mercoledì 11 marzo 2009

IL VERO VOLTO DI HAMAS

di Salvatore Falzone (pubblicato su Obiettivo Affari&Notizie Anno XXI - N. 364 - 12 febbraio 2009)

L’ultima guerra tra israeliani e palestinesi con l’Operazione “Piombo Fuso” è solo uno degli ultimi atti consequenziali dell’assenza di qualsiasi strategia politica da parte di Hamas. Occorre ripartire dalla guerra civile palestinese per meglio comprendere come l’organizzazione fondamentalista abbia imboccato una strada senza uscita, a meno di una svolta a tutto campo nella quale la politica e la realtà prendano il sopravvento. Di certo, per converso, non si può dimenticare che la guerra con tutti i suoi danni collaterali impone a tutte le parti di porre fine alla violenza e avviare dei veri negoziati nei quali si arrivi alla creazione di uno Stato di Palestina e il riconoscimento dello Stato di Israele. Si parla di guerra civile quando il potere sovrano di uno Stato diventa incompatibile con le aspirazioni del proprio popolo. In Palestina, ancora oggi, non esiste uno Stato con i suoi elementi caratteristici: territorio, popolo, sovranità. Il territorio che dovrebbe spettarle è diviso in due entità: Striscia di Gaza e Cisgiordania.

La loro divisione è sia territoriale, dove non c’è un corridoio di collegamento tra i due nonostante le richieste in questo senso dei palestinesi in ogni vertice con gli israeliani, che politica, dove Al Fatah comanda ed è ben insediata in Cisgiordania e la Striscia di Gaza oramai considerata sempre più la base politica e di potere di Hamas. La popolazione, a sua volta ripete lo stesso schema, si trova divisa territorialmente (considerando anche i palestinesi che vivono in Israele come arabo-israeliani), politicamente e una buona parte si trova disperso nei vari campi profughi nei Paesi arabi limitrofi. Infine, la sovranità intesa sia come ordinamento giuridico originario e indipendente che come supremazia dell’ordinamento statale sui vari ordinamenti minori non esiste. I palestinesi dovrebbero radunarsi, per cambiare questo stato di cose sotto un’ unica autorità e non disperdersi in bande e fazioni, che agiscono in nome e per conto del popolo (almeno così dichiarano) in uno scontro militare e politico tra nemici pronti a distruggersi. La situazione palestinese negli ultimi anni è stata sequestrata dal radicalismo islamico in uno scontro religioso, dove ogni compromesso appare impossibile a differenza dello scontro nazionale, dove con l’interesse delle parti e una diplomazia non di puro contenimento della situazione ma di risoluzione porterebbe ad un compromesso. Con queste premesse sul campo, principalmente a Gaza, la situazione scivolava orami nel profondo di una guerra civile.

