venerdì 18 dicembre 2009

Ecco lo Stato rifiutato dai palestinesi


Ecco lo Stato rifiutato dai palestinesi di Aluf Benn

L’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert era pronto a dare ai palestinesi terre tolte alle comunità israeliane confinanti con la striscia di Gaza e alle riserve naturali dei colli di Giudea in cambio dell’annessione a Israele dei principali blocchi di insediamenti in Cisgiordania.
Secondo la mappa proposta da Olmert, pubblicata per la prima volta giovedì da Ha’aretz, il futuro confine fra Israele e striscia di Gaza sarebbe stato corso a ridosso di kibbutz e moshav come Be'eri, Kissufim e Nir Oz i cui terreni sarebbero stati ceduti ai palestinesi. Olmert proponeva inoltre di cedere al futuro stato palestinese terre nella valle di Beit She'an presso il kibbutz Tirat Tzvi, sui colli di Giudea presso Nataf e Mevo Betar, e nelle zone di Lachish e della foresta di Yatir. Complessivamente queste aree avrebbero comportato il trasferimento allo stato palestinese di 327 kmq ritagliati all’interno della Linea Verde (a titolo di riferimento, la striscia di Gaza misura 360 kmq).
Olmert mostrò questa mappa al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) nel settembre dell’anno 2008. Abu Mazen non diede alcuna risposta e i negoziati si fermarono. In un’intervista martedì scorso ad Ha’aretz, Abu Mazen ha detto che Olmert gli aveva mostrati diverse bozze della mappa.
La versione pubblicata svelata ora da Ha’aretz si basa su fonti che hanno ricevuto informazioni dettagliate circa le proposte di Olemrt.
Olmert intendeva annettere a Israele il 6,3% della Cisgiordania, in aree che ospitano il 75% della popolazione ebraica che vive in quel territorio. La sua proposta avrebbe comportato lo sgombero di decine di insediamenti dalla valle del Giordano, dai colli della Samaria orientale e dalla regione di Hebron. In cambio dell’annessione a Israele di Ma'aleh Adumim, del blocco Gush Etzion, di Ariel, di Beit Aryeh e degli insediamenti attigui a Gerusalemme, Olmert proponeva il trasferimento al territorio dei palestinesi di terre equivalenti a un 5,8% della Cisgiordania più una corridoio garantito fra Hebron e striscia di Gaza con un’autostrada che sarebbe rimasta parte del territorio sovrano d’Israele ma dove non vi sarebbe stata presenza israeliana.
Olmert diede a Danny Tirza, che era stato il principale funzionario impegnato nella pianificazione della barriera difensiva, il compito di sviluppare la mappa che avrebbe stabilito il confine definitivo fra Israele e stato palestinese.
La proposta di annessione di blocchi di insediamenti corrisponde in gran parte al tracciato della barriera difensiva. Nella sua proposta di scambio territoriale, Olmert boccia l’idea circolata in precedenza di trasferire ai palestinesi i colli orientali di Lachish, optando piuttosto per la creazione in quell’area di comunità destinate ad accogliere gli israeliani sgomberati dalla striscia di Gaza. Inoltre preferiva cedere ai palestinesi terreni agricoli attorno a Gaza, anziché le dune di Halutza presso il confine con l’Egitto.
Il piano Olmert avrebbe comportato lo sgombero di decine di migliaia di coloni e la rimozione di emblemi della presenza israeliana in Cisgiordania come Ofra, Beit El, Elon Moreh e Kiryat Arba, oltre alla comunità ebraica dentro la città di Hebron. Olmert raggiunse un’intesa verbale con l’amministrazione Bush in base alla quale Israele avrebbe ricevuto aiuti finanziari per sviluppare il Negev e la Galilea allo scopo di assorbirvi parte dei coloni sgomberati dalla Cisgiordania. Altri sfollati sarebbero stati insediati in nuove abitazioni da costruire nei blocchi di insediamenti annessi a Israele.
Per completezza, va detto che l’ufficio di Olmert, interpellato da Ha’aretz sulla divulgazione di questo piano, ha dato la seguente risposta: “Il 15 settembre 2008 (Olmert) mostrò al presidente Abu Mazen una mappa che era stata preparata sulla base delle decine di colloqui che i due avevano avuto nel corso di intensi negoziati dopo il summit di Annapolis. La mappa era concepita per risolvere il problema del confine fra Israele e il futuro stato palestinese. La consegna della mappa ad Abu Mazen era subordinata alla firma di un accordo globale e definitivo con i palestinesi affinché essa non venisse utilizzata come posizione di partenza in futuri negoziati che i palestinesi cercassero di condurre. In definitiva Abu Mazen non diede il suo assenso per un accordo completo, e dunque la mappa non gli venne consegnata”. L’ufficio di Olmert ha anche detto ad Ha’aretz che “naturalmente, per ragioni di responsabilità, non possiamo parlare del contenuto di quella mappa e dei dettagli della proposta. Va tuttavia sottolineato che, fra i dettagli contenuti nel vostro quesito, figura un numero non trascurabile di imprecisioni che non corrispondono alla mappa che venne infine mostrata (ad Abu Mazen)”.

(Da: Ha’aretz, 17.12.09)

Nell’immagine in alto: la mappa della proposta di Olmert secondo Ha’aretz. Per una versione più grande in .pdf:
http://www.haaretz.com/hasite/images/iht_daily/D171209/olmertmap.pdf
(Fonte: http://www.israele.net)

mercoledì 21 ottobre 2009

La stasi del processo di pace in Medio Oriente

di Salvatore Falzone

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Molti sono concordi nel ritenere che in Medio Oriente si sta vivendo una situazione di stasi politica. E’ vero. Re Abdallah di Giordania, uomo moderato, da tempo afferma che la “pace è a rischio” nella regione.

In un’intervista rilasciata al quotidiano Repubblica del 19 ottobre denuncia come la situazione potrebbe degenerare se non si rilancia il processo di pace. Il re è convinto che serve una pace globale che sia “[…] complessiva con 57 nazioni (Lega Araba e Conferenza islamica), cioè un terzo del mondo, che oggi non riconoscono Israele”. E indica un limite temporale: “la finestra della speranza, fra breve, si chiuderà. Entro la fine del 2010, se Israele non crederà nella soluzione dei due Stati, svanirà la possibilità di un futuro Stato palestinese, per questioni geografiche: i territori già sono frantumati in cantoni. E se voi e io dovessimo ritrovarci qui, a porci le stesse domande, temo che la nostra generazione non vedrà la pace”.

Il re vuole la fine dell’occupazione, sostiene la nascita di uno Stato palestinese indipendente che viva a fianco allo Stato d’Israele e pone l’accento sull’indipendenza dei palestinesi accompagnata dallo sviluppo economico. Abdallah teme che la politica di Netanyahu sul mancato congelamento delle colonie possa trasformarsi in un escamotage per rimandare la nascita e la creazione di uno Stato di Palestina.

“Serve una soluzione fondata sui due Stati, e questo noi stiamo aspettando”, dichiara.. Ma Abdallah sa anche che tutte le proposte e richieste presentate da Israele, da Rabin a Netanyahu, troppo spesso non hanno trovato risposta politica realistica da parte degli arabi.

Il premier Netanyahu accetta la formula di due popoli per due Stati e chiede il riconoscimento dello Stato d’Israele come giusta aspirazione del popolo ebraico e uno Stato di Palestina non militarizzato. Richieste, che sino ad oggi con un panorama palestinese diviso e un movimento Hamas che non accetta nessuna visione politica, non hanno trovato delle risposte. L’approccio dei palestinesi rende ingessata la situazione con conseguenze molto negative per la rappresentanza e credibilità dei palestinesi.

Il mondo arabo dal ’48 sino a oggi ha presento solo due piani di pace.

Il primo è il Piano Fez del 1982 e il secondo il Piano Saudita del 2002 riproposto nel 2007.

Si tratta di un piano che stabilisce la completa restituzione dei Territori Occupati in Cisgiordania con il completo sgombero delle colonie e la restituzione totale delle Alture del Golan; il diritto al ritorno dei profughi in Israele e un accordo per far nascere lo Stato palestinese nella Striscia di Gaza e Cisgiordania, con capitale Gerusalemme Est. Tutto ciò porterebbe, per gli arabi, alla completa normalizzazione dei rapporti tra arabi e israeliani e la fine del conflitto.

In poche parole i Paesi arabi chiedono il ritorno alla geografia precedente al conflitto dei Sei Giorni del ’67.

In molti si chiedevano se il Piano era solo di “facciata” o se era aperto agli inevitabili compromessi per la sua riuscita. C’è da dire che, nel 2002 a Beirut in una riunione della Lega Araba, la Casa regnate Saudita si era impegnata nella stesura di questo piano, ma all’epoca Israele non prese in considerazione il Piano.

L’iniziativa veniva vista come una risposta all’opinione pubblica mondiale agli attacchi dell’11 settembre, dove la maggior parte degli attentatori avevano la cittadinanza saudita, ma al contesto della seconda intifada, accompagnata dal terrorismo non poteva di certo favorire un approccio favorevole israeliano. Nessun Paese quando si sente sotto assedio è disposto a trattare se prima non si ferma la violenza.

Nel 2007, invece, l’iniziativa è vista come una conferma da parte saudita del sunnismo in risposta alla paura di una forte penetrazione sciita iraniana nella regione, alla luce dei rapporti tra Hamas (sunnita) e l’Iran sciita, senza dimenticare la guerra dei trentaquattro giorni con gli sciiti Hezbollah.

Il Piano è anche visto come una risposta regionale in contrapposizione alla politica americana di aiuto allo Stato ebraico.

La percezione araba e riassunta dal Professor Naseer Aruri in un suo libro ha scritto: “Un aspetto singolare della politica americana nei confronti del conflitto arabo-israeliano (dall’occupazione del 1967) è stata l’insistenza con cui gli USA hanno dichiarato di essere gli arbitri principali o i soli pacificatori, quando in realtà non sono stati altro che cobelligeranti. Parallelamente al rafforzamento costante della special relationship tra USA e Israele (trasformata in un’opportuna alleanza strategica) durante e dopo la guerra fredda, si è sviluppata una preminenza del ruolo diplomatico americano. Tale ruolo ha finito per eclissare tutti i metodi convenzionali per la risoluzione del conflitto: la mediazione, le iniziative multilaterali, i tentativi regionali e una pacificazione patrocinata dall’ONU.”.

Alla proposta araba lo Stato ebraico apriva all’iniziativa, il Premier Olmert invitava i capi di Stato arabi in una discussione costruttiva.

Si chiedeva una possibilità di incontro esteso dal Quartetto /Usa, Ue, Russia, Onu) più un Quartetto arabo (Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) ed ovviamente Israele e l’ANP. E il Ministro degli Esteri Livni oltre all’ apertura ribadiva la necessità di un compromesso su basi realistiche.

In un comunicato il Ministero degli Esteri affermava che “[…] Bisogna che sia ben chiaro che la creazione di uno Stato palestinese dovrà essere la risposta alla rivendicazione palestinese del “ritorno”, così come la creazione di Israele ha dato risposta alla storica aspirazione del popolo ebraico a tornare nella terra patria. Allo stesso modo, deve essere ben chiaro che le linee del cessate il fuoco in vigore fino al giugno 1967 non erano confini permanenti, e che non v’era continuità territoriale fra Striscia di Gaza e la Cisgiordania. L’insistenza della Lega araba sui profughi e territorio rivela un desiderio non realistico di ottenere più di quello che c’era nel 1967. […] Tuttavia il conflitto non potrà essere avviato a soluzione finchè persistono le violenze. Israele incoraggia gli autentici moderati del mondo islamico a premere sulla leadership palestinese affinché cessi l’uso della violenza e oneri i suoi impegni, permettendo che emerga una prospettiva di pace sull’orizzonte politico”.

Il piano ancora oggi è sicuramente una piattaforma molto importante ma per essere credibile deve essere negoziabile su basi realistiche.

Così -come Olmert prima- Netanyahu oggi si trova nella posizione di non poter negoziare se il piano si mostra come un diktat “prendere o lasciare”. Occorre che proprio il mondo arabo con i suoi leader facciano una scelta coraggiosa e realistica a partire dal principio di modifica dei confini previa compensazione territoriale.

Scelta che inevitabilmente porterebbe ad una maggiore comprensione e ricreerebbe un clima di fiducia essenziale per la pace nella regione.

In questo re Abdallah potrebbe giocare un ruolo di primo piano per fare in modo che non si ripeta quello che l’ambasciatore saudita disse subito dopo Camp David 2000: “Dal 1948, ogni voltai che viene messo qualcosa sul tavolo dei negoziati, noi dicano di no. Poi diciamo di si, ma quando diciamo di si questo qualcosa non è più sul tavolo. E allora dobbiamo lavorare su qualcosa di meno importante. Non sarebbe ora di dire di si?... Se ci lasceremo sfuggire quest’occasione, non sarà una tragedia: sarà un delitto”.

venerdì 31 luglio 2009

QUESTIONE DI GERUSALEMME

Il conflitto arabo-israeliano-palestinese nasce da uno scontro nazionale e religioso. Da un punto di vista nazionale il punto di partenza è lo scontro tra il sionismo e il nazionalismo arabo e poi palestinese. Invece da un punto di vista religioso la Terra assume una connotazione sacra tanto per l’ebraismo che per l’Islam. Terra inalienabile discendente da un patto con Dio quindi incontestabile. Sebbene, ad oggi il principio “due popoli per due Stati” sia il cardine sul quale far girare tutta la questione per trovare una giusta soluzione quest’ultima connotazione rappresenta un vero punto di scontro. In particolare la formula espressa di uno Stato d’Israele riconosciuto che viva con uno Stato di Palestina su Gaza e Cisgiordania, trova uno dei tanti suoi nodi sulla questione di Gerusalemme.
Gerusalemme è la Città Santa per eccellenza: santa per la religione ebraica, santa per la religione cristiana e santa per la religione islamica. Come dire il contrario se quel luogo rappresenta il patto tra popolo eletto e Dio per gli ebrei? la predicazione di Gesù e le sue entrate al Tempio? il viaggio del Profeta Maometto dove ricevette la rivelazione?
La Città di Gerusalemme da un punto di vista strategico non è fondamentale; essa è situata lontano dal mare, senza corsi d’acqua e sorge su una collina. Intorno all’anno 1000 a.c. re David ne cambio il destino dopo la sua decisione di erigere un altare al Signore; Salomone fece costruire il Tempio trasformando Gerusalemme in capitale politica a città santa ebraica. Intorno al 70 d.c. i romani rasero al suolo il Tempio e sessantacinque anni dopo fecero lo stesso con la città mutandone il nome in Aelia Capitolina. Non si limitarono al solo cambiamento del nome ma si attivarono per cacciare gli ebrei ed erigere un tempio a Giove. L’intento dei romani non produsse l’effetto sperato: cancellare l’identità ebraica, anzi il legame tra città e spiritualità ebraica rimase inalterato. Ben presto ripresero le lotte e le varie battaglie. Nel frattempo la Città era diventata il fulcro spirituale per i cristiani e gli islamici da qui le crociate, fino al 1517 quando, la città, diventò una provincia dell’Impero Ottomano fino alla sua disintegrazione durante il primo conflitto mondiale. Dopo la Dichiarazione Balfour del 1917 e la sostituzione dal dominio ottomano con quello inglese la situazione subì un inasprimento, dovuto alla paura araba di una costituzione di uno Stato ebraico e la rivendicazione della Terra o parte di essa per costituire un proprio Stato per gli ebrei. Gli inglesi decisero di passare tutto all’Organizzazione delle Nazioni Unite, che stabilirono con la Risoluzione 181 del 29 novembre del 1947 la creazione di due stati uno ebraico e l’altro arabo, trasformando la Città di Gerusalemme in un “corpo separato” da sottoporre sotto un’amministrazione internazionale. Al Consiglio di amministrazione veniva dato il potere di redigere uno statuto per la città, inoltre dopo 10 anni la popolazione avrebbe dovuto esprimersi per il futuro mediante un referendum.
Le cose andarono diversamente a seguito del primo conflitto arabo–israeliano, dove per gli ebrei si trattò della prima guerra d’indipendenza mentre per gli arabi palestinesi si trattò della Nakba ossia catastrofe. Sul terreno le cose cambiarono: Gerusalemme venne tenuta nella parte occidentale mentre la Legione araba penetrò nella parte orientale della città inclusa la Città Vecchia. Gli accordi di armistizio tra Israele e Giordania prevedevano il diritto degli ebrei a recarsi al Muro del Pianto e al Monte degli Ulivi, dove vi è il cimitero ebraico, in realtà i giordani non permisero l’applicazione di quanto stabilito collegando la questione al ritorno dei rifugiati palestinesi alle loro terre. Gli israeliani non poterono recarsi al Monte del Pianto e gli arabo israeliani non poterono recarsi alla Spianata delle Moschee. La posizione dei giordani si trasformò poi scempio quando il cimitero ebraico venne profanato.
Dal canto suo, Israele decise di trasferire i propri ministeri e il Parlamento, Knesset, in città dove nel 1950 con una risoluzione fu dichiarata capitale dello Stato.
Nel 1967 con la guerra dei Sei giorni le truppe israeliane penetrarono nella parte orientale e nella Città Vecchia. Il comandante dei paracadutisti, Motta Gur, fece sventolare la bandiera con la Stella di David sul Monte, ma Dayan ne ordinò subito il ritiro. Gli ebrei poterono andare a pregare liberamente al Muro del Pianto e gli arabi residenti in Israele alla Spianata. Il governo di Levi Eshkol rassicurò i credenti di tutti i culti che avrebbe garantito l’accesso libero a tutti i luoghi Santi, inoltre l’amministrazione della Spianata delle Moschee fu lasciata in mano ai capi spirituali musulmani, per non provocare i risentimenti del mondo musulmano. Nel frattempo furono rimosse le barriere di divisione tra le due parti della Città e di fronte al Muro del Pianto furono espropriate diverse abitazioni per permettere ad un maggiore numero di ebrei di pregare di fronte al Muro. Il 27 giugno la Knesset approvò varie leggi che estendevano il diritto e l’amministrazione israeliana su Gerusalemme Est, quindi la costruzione di insediamenti attorno alla Gerusalemme abitata dagli arabi, e il 30 giugno 1980 la Knesset approvò un’altra legge dove esplicitamente veniva dichiarato che Gerusalemme era la capitale indivisa dello Stato.
Quando partirono i colloqui, che porteranno alla Dichiarazione dei Principi, la questione di Gerusalemme (insieme ad altre come profughi, coloni, confini) venne derogata a varie commissioni di lavoro che agirono in gran segreto per evitare le pressioni delle proprie opinioni pubbliche.
Particolarmente interessante è l’accordo Beilin e Abu Mazen, che prende il nome dai due esponenti di rilievo delle due parti. Il piano avrebbe dovuto servire come cornice in vista di una pace definitiva. Il piano prevedeva una Città di Gerusalemme indivisa e aperta, con la costituzione di due municipalità con estensione sui vari insediamenti e aree palestinesi, con ampi poteri, l’organismo sarebbe stato eletto separatamente dagli abitanti dei quartieri palestinesi e israeliani.
Israele avrebbe riconosciuto la parte amministrata dai palestinesi come la capitale dello Stato Palestinese (Al Quds) e i palestinesi avrebbero riconosciuto la parte amministrata dagli israeliani come la capitale dello Stato d’Israele (Yerushalayim). La parte della Città Vecchia e le restanti sezioni della parte orientale sarebbero state oggetto di studio di varie commissioni. Sui Luoghi Santi le parti si impegnavano a riconoscere e garantire la libertà di culto e di accesso nonchè veniva previsto uno status speciale sulla Città Vecchia. Con responsabilità delle due municipalità, ai palestinesi sarebbe stata riconosciuta la sovranità extraterritoriale sul Haram Al Sharif con l’amministrazione del Consiglio musulmano (Waqf). L’accordo Beilin–Abu Mazen fu completato pochi giorni prima dell’uccisione di Rabin e sotto l’offensiva terroristica di Hamas e Hezbollah. Solo nel 2000 a Camp David la questione venne riproposta, il presidente Clinton arrivò a proporre un accordo in base al quale ai palestinesi sarebbe stato riconosciuto l’Haram e i quartieri musulmani e cristiani, mentre agl’israeliani sarebbe stato riconosciuto il Muro Occidentale e i quartieri ebraici e armeni.
Clinton usò espressioni di sovranità, autorità funzionale, simbolo di sovranità. Davanti alle resistenze di tutte le parti in causa con il fallimento del vertice si arrivò a nuovi incontri fino a sfociare nell’incontro di Taba del gennaio 2001 dove fu trovata l’intesa: i luoghi Santi arabi sotto controllo palestinese e i luoghi Santi ebraici sotto controllo israeliano con vari gradi di estensione (sotto e sopra i luoghi ). Ma oramai sotto l’impulso della violenza tutto si complicava fino a raggiungere la più totale stasi e riporre i suddetti programmi/accordi a giacere nella speranza di un futuro migliore; eppure quei vertici e quelle discussioni hanno infranto diversi tabù in maniera tale che ogni nuovo accordo definitivo deve necessariamente partire da quei punti discussi.

mercoledì 22 luglio 2009

VINCERA’ IL POPOLO


PARLA SHIRIN EBADI, L’IRANIANA PREMIO NOBEL PER LA PACE


VINCERA’ IL POPOLO

“QUESTA E’ LA RIVOLUZIONE DELLA GENTE, IN IRAN SI E’ ORMAI DIFFUSA UNA MENTALITA’ DEMOCRATICA CHE FINIRA’ CON L’IMPORSI “.
“SONO LAICA MA IN CARCERE HO PREGATO MOLTO”.

Shirin Ebadi è stata il primo magistrato donna dell’Iran. Con la Rivoluzione del 1979 le fu revocata l’autorizzazione e solo nel 1992 le è stata data la possibilità di aprire uno studio di avvocato. Da allora difende, gratuitamente, i perseguitati politici e le vittime del regime. Come Zahra Bani-Yaghub, 27 anni, medico. Sedeva in un parco con il suo fidanzato quando fu arrestata dagli agenti della “buoncostume”. Due giorni dopo il corpo fu restituito alla famiglia: suicidio. Shirin Ebadi è riuscita a dimostrare che nella cella dove si trovava era impossibile impiccarsi. Anche per questo nel 2003 le è stato confermato il premio Nobel per la pace.
La Ebadi è arrivata in Italia grazie alla Fondazione “Alexander Langers” e ha parlato alla regione Toscana, al Senato e alla Camera. Continuerà a sensibilizzare gli animi su quanto sta accadendo, poi tornerà in Iran, dove per lei potrebbe iniziare una nuova stagione di lavoro oppure aprirsi la porta del carcere.
“Sono già stata in carcere. Mi hanno sempre tenuta in isolamento. Per fortuna sono di piccola statura, altrimenti non mi sarei potuta sdraiare nel buco di cemento dov’ero rinchiusa. Non ci davano un cuscino, un libro, nulla. Non c’erano finestre e la luce era sempre accesa, così si perdeva anche la cognizione del tempo. Alla fine si cominciano ad avere le allucinazioni: gli psicologi la chiamano “tortura bianca” “.

Nell’immaginario di molti, l’Islam corrisponde al male. Combattere il regime significa combattere l’Islam?

“La divisione tra religione e Stato è imprescindibile, lo dimostra il fallimento della Rivoluzione iraniana. In tal senso sono assolutamente laica. Da un altro punto di vista, però, sono molto legata alla mia estrazione musulmana. Nutro un profondo rispetto per la religione e, insieme a me, anche gli iraniani che ogni notte gridano “Iddio è grande” dai tetti delle case. Io non sarei sopravvissuta al carcere se non avessi potuto pregare. Laicità non significa disprezzo per la fede, anzi. E’ il solo modo per difendere la religione dalle strumentalizzazioni del potere”.

All’inizio lei ha sostenuto la Rivoluzione, poi ne ha preso le distanze…

“Innescare cambiamenti politici con rivoluzioni è inaccettabile, comporta un prezzo di sangue troppo alto e ingiustizie intollerabili. Però devo ammettere che ci sono stati anche risultati positivi nella coscienza del nostro popolo. Prima del 1979, l’Iran era asservito alla politica statunitense, una condizione di sudditanza che aveva fatto perdere alla popolazione ogni fiducia nel Paese. Con la Rivoluzione gli iraniani sono tornati ad essere artefici del proprio destino”.

Nel 1980 Khamenei, grande nemico di Moussavi, ha preso il posto di Khomeini come Giuda suprema.

“Khomeini aveva un carisma che l’attuale Guida non potrà mai avere”.

C’è chi ritiene che Moussavi, primo ministro dal 1980 al 1989, sia troppo legato all’establishment per guidare l’Iran a un cambiamento profondo.

“Non sono i politici i protagonisti della contestazione ma il popolo. La democrazia è una cultura, non si può imporre ma si sviluppa tra la gente. Gli ultimi avvenimenti hanno creato e diffuso in Iran una mentalità democratica che alla fine arriverà a imporsi. E’ solo questione di tempo. Alcuni politici potrebbero aiutare il processo, altri ritardarlo, ma bisogna lasciare al popolo l’iniziativa di scegliersi i propri rappresentanti”.

Lei entrerà in politica?

“Non sono un politico ma un difensore dei diritti umani. I politici sono alla testa del popolo, devono interpretarne le esigenze e guidarli verso la loro realizzazione. Io mi colloco dietro al popolo e la mia funzione è di controllare che i politici rispettino i diritti fondamentali della gente”.

L’idea di far coincidere lo sciopero generale con il periodo tradizionale di ritiro spirituale in moschea è molto significativa. Quali saranno adesso i prossimi passi della contestazione?

“E’ presto per dirlo. Però adesso tutti dovrebbero aver capito che l’Islam è contro la frode e le bugie, l’uccisione di innocenti, l’incarcerazione di 1.200 persone, in massima parte giovani. Nei filmati si vede che i cecchini hanno ucciso sparando dal tetto di palazzi governativi e la polizia ha attaccato alle tre di notte il dormitorio degli studenti universitari, facendo 5 vittime. Il regime non ha più giustificazioni dal punto di vista religioso e ha perso ogni credibilità dal punto di vista politico. D’altra parte il popolo non è solo, sempre più spesso i religiosi si schierano con i democratici. Anche l’Associazione degli insegnanti del seminario di Qom, una delle più importanti città sante, ha messo in dubbio l’imparzialità del Consiglio dei guardiani, che ha ratificato il risultato delle elezioni. I religiosi hanno anche chiesto che siano rilasciati gli arrestati e puniti coloro che hanno ordinato i pestaggi e le uccisioni”.

Cosa si aspetta da Europa e Usa?

“Più senso di responsabilità. Da quando si è saputo che Nokia e Siemens hanno venduto al regime la tecnologia per controllare l’identità degli utenti della Rete, suggerisco di boicottare i cellulari Nokia. Stiamo pensando di ricorrere contro le multinazionali in sede UE e Onu. Devono capire il male che hanno fatto. Gli agenti del regime hanno bloccato la mia casella di posta elettronica e l’hanno utilizzata per inviare false email a mio nome. Hanno creato un finto sito democratico, invitando le vittime dei pestaggi a denunciare le violenze, fornendo i loro nomi e cognomi, quindi li hanno tutti arrestati. Hanno imprigionato persino Ebrahim Yazdi, un oppositore di quasi ottant’anni, mentre era ricoverato in ospedale. La comunità internazionale è per noi importante. Vorremmo nuove elezioni sotto controllo dell’Onu. Quando l’Iran aderirà al Tribunale penale internazionale, io potrò andare in pensione. Però occorre che le istituzioni internazionali assumano fino in fondo il loro ruolo di garanti”.

Famiglia Cristina n° 28/2009, a cura di Ahmad Gianpiero Vincenzo.

sabato 4 luglio 2009

SIRIA - USA: LA SVOLTA?


La Siria è un importante Stato nello scacchiere mediorientale, ai tempi dell’Amministrazione Bush i siriani erano stati indicati come i reggenti di uno “Stato canaglia”. Il presidente siriano, Bashar al Assad , subentrato dopo la morte del padre, ha ereditato un paese dove necessitavano importanti riforme. Inizialmente, il presidente, aveva lanciato segnali in tal senso, basti pensare ad una stampa non più costretta a celebrare i fasti del regime o all’apertura di dibattiti politici e culturali nel proprio paese. Ben presto, però, il partito/Stato Baath con una nomenclatura ingessata in chiusure ideologiche fece sentire tutto il suo peso e la sua potente forza. In poco tempo dalla “Primavera di Damasco” si era passati ad un periodo molto buio.
Lo stesso Assad riferisce, nel corso di un’intervista al settimanale l’Espresso del 15 maggio 08, che “E’ inevitabile che sorgono contrasti quando si inizia un processo di rinnovamento a ritmi incalzanti. Questo conflitto all’interno del Baath è però già stato risolto nel congresso del 2005,[…] Ammetto che non tutto è stato ancora realizzato. Sul fronte della corruzione, per esempio, abbiamo ottenuto buoni risultati al vertice della piramide. Ma molto rimane da fare alla base, a causa di uno sviluppo amministrativo troppo lento”.
Con la nuova amministrazione USA, grazie ai primi interventi di Barack Obama: disimpegno dall’Iraq, chiusura del carcere di Guantanamo e discorso al Cairo, l’America si è presentata con una nuova credibilità e come una forza politica quindi non più come solo una forza militare. Un nuovo clima di speranza si è instaurato, tanto che Assad ha invitato Obama a recarsi per una visita in Siria. Assad non fissa paletti, dice di voler “parlare della pace nella regione” e sottolinea che “ogni vertice tra capi di stato è positivo anche se non si è d’accordo su tutto, si possono accorciare le distanze”.
E’ evidente che il presidente siriano cerca nella mediazione americana un aiuto concreto per far uscire dall’impasse il groviglio mediorientale. Un groviglio che vede la questione siro-israeliana e la questione israelo–palestinese ancora da risolvere.
Dal ’91 in poi, la questione siro-israeliana è stata, al centro di vari tentativi di dialogo e negoziazioni da parte dei rispettivi governi. I territori delle Alture del Golan e delle Fattorie di Shebaa sono stati al centro di negoziazioni, ma ancora ad oggi restano delle divergenze territoriali e sulla sicurezza dei due gli attori. Sulla questione palestinese, ancora oggi restano problemi ma è chiaro che la formazione di uno Stato di Palestina (Gaza e Cisgiordania) con il giusto riconoscimento è la soluzione. Il principio dei due popoli per due Stati con i diritti riconosciuti deve essere irreversibile.
La storia dei negoziati ha mostrato che scegliere solo di affrontare una sola questione senza concentrarsi nella sua globalità, e di conseguenza accantonare l’altra seppur temporaneamente, ha degli effetti molto negativi sia sull’approccio diplomatico che sulla disposizione dell’opinione pubblica verso gli inevitabili compromessi.
Con l’invito di Assad ad Obama, ed una eventuale visita di quest’ultimo, il presidente americano potrebbe dare attraverso la sua credibilità quella forza necessaria per riuscire ad infrangere i tabù, nei quali solo i falchi di tutte le parti interessate hanno da guadagnare, per far decollare la pace che l’intera regione merita.

venerdì 5 giugno 2009

AL CUORE DEL PROBLEMA DEL MEDIO ORIENTE

di Salvatore Falzone



La prima visita del Presidente americano, Barack Obama, in Medio Oriente è stata seguita con grande attenzione. Obama, al secondo giorno della sua visita dopo aver incontrato in Arabia il re Abdullah, si è recato in Egitto dove ha incontrato Hosni Mubarak ed ha parlato all’Università del Cairo davanti ad una platea visibilmente ansiosa del suo discorso.

Obama ha parlato in maniera magistrale, ha toccato tutti i punti del problema mediorientale: conflitto arabo-israelo-palestinese, libertà religiosa, diritti delle donne, Iran, politica estera americana e democrazia.

In particolare sul conflitto che oppone arabi e israeliani è stato molto chiaro nell’indicare il “riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile”.

E’ partito da un presupposto molto limpido sul diritto di esistenza dello Stato di Israele ed ha condannato tutti gli stereotipi che alimentano l’odio e la negazione della storia del popolo ebraico.

Rivolgendosi ai palestinesi il Presidente ha ricordato la situazione piena di sofferenza nella quale dal ’48 in poi si sono trovati.

“L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese, alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio”.

Obama ha tracciato la situazione di un problema che è strumentalizzato dagli estremisti per far detonare l’intera regione. Poi, ha deciso di rivolgersi verso i dirigenti chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Per i palestinesi ha fatto riferimento alla cessazione delle violenze, a mostrarsi capaci di essere uniti e governare nella logica del benessere per il popolo nonché procedere ai riconoscimenti dei vari accordi precedenti con Israele. Il riferimento ad Hamas è molto chiaro affinché proceda verso un’ evoluzione politica. Mentre, a Israele ha ricordato come la pace deve essere raggiunta attraverso il mantenimento di tutte le promesse stilate negli accordi precedenti e in particolar modo procedere al blocco degli insediamenti.

“Il progresso reale nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso”.

Infine, si è rivolto agli Stati arabi ricordandogli l’importanza dei Piani ultimamente presentati ma che non cancellano una seria parte di responsabilità. Obama è arrivato dritto al cuore del problema mediorientale: aver utilizzato troppe volte la demonizzazione di Israele per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni. In questo ha implicitamente toccato gli elementi presenti nello scacchiere mediorientale: dittature, ideologie, interesse delle elite, riuscito utilizzo dei capri espiatori, rifiuto di porre fine al conflitto israelo-palestinese.

La forza del discorso di Obama sta nella scelta di rivolgersi direttamente ai musulmani, al popolo tutto. Egli cerca una legittimità della pace attraverso il popolo, cerca di rompere quell’equazione che ha visto, per troppo tempo, i dirigenti arabi succubi dell’odio contro Israele e a favore di una chiusura a qualsiasi normalizzazione.

In definitiva, il Presidente americano, cerca di rompere quella barriera psicologica affinché i dirigenti si trovino ad affrontare il problema con le giuste soluzioni reali e finiscano ad incentivare la polarizzazione verso uno scontro continuo. E chiama quella parte di opinione pubblica, di società civile, cosciente e responsabile a far sentire la sua voce. Di certo, il cammino è ancora lungo e irto di ostacoli, la società civile si trova a confrontarsi con duro indottrinamento misto a repressione da parte dello Stato o dei vari fondamentalismi; mentre necessità di pluralismo, non conformismo, tolleranza, responsabilità individuale, coraggio civile. Ma la speranza – seguita da scelte politiche dei vari attori responsabili - di un cambiamento per quella parte del modo ricca di storia, patrimonio dell’intera umanità, deve avere la meglio.

mercoledì 22 aprile 2009

IL BIVIO IRANIANO

di Salvatore Falzone (pubblicato su Obiettivo Affari&Notizie, Anno XXI - n. 368 - 23 aprile 2009)

Bisogna lavorare per la costruzione della pace nel mondo

L’apparizione del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, alla Conferenza dell’ONU sul razzismo “Durban II”, ha lasciato il segno.

Ahmadinejad non ha perso occasione per attaccare Israele bollandolo come “Stato razzista che governa nella Palestina occupata”.

Il presidente iraniano, ovviamente, dimentica la Risoluzione ONU 181 del ’47 che prevedeva la spartizione della Palestina storica in due stati: Stato arabo di Palestina e Stato di Israele. E dimentica che tale Risoluzione fu rifiutata interamente dagli arabi i quali mossero guerra. Alla fine del primo conflitto arabo-israeliano la situazione dei palestinesi fu paradossale “anzi il popolo di Palestina si trovò pesantemente condizionato dalla presenza e dai calcoli politici delle nazioni alle quali chiese aiuto”. (Salvatore Falzone, Nel nostro tempo tra terrorismo e conflitto israelo-palestinese, ed. Bonfirraro 2007, pag. 39)

In realtà i leader della Repubblica Islamica non sono nuovi alle accuse contro Israele. Basti ricordare le diverse conferenze che Teheran ha promosso contro lo Stato ebraico. E’ dall’ottobre del 2005, prima Conferenza dell’era Ahmadinejad, Conferenza su “Un mondo senza sionismo”, che il presidente auspica la sparizione d’Israele dalla carta geografica del Medio Oriente in quanto lo paragona ora ad un elemento estraneo alla società mediorientale, ora ad un male incurabile che deve essere estirpato! E in occasione della “Quarta conferenza internazionale a sostegno della Palestina, modello di resistenza”, che si è tenuta a Teheran il 3 marzo scorso, sia la Guida spirituale, Alì Khamenei, che il Presidente Ahmadinejad, hanno pesantemente attaccato Israele con discorsi paragonabili alle follie e bestialità del regime nazista di Hitler.

“La missione del sionismo è quella di minacciare costantemente il mondo, di impedire il progresso delle nazioni, di preparare il terreno per la presa in possesso della regione e del resto del mondo da parte di quelle superpotenze, di seminare divisioni, di aprire al mercato delle armi occidentali, di depredare le risorse dei popoli oppressi ed anche di prendere il controllo sui popoli di Europa e America. In effetti il regime sionista è la spada avvelenata al servizio della rete del sionismo globale e delle arroganti potenze nella nostra regione e nel mondo intero.” (www.israele.net)

Una retorica che non aiuta per niente la stabilizzazione dell’intera regione e facilita l’attività di scontro messe in atto da Hamas e Hezbollah, organizzazioni appoggiate dall’Iran. La guerra d’estate 2006 tra Hezbollah e Israele e gli scontri durante l’Operazione “Pioggia d’estate del 2006 e l’Operazione “Piombo fuso” del 2008-2009 nascono da una volontà di perpetuare il circolo vizioso di attacco- rappresaglia –guerra.

Questa aggressività dipende dal fatto che oggi la Repubblica Islamica si trova in una situazione di isolamento internazionale e di avere gravi problemi interni quali l’alto tasso di disoccupazione, inflazione e una società, specie tra i più giovani, stanca della retorica del regime.

Una prova delle difficoltà in cui versa l’Iran è data dalle manifestazioni organizzate dai vari apparati che invocano “morte all’America e a Israele”. Esse non sono altro che delle manovre propagandistiche organizzate per dare un’apparenza di unità e mascherare il malcontento della gente. Nel mese di giugno si terranno le elezioni presidenziali alle quali la politica fallimentare di Ahmadinejad dovrà sottoporsi al giudizio popolare. Si spera che la popolazione partecipi senza lasciare il proprio diritto di decidere sul proprio futuro alle parti estremiste. Il popolo iraniano è chiamato a traghettare il paese verso quelle scelte pacifiche, tanto auspicate dal Presidente Usa Obama, per dimostrare la forza del popolo e la grandezza della civiltà iraniana.