebraico.

Rivolgendosi ai palestinesi il Presidente ha ricordato la situazione piena di sofferenza nella quale dal ’48 in poi si sono trovati.

“L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese, alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio”.

Obama ha tracciato la situazione di un problema che è strumentalizzato dagli estremisti per far detonare l’intera regione. Poi, ha deciso di rivolgersi verso i dirigenti chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Per i palestinesi ha fatto riferimento alla cessazione delle violenze, a mostrarsi capaci di essere uniti e governare nella logica del benessere per il popolo nonché procedere ai riconoscimenti dei vari accordi precedenti con Israele. Il riferimento ad Hamas è molto chiaro affinché proceda verso un’ evoluzione politica. Mentre, a Israele ha ricordato come la pace deve essere raggiunta attraverso il mantenimento di tutte le promesse stilate negli accordi precedenti e in particolar modo procedere al blocco degli insediamenti.

“Il progresso reale nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso”.

Infine, si è rivolto agli Stati arabi ricordandogli l’importanza dei Piani ultimamente presentati ma che non cancellano una seria parte di responsabilità. Obama è arrivato dritto al cuore del problema mediorientale: aver utilizzato troppe volte la demonizzazione di Israele per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni. In questo ha implicitamente toccato gli elementi presenti nello scacchiere mediorientale: dittature, ideologie, interesse delle elite, riuscito utilizzo dei capri espiatori, rifiuto di porre fine al conflitto israelo-palestinese.

La forza del discorso di Obama sta nella scelta di rivolgersi direttamente ai musulmani, al popolo tutto. Egli cerca una legittimità della pace attraverso il popolo, cerca di rompere quell’equazione che ha visto, per troppo tempo, i dirigenti arabi succubi dell’odio contro Israele e a favore di una chiusura a qualsiasi normalizzazione.

In definitiva, il Presidente americano, cerca di rompere quella barriera psicologica affinché i dirigenti si trovino ad affrontare il problema con le giuste soluzioni reali e finiscano ad incentivare la polarizzazione verso uno scontro continuo. E chiama quella parte di opinione pubblica, di società civile, cosciente e responsabile a far sentire la sua voce. Di certo, il cammino è ancora lungo e irto di ostacoli, la società civile si trova a confrontarsi con duro indottrinamento misto a repressione da parte dello Stato o dei vari fondamentalismi; mentre necessità di pluralismo, non conformismo, tolleranza, responsabilità individuale, coraggio civile. Ma la speranza – seguita da scelte politiche dei vari attori responsabili - di un cambiamento per quella parte del modo ricca di storia, patrimonio dell’intera umanità, deve avere la meglio.