Giustamente, da più parti, veniva bollata come la “follia dei palestinesi” di Hamas. Le fazioni armate rispondevano solo ai comandanti locali, i quali avrebbero preso gli ordini dai loro reclutatori nei paesi ostili al dialogo interno come l’Iran e la Siria, portavano il segno di una lotta fratricida.
Una Palestina dai mille problemi e in mille parti frammentata con clan tribali, famiglie pronte a condizionare qualsiasi esito sembrano mandare in frantumi un possibile Stato di Palestina. L’incapacità dei vari dirigenti, sia di al Fath che di Hamas, a compiere il necessario salto da guerriglieri a classe dirigente responsabile di uno Stato in formazione è latente. Tutto si svolge in accuse di corruzione e degrado morale per al Fath, discredito della vecchia dirigenza dell’OLP, capacità governative fallimentari per Hamas. Nelle parole di Khaled Hroub (Khaled Hroub, Hamas. Un movimento tra lotta armata e governo della Palestina raccontato da un giornalista di Al Jazeera, Bruno Mondadori 2006, pag. 98) giornalista di Al Jazeera, si intravedono le diversità del passato ed oggi ancor più vistose: “La questione fondamentale, fonte di maggiore attriti tra le due parti, è stata l’insistenza di Hamas nell’effettuare i propri attacchi militari contro obiettivi israeliani in un momento in cui l’Autorità palestinese, guidata da al-Fatah, cercava di concludere con Israele ulteriori accordi di pace. Il braccio armato del movimento è stato considerato dall’Autorità palestinese come una fazione priva di controllo e illegittimamente armata, di cui le forze di sicurezza palestinesi, alleate dall’Autorità, avrebbero dovuto assumere il controllo. […] La grande circolazione di armi e la presenza di diverse fazioni armate che agiscono caoticamente, senza una chiara leadership né obiettivi precisi, rendono la situazione palestinese particolarmente soggetta al rischio di una deriva verso la guerra civile.” Nel mese di giugno 2007 riprendevano i combattimenti tra le varie fazioni, il pomo della discordia era il solito: tutte le Forze di Sicurezza dovevano essere sottoposte al controllo governativo. Il Premier Haniyeh svolgeva ad interim anche le funzioni di Ministro degli Interni, quindi, questa richiesta assumeva il carattere di un vero colpo di mano finale. Inoltre la Forza Esecutiva creata da Hamas agiva sempre più in concorrenza e ostilità nei confronti della Forza Preventiva dell’ANP. Da tempo le parti in causa ventilavano delle accuse al proprio nemico di voler attuare un golpe. Verso la metà del mese il movimento dichiarava guerra aperta ai “traditori di Fatah” e a tutti coloro che erano vicini al Presidente Abu Mazen. Hamas chiamava a raccolta il popolo palestinese per la “seconda liberazione”, dopo la prima avvenuta nel 2005 quando ci fu lo sgombero israeliano. L’apice si tocca il 13 giugno quando i miliziani, dopo un ultimatum di consegnare le armi ai fedeli del Presidente, alzavano il tiro facendo saltare in aria il quartier generale delle forze palestinesi a Khan Yunis. In poco tempo, i miliziani attivano scontri cruenti in ogni angolo della Striscia impadronendosi di tutto ciò che rappresenta l’Autorità Nazionale Palestinese. Un corteo composto da palestinesi, che chiedevano la fine delle violenze, veniva fatto bersaglio di colpi d’arma da fuoco. Le vendette tra saccheggi e regolamenti di conti non risparmiavano nessuno. Le immagini che ci venivano trasmesse dalla Striscia ritraevano scene di un totale disordine e di miliziani che distruggevano, persino, le foto raffiguranti Yasser Arafat, l’uomo che ha rappresentato il popolo palestinese. Sotto il fuoco di Hamas, Abu Mazen dichiarava la stato d’emergenza e scioglieva il governo di Hamas, oramai si profilava un’Autorità divisa in due: ANP in Cisgiordania e Hamas nella Striscia di Gaza. Sotto l’incalzare degli eventi l’ONU, con il Segretario Ban Ki-moon proponeva, facendo seguito alle richieste del Presidente Abu Mazen, di studiare la possibilità di schierare una Forza di Pace, ma i fondamentalisti di Hamas bollavano qualsiasi intervento esterno come una indebita ingerenza. E sull’ipotesi di una Forza di Pace la qualificavano come “truppe di occupazione” lasciando intendere che sarebbero pronti a scagliarsi contro di loro. Anche sul piano psicologico Hamas sembrava voler spiazzare completamente il nemico. Da parte dei vari dirigenti veniva data una lettura dei fatti che incolpava direttamente i capi di al Fath e soprattutto del capo della Forza Preventiva a Gaza, Mouhammad Dahlan reo di essersi accordato con gli Usa e gli israeliani per un “repulisti” nella Striscia. Quindi per gli uomini di Hamas si trattava non di un colpo di Stato ma di un’azione difensiva. Mentre la situazione precipitava a Gaza Abu Mazen si apprestava a varare un secondo governo palestinese retto dal nuovo Premier Salam Fayyad. Il programma di questo nuovo esecutivo veniva presentato come anti-Hamas. Veniva dato il proprio sostengo agli accordi precedenti di riconoscimento reciproco tra Israele e OLP, si esprimeva il pieno sostegno al piano di pace arabo e si ribadiva la volontà di creare uno Stato palestinese indipendente con le giuste risoluzioni dei vari contenziosi. Il governo Fayyad in mezzo al caos creato cercava, seppur in maniera sotterranea, di allacciar un minimo di dialogo ma i nodi sembravano un fertile terreno di scontro. Si parlava insistentemente di un disperato tentativo dell’Autorità palestinese di imporre la propria sovranità: Abu Mazen cercava di cambiare la legge elettorale subordinandola per i partecipanti alle prossime elezioni all’accettazione di una clausola di riconoscimento dei precedenti accordi di Oslo. Ma se tutto ciò potrebbe estromettere Hamas, in caso di non accettazione, l’organizzazione rispondeva adducendo la differenza tra il nuovo governo nella Striscia e la precedente gestione dell’Autorità palestinese.

La strategia di Hamas è di far percepire alla popolazione un cambiamento molto netto. Parole come “ripristino di un ordine nuovo” da contrapporsi al disordine precedente instaurato attraverso il malgoverno dell’Autorità palestinese aiutato da Israele sono martellanti attraverso la propaganda.
Il presidente del Consiglio legislativo palestinese, Ahamad Bahar (Umberto De Giovannangeli, Chi ha tradito la causa palestinese, in Limes 5/2007, pag. 107) è molto chiaro: “Hamas sta riportando ordina a Gaza. E questo significa anzitutto riorganizzare le forze di sicurezza anche in funzione della resistenza all’occupazione israeliana e ai suoi progetti di attacco. E’ molto grave che i propositi aggressivi di Israele siano sostenuti da elementi di Fatah, che credono così di potersi prendere una rivincita. Ma agendo in combutta con il nemico, costoro non fanno che rinsaldare il legame tra Hamas e la gente palestinese.” Ma la domanda rimane sempre la stessa: può la lotta interna palestinese favorire la causa dei palestinesi? Si può continuare ad accumulare potere solo pensando alla distruzione e allo scontro con Israele e dimenticando i problemi della gente?

giovedì 12 febbraio 2009

Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 28 settembre 1993


Tratto dal libro “Il Nuovo Medio Oriente” di Shimon Peres e Arye Naor, edizione in italiano Morano editore, pagg. 211-217

Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 28 settembre 1993

Signor Presidente,
Ci congratuliamo per la sua elezione unanime alla direzione della 48° Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Siamo persuasi che sia giunto il momento per tutti noi – comunità, nazioni, popoli e famiglie – di posare l’ultima corona di fiori sulle tombe dei

combattenti caduti e i suoi monumenti dei nostri cari. Questo è il modo giusto di onorare la loro memoria e dare una risposta alle domande di quelli

che verranno. Dobbiamo gettare le basi per un nuovo Medio Oriente.
L’accordo di pace tra noi ed i palestinesi non è solo un’intesa firmata da leader politici. E’ un impegno importante e progressivo nei confronti della

generazione futura – di arabi ed israeliani, cristiani, musulmani ed ebrei. Sappiamo che non è sufficiente dichiarare la fine della guerra. Dobbiamo

cercare di estirpare le radici di tutte le ostilità.
Se eliminiamo solo la violenza, ma ignoriamo la miseria, potremmo scoprire di aver barattato una minaccia per un altro pericolo.
Le dispute territoriali possono costituire motivo di guerra tra le nazioni. Ma anche la miseria può costruire un nuovo seme di violenza tra i popoli.

Mentre firmavo i documenti sul prato della Casa Bianca, potevo respirare la brezza di una primavera fresca, e la mia fantasia ha cominciato a vagare

nei cieli della nostra terra, cieli che potevano diventare più luminosi agli occhi della gente, favorevole o meno che fosse all’accordo. Su quel prato era

possibile udire il rumore pesante di stivali che si allontanavano dopo centinaia di anni di ostilità; al loro posto era possibile sentire l’avvicinarsi di

passi leggeri ed in punta di piedi, in attesa di un mondo pacifico.
Eppure non si può perdere di vista la realtà. So che la soluzione al problema palestinese costituisce la chiave per un nuovo inizio. Ma non è in alcun

modo la soluzione alle molteplici necessità che attendono una risposta al nostro ritorno in patria.
Nel corso dell’ultimo decennio abbiamo assistito a grandi cambiamenti: la fine del confronto Est-Ovest che contribuisce alla progressiva scomparsa

della polarizzazione Nord-Sud; l’introduzione di proprie dinamiche economiche da parte del vasto continente asiatico e del pittoresco continente

sudamericano; i drammatici eventi prodottisi in Sudafrica. Pertanto, contrariamente a tutte le teorie, è stato dimostrato che né la geografia, né la

razza costituiscono un impedimento o uno svantaggio per la realizzazione di promesse economiche.
Assistiamo alla fine di alcuni conflitti, solo per scoprire che coloro che hanno lottato non hanno raggiunto la loro terra promessa. Alcune popolazioni

soggette a colonizzazione hanno ottenuto l’indipendenza, ma ne hanno raramente goduto i frutti. I pericoli possono essere terminati, ma le speranze

di questi popoli si sono volatilizzate. Abbiamo imparato che la fine di una guerra costituisce un nuovo inizio, che mette fine alla belligeranza e ai

pregiudizi psicologici.
Nessuna Nazione, ricca o povera, è oggi capace di garantire la propria sicurezza, a meno che l’intera regione in cui vive la sua popolazione diventi

sicura. Lo scopo della sicurezza regionale deve andare oltre la gittata dei missili balistici, che potrebbero colpire ognuno di noi. Ci stiamo adoperando

per raggiungere una pace totale. Nessuna ferita deve restare aperta.
Dal punto di vista geografico, viviamo fianco a fianco con il regno di Giordania, e ciò che è così ovvio geograficamente deve diventare chiaro

politicamente. Abbiamo già concordato con il regno hascemita diverse questioni complesse e non ci sono dubbi che potremo risolverne altre, nonché

garantire una pace globale alle popolazioni di entrambe le sponde del fiume. Il Mar Morto può rappresentare la primavera di una nuova vita. Le

antiche acque del fiume Giordano possono essere fonte di una prosperità che scorre da una riva all’altra.
La nuova speranza – in realtà, la nostra determinazione – è quella di concludere la pace con la Siria. Tuttavia, abbiamo chiesto alla leadership

siriana perché, se ha scelto la pace, rifiuta di incontrarci apertamente. Se la Siria intende ottenere i medesimi risultati di pace conseguiti dall’Egitto,

essa deve seguire lo stesso percorso. I nostri due popoli devono guardare avanti e capire che le minacce di guerra non sono altro che l’illusione di

poter tornare ad un passato insostenibile.
Non dobbiamo abbandonare i negoziati con i nostri vicini libanesi. Per quanto riguarda il Libano, non abbiamo alcuna rivendicazione territoriale, né

pretese politiche. Preghiamo, insieme a molti libanesi, che il loro Paese non sia più teatro di istigatori al disordine. Il Libano deve operare una scelta

tra gli Hezbollah, che agiscono da questo Paese e ricevono ordini da un altro, oppure dotarsi di un esercito, di una polizia, e offrire concretamente

tranquillità al suo popolo e sicurezza ai suoi vicini. Il Libano non ha bisogno di un’autorizzazione per riottenere la propria indipendenza e non può più

rinviare il suo ritorno ad una politica di equilibrio.
Signor Presidente, non sono sicuro che vi sia un nuovo ordine nel mondo, ma tutti sentiamo che vi è un nuovo mondo in attesa di ordine.
Siamo incoraggiati dal nuovo tentativo delle Nazioni Unite di dare una risposta all’appello sociale ed economico dell’attuale epoca. Le Nazioni Unite

sono state create quale risposta politica. Oggi, esse devono far fronte ad impegni sociali ed economici. Il Medio Orient, che è stato spesso all’ordine

del giorno nella storia della Nazioni Unite, deve prosperare e non solo rimanere in pace. Per costruire un moderno Medio Oriente abbiamo bisogno

di saggezza non meno che di sostegno finanziario.
Dobbiamo liberarci dalle costose follie del passato ed adottare i principi della moderna economia. Chi pagherà – o dovrebbe sostenere – i costi di

una corsa agli armamenti che ha raggiunto il livello di 60 miliardi di dollari all’anno, l’inefficienza dei vecchi sistemi, la vecchia censura sulla posta, il

commercio ed i trasferimenti? E chi vorrebbe avere relazioni con uno Stato in cui il sospetto influenza lo spirito imprenditoriale della gente?
Possiamo e dobbiamo concretizzare le premesse di sviluppo scientifico, di economia di mercato e di educazione generale. Dobbiamo basare

l’industria, l’agricoltura, i servizi del nostro Paese sulle alte tecnologie moderne. Dobbiamo fare investimenti nel settore scolastico. Israele, Paese di

immigrazione, ha la fortuna di avere tra la sua gente molti scienziati ed ingegneri. Dobbiamo fare di questa ricchezza un contributo accessibile.
So che quando ci si riferisce al mercato comune in Medio Oriente, o si prende in considerazione un contributo israeliano, sorgono sospetti e si

ipotizza il tentativo di cercare di ottenere preferenze o di stabilire un certo dominio. Vorrei dire, in tutta franchezza e serietà, che non abbiamo

abbandonato il controllo territoriale per impegnarci in una egemonia economica. L’era del dominio – politico o economico – è morta. Inizia il tempo

della cooperazione. In quanto ebreo, vorrei dire che la virtù e l’essenza della nostra storia, fin dai tempi di Abramo e dei Comandamenti di Mosè, è

sempre stata caratterizzata da una tenace opposizione a qualunque forma di occupazione, egemonia e discriminazione. Per noi, Israele non è solo

una patria dal punto di vista territoriale, ma anche un impegno morale permanente. Vi sono altre questioni concernenti l’edificazione di un mercato

comune in Medio Oriente. Come è possibile realizzarlo se Governi ed economie sono così diversi? Tale diversità non dovrebbero impedirci di

costruire insieme ciò che può essere fatto insieme, lottando contro il deserto ed offrendo fertilità ad una terra arida. La FAO ha dichiarato che, nei

prossimi venticinque anni, il Medio Oriente dovrà raddoppiare la sua produzione agricola. Tuttavia, nello stesso periodo di tempo raddoppierà

anche la popolazione della regione. Quest’area è divisa da numerosi e vasti deserti, e le sue risorse idriche sono scarse ed insufficienti. Ad ogni modo

sappiamo che nel corso di un tale lasso di tempo – i venticinque anni trascorsi dal 1950 al 1975 -, Israele è stato in grado di moltiplicare per 12 la

sua produzione agricola. Negli ultimi 10 anni, il 95 per cento dell’incremento della nostra agricoltura è stato il risultato di ricerche, pianificazione,

formazione professionale ed organizzazione.
L’alta tecnologia permette alle Nazioni di ottenere una reale indipendenza e di godere di autentica libertà politica ed economica. La carenza di acqua

nella nostra Regione non è affatto una novità. Giacobbe ed Esaù hanno bevuto dalla stesa fonte, anche quando le loro strade erano separate. Ma a

quell’epoca, a differenza di oggi, non potevano destalinizzare le acque del mare, computerizzare l’irrigazione o sfruttare il potenziale della

biotecnologia. Siamo di nuovo di fronte ad un’opportunità completamente diversa. L’azione di rendere fertile la terra può essere accompagnata dalla

creazione di nuovi posti di lavoro per molte persone in Medio Oriente. L’occasione più promettente può essere lo sviluppo del turismo. Nessun altro

settore dell’industria moderna assicura una crescita immediata del Medio Oriente come quest’ultimo.
La nostra Regione gode di tesori naturali e storici, una storia che è ancora viva: l’eternità di Gerusalemme, la magnificenza delle Piramidi, i simboli

di Luxor, i Giardini pensili di Babilonia, i Pilastri della Saggezza a Baalbek, i pilastri rossi di Petra, l’inimitabile fascino di Marrakesh, gli antichi venti

che soffiano ancora a Cartagine , senza trascurare le spiagge di Gaza ed il profumo dei frutti di Gerico.
Dobbiamo aprire strade ai viandanti ed offrire loro sicurezza ed ospitalità. Il turismo dipende dalla tranquilla e l’accresce. Rende l’amicizia un

interesse sacro. Dobbiamo costruire un’infrastruttura tramite strumenti moderni al fine di allontanare gli abissi del passato. Trasporti moderni e

sistemi di comunicazione rivoluzionari – che attraversano i cieli, coprono le vie terrestri e collegano i mari – trasformeranno la vicinanza geografica

in vantaggio economico. Non dovremmo chiedere ai contribuenti di altri Paesi di finanziare le nostre follie; siamo noi che dobbiamo correggerle. Non

abbiamo il diritto morale di chiedere il finanziamento di guerre inutili o di sistemi dispendiosi. Se i colpi del martello sostituiranno il fragore delle

armi, molti Paesi saranno più che ben disposti a prestare il loro aiuto ed investiranno in un futuro migliore. Daranno il loro contributo per sostituire

allo scontro ingiustificato una competizione economica molto più sottile. I mercati possono rispondere alