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venerdì 5 giugno 2009

AL CUORE DEL PROBLEMA DEL MEDIO ORIENTE

di Salvatore Falzone



La prima visita del Presidente americano, Barack Obama, in Medio Oriente è stata seguita con grande attenzione. Obama, al secondo giorno della sua visita dopo aver incontrato in Arabia il re Abdullah, si è recato in Egitto dove ha incontrato Hosni Mubarak ed ha parlato all’Università del Cairo davanti ad una platea visibilmente ansiosa del suo discorso.

Obama ha parlato in maniera magistrale, ha toccato tutti i punti del problema mediorientale: conflitto arabo-israelo-palestinese, libertà religiosa, diritti delle donne, Iran, politica estera americana e democrazia.

In particolare sul conflitto che oppone arabi e israeliani è stato molto chiaro nell’indicare il “riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile”.

E’ partito da un presupposto molto limpido sul diritto di esistenza dello Stato di Israele ed ha condannato tutti gli stereotipi che alimentano l’odio e la negazione della storia del popolo ebraico.

Rivolgendosi ai palestinesi il Presidente ha ricordato la situazione piena di sofferenza nella quale dal ’48 in poi si sono trovati.

“L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese, alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio”.

Obama ha tracciato la situazione di un problema che è strumentalizzato dagli estremisti per far detonare l’intera regione. Poi, ha deciso di rivolgersi verso i dirigenti chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Per i palestinesi ha fatto riferimento alla cessazione delle violenze, a mostrarsi capaci di essere uniti e governare nella logica del benessere per il popolo nonché procedere ai riconoscimenti dei vari accordi precedenti con Israele. Il riferimento ad Hamas è molto chiaro affinché proceda verso un’ evoluzione politica. Mentre, a Israele ha ricordato come la pace deve essere raggiunta attraverso il mantenimento di tutte le promesse stilate negli accordi precedenti e in particolar modo procedere al blocco degli insediamenti.

“Il progresso reale nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso”.

Infine, si è rivolto agli Stati arabi ricordandogli l’importanza dei Piani ultimamente presentati ma che non cancellano una seria parte di responsabilità. Obama è arrivato dritto al cuore del problema mediorientale: aver utilizzato troppe volte la demonizzazione di Israele per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni. In questo ha implicitamente toccato gli elementi presenti nello scacchiere mediorientale: dittature, ideologie, interesse delle elite, riuscito utilizzo dei capri espiatori, rifiuto di porre fine al conflitto israelo-palestinese.

La forza del discorso di Obama sta nella scelta di rivolgersi direttamente ai musulmani, al popolo tutto. Egli cerca una legittimità della pace attraverso il popolo, cerca di rompere quell’equazione che ha visto, per troppo tempo, i dirigenti arabi succubi dell’odio contro Israele e a favore di una chiusura a qualsiasi normalizzazione.

In definitiva, il Presidente americano, cerca di rompere quella barriera psicologica affinché i dirigenti si trovino ad affrontare il problema con le giuste soluzioni reali e finiscano ad incentivare la polarizzazione verso uno scontro continuo. E chiama quella parte di opinione pubblica, di società civile, cosciente e responsabile a far sentire la sua voce. Di certo, il cammino è ancora lungo e irto di ostacoli, la società civile si trova a confrontarsi con duro indottrinamento misto a repressione da parte dello Stato o dei vari fondamentalismi; mentre necessità di pluralismo, non conformismo, tolleranza, responsabilità individuale, coraggio civile. Ma la speranza – seguita da scelte politiche dei vari attori responsabili - di un cambiamento per quella parte del modo ricca di storia, patrimonio dell’intera umanità, deve avere la meglio.

mercoledì 22 aprile 2009

IL BIVIO IRANIANO

di Salvatore Falzone (pubblicato su Obiettivo Affari&Notizie, Anno XXI - n. 368 - 23 aprile 2009)

Bisogna lavorare per la costruzione della pace nel mondo

L’apparizione del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, alla Conferenza dell’ONU sul razzismo “Durban II”, ha lasciato il segno.

Ahmadinejad non ha perso occasione per attaccare Israele bollandolo come “Stato razzista che governa nella Palestina occupata”.

Il presidente iraniano, ovviamente, dimentica la Risoluzione ONU 181 del ’47 che prevedeva la spartizione della Palestina storica in due stati: Stato arabo di Palestina e Stato di Israele. E dimentica che tale Risoluzione fu rifiutata interamente dagli arabi i quali mossero guerra. Alla fine del primo conflitto arabo-israeliano la situazione dei palestinesi fu paradossale “anzi il popolo di Palestina si trovò pesantemente condizionato dalla presenza e dai calcoli politici delle nazioni alle quali chiese aiuto”. (Salvatore Falzone, Nel nostro tempo tra terrorismo e conflitto israelo-palestinese, ed. Bonfirraro 2007, pag. 39)

In realtà i leader della Repubblica Islamica non sono nuovi alle accuse contro Israele. Basti ricordare le diverse conferenze che Teheran ha promosso contro lo Stato ebraico. E’ dall’ottobre del 2005, prima Conferenza dell’era Ahmadinejad, Conferenza su “Un mondo senza sionismo”, che il presidente auspica la sparizione d’Israele dalla carta geografica del Medio Oriente in quanto lo paragona ora ad un elemento estraneo alla società mediorientale, ora ad un male incurabile che deve essere estirpato! E in occasione della “Quarta conferenza internazionale a sostegno della Palestina, modello di resistenza”, che si è tenuta a Teheran il 3 marzo scorso, sia la Guida spirituale, Alì Khamenei, che il Presidente Ahmadinejad, hanno pesantemente attaccato Israele con discorsi paragonabili alle follie e bestialità del regime nazista di Hitler.

“La missione del sionismo è quella di minacciare costantemente il mondo, di impedire il progresso delle nazioni, di preparare il terreno per la presa in possesso della regione e del resto del mondo da parte di quelle superpotenze, di seminare divisioni, di aprire al mercato delle armi occidentali, di depredare le risorse dei popoli oppressi ed anche di prendere il controllo sui popoli di Europa e America. In effetti il regime sionista è la spada avvelenata al servizio della rete del sionismo globale e delle arroganti potenze nella nostra regione e nel mondo intero.” (www.israele.net)

Una retorica che non aiuta per niente la stabilizzazione dell’intera regione e facilita l’attività di scontro messe in atto da Hamas e Hezbollah, organizzazioni appoggiate dall’Iran. La guerra d’estate 2006 tra Hezbollah e Israele e gli scontri durante l’Operazione “Pioggia d’estate del 2006 e l’Operazione “Piombo fuso” del 2008-2009 nascono da una volontà di perpetuare il circolo vizioso di attacco- rappresaglia –guerra.

Questa aggressività dipende dal fatto che oggi la Repubblica Islamica si trova in una situazione di isolamento internazionale e di avere gravi problemi interni quali l’alto tasso di disoccupazione, inflazione e una società, specie tra i più giovani, stanca della retorica del regime.

Una prova delle difficoltà in cui versa l’Iran è data dalle manifestazioni organizzate dai vari apparati che invocano “morte all’America e a Israele”. Esse non sono altro che delle manovre propagandistiche organizzate per dare un’apparenza di unità e mascherare il malcontento della gente. Nel mese di giugno si terranno le elezioni presidenziali alle quali la politica fallimentare di Ahmadinejad dovrà sottoporsi al giudizio popolare. Si spera che la popolazione partecipi senza lasciare il proprio diritto di decidere sul proprio futuro alle parti estremiste. Il popolo iraniano è chiamato a traghettare il paese verso quelle scelte pacifiche, tanto auspicate dal Presidente Usa Obama, per dimostrare la forza del popolo e la grandezza della civiltà iraniana.

mercoledì 11 marzo 2009

IL VERO VOLTO DI HAMAS

di Salvatore Falzone (pubblicato su Obiettivo Affari&Notizie Anno XXI - N. 364 - 12 febbraio 2009)

L’ultima guerra tra israeliani e palestinesi con l’Operazione “Piombo Fuso” è solo uno degli ultimi atti consequenziali dell’assenza di qualsiasi strategia politica da parte di Hamas. Occorre ripartire dalla guerra civile palestinese per meglio comprendere come l’organizzazione fondamentalista abbia imboccato una strada senza uscita, a meno di una svolta a tutto campo nella quale la politica e la realtà prendano il sopravvento. Di certo, per converso, non si può dimenticare che la guerra con tutti i suoi danni collaterali impone a tutte le parti di porre fine alla violenza e avviare dei veri negoziati nei quali si arrivi alla creazione di uno Stato di Palestina e il riconoscimento dello Stato di Israele. Si parla di guerra civile quando il potere sovrano di uno Stato diventa incompatibile con le aspirazioni del proprio popolo. In Palestina, ancora oggi, non esiste uno Stato con i suoi elementi caratteristici: territorio, popolo, sovranità. Il territorio che dovrebbe spettarle è diviso in due entità: Striscia di Gaza e Cisgiordania.

La loro divisione è sia territoriale, dove non c’è un corridoio di collegamento tra i due nonostante le richieste in questo senso dei palestinesi in ogni vertice con gli israeliani, che politica, dove Al Fatah comanda ed è ben insediata in Cisgiordania e la Striscia di Gaza oramai considerata sempre più la base politica e di potere di Hamas. La popolazione, a sua volta ripete lo stesso schema, si trova divisa territorialmente (considerando anche i palestinesi che vivono in Israele come arabo-israeliani), politicamente e una buona parte si trova disperso nei vari campi profughi nei Paesi arabi limitrofi. Infine, la sovranità intesa sia come ordinamento giuridico originario e indipendente che come supremazia dell’ordinamento statale sui vari ordinamenti minori non esiste. I palestinesi dovrebbero radunarsi, per cambiare questo stato di cose sotto un’ unica autorità e non disperdersi in bande e fazioni, che agiscono in nome e per conto del popolo (almeno così dichiarano) in uno scontro militare e politico tra nemici pronti a distruggersi. La situazione palestinese negli ultimi anni è stata sequestrata dal radicalismo islamico in uno scontro religioso, dove ogni compromesso appare impossibile a differenza dello scontro nazionale, dove con l’interesse delle parti e una diplomazia non di puro contenimento della situazione ma di risoluzione porterebbe ad un compromesso. Con queste premesse sul campo, principalmente a Gaza, la situazione scivolava orami nel profondo di una guerra civile.

Giustamente, da più parti, veniva bollata come la “follia dei palestinesi” di Hamas. Le fazioni armate rispondevano solo ai comandanti locali, i quali avrebbero preso gli ordini dai loro reclutatori nei paesi ostili al dialogo interno come l’Iran e la Siria, portavano il segno di una lotta fratricida.
Una Palestina dai mille problemi e in mille parti frammentata con clan tribali, famiglie pronte a condizionare qualsiasi esito sembrano mandare in frantumi un possibile Stato di Palestina. L’incapacità dei vari dirigenti, sia di al Fath che di Hamas, a compiere il necessario salto da guerriglieri a classe dirigente responsabile di uno Stato in formazione è latente. Tutto si svolge in accuse di corruzione e degrado morale per al Fath, discredito della vecchia dirigenza dell’OLP, capacità governative fallimentari per Hamas. Nelle parole di Khaled Hroub (Khaled Hroub, Hamas. Un movimento tra lotta armata e governo della Palestina raccontato da un giornalista di Al Jazeera, Bruno Mondadori 2006, pag. 98) giornalista di Al Jazeera, si intravedono le diversità del passato ed oggi ancor più vistose: “La questione fondamentale, fonte di maggiore attriti tra le due parti, è stata l’insistenza di Hamas nell’effettuare i propri attacchi militari contro obiettivi israeliani in un momento in cui l’Autorità palestinese, guidata da al-Fatah, cercava di concludere con Israele ulteriori accordi di pace. Il braccio armato del movimento è stato considerato dall’Autorità palestinese come una fazione priva di controllo e illegittimamente armata, di cui le forze di sicurezza palestinesi, alleate dall’Autorità, avrebbero dovuto assumere il controllo. […] La grande circolazione di armi e la presenza di diverse fazioni armate che agiscono caoticamente, senza una chiara leadership né obiettivi precisi, rendono la situazione palestinese particolarmente soggetta al rischio di una deriva verso la guerra civile.” Nel mese di giugno 2007 riprendevano i combattimenti tra le varie fazioni, il pomo della discordia era il solito: tutte le Forze di Sicurezza dovevano essere sottoposte al controllo governativo. Il Premier Haniyeh svolgeva ad interim anche le funzioni di Ministro degli Interni, quindi, questa richiesta assumeva il carattere di un vero colpo di mano finale. Inoltre la Forza Esecutiva creata da Hamas agiva sempre più in concorrenza e ostilità nei confronti della Forza Preventiva dell’ANP. Da tempo le parti in causa ventilavano delle accuse al proprio nemico di voler attuare un golpe. Verso la metà del mese il movimento dichiarava guerra aperta ai “traditori di Fatah” e a tutti coloro che erano vicini al Presidente Abu Mazen. Hamas chiamava a raccolta il popolo palestinese per la “seconda liberazione”, dopo la prima avvenuta nel 2005 quando ci fu lo sgombero israeliano. L’apice si tocca il 13 giugno quando i miliziani, dopo un ultimatum di consegnare le armi ai fedeli del Presidente, alzavano il tiro facendo saltare in aria il quartier generale delle forze palestinesi a Khan Yunis. In poco tempo, i miliziani attivano scontri cruenti in ogni angolo della Striscia impadronendosi di tutto ciò che rappresenta l’Autorità Nazionale Palestinese. Un corteo composto da palestinesi, che chiedevano la fine delle violenze, veniva fatto bersaglio di colpi d’arma da fuoco. Le vendette tra saccheggi e regolamenti di conti non risparmiavano nessuno. Le immagini che ci venivano trasmesse dalla Striscia ritraevano scene di un totale disordine e di miliziani che distruggevano, persino, le foto raffiguranti Yasser Arafat, l’uomo che ha rappresentato il popolo palestinese. Sotto il fuoco di Hamas, Abu Mazen dichiarava la stato d’emergenza e scioglieva il governo di Hamas, oramai si profilava un’Autorità divisa in due: ANP in Cisgiordania e Hamas nella Striscia di Gaza. Sotto l’incalzare degli eventi l’ONU, con il Segretario Ban Ki-moon proponeva, facendo seguito alle richieste del Presidente Abu Mazen, di studiare la possibilità di schierare una Forza di Pace, ma i fondamentalisti di Hamas bollavano qualsiasi intervento esterno come una indebita ingerenza. E sull’ipotesi di una Forza di Pace la qualificavano come “truppe di occupazione” lasciando intendere che sarebbero pronti a scagliarsi contro di loro. Anche sul piano psicologico Hamas sembrava voler spiazzare completamente il nemico. Da parte dei vari dirigenti veniva data una lettura dei fatti che incolpava direttamente i capi di al Fath e soprattutto del capo della Forza Preventiva a Gaza, Mouhammad Dahlan reo di essersi accordato con gli Usa e gli israeliani per un “repulisti” nella Striscia. Quindi per gli uomini di Hamas si trattava non di un colpo di Stato ma di un’azione difensiva. Mentre la situazione precipitava a Gaza Abu Mazen si apprestava a varare un secondo governo palestinese retto dal nuovo Premier Salam Fayyad. Il programma di questo nuovo esecutivo veniva presentato come anti-Hamas. Veniva dato il proprio sostengo agli accordi precedenti di riconoscimento reciproco tra Israele e OLP, si esprimeva il pieno sostegno al piano di pace arabo e si ribadiva la volontà di creare uno Stato palestinese indipendente con le giuste risoluzioni dei vari contenziosi. Il governo Fayyad in mezzo al caos creato cercava, seppur in maniera sotterranea, di allacciar un minimo di dialogo ma i nodi sembravano un fertile terreno di scontro. Si parlava insistentemente di un disperato tentativo dell’Autorità palestinese di imporre la propria sovranità: Abu Mazen cercava di cambiare la legge elettorale subordinandola per i partecipanti alle prossime elezioni all’accettazione di una clausola di riconoscimento dei precedenti accordi di Oslo. Ma se tutto ciò potrebbe estromettere Hamas, in caso di non accettazione, l’organizzazione rispondeva adducendo la differenza tra il nuovo governo nella Striscia e la precedente gestione dell’Autorità palestinese.

La strategia di Hamas è di far percepire alla popolazione un cambiamento molto netto. Parole come “ripristino di un ordine nuovo” da contrapporsi al disordine precedente instaurato attraverso il malgoverno dell’Autorità palestinese aiutato da Israele sono martellanti attraverso la propaganda.
Il presidente del Consiglio legislativo palestinese, Ahamad Bahar (Umberto De Giovannangeli, Chi ha tradito la causa palestinese, in Limes 5/2007, pag. 107) è molto chiaro: “Hamas sta riportando ordina a Gaza. E questo significa anzitutto riorganizzare le forze di sicurezza anche in funzione della resistenza all’occupazione israeliana e ai suoi progetti di attacco. E’ molto grave che i propositi aggressivi di Israele siano sostenuti da elementi di Fatah, che credono così di potersi prendere una rivincita. Ma agendo in combutta con il nemico, costoro non fanno che rinsaldare il legame tra Hamas e la gente palestinese.” Ma la domanda rimane sempre la stessa: può la lotta interna palestinese favorire la causa dei palestinesi? Si può continuare ad accumulare potere solo pensando alla distruzione e allo scontro con Israele e dimenticando i problemi della gente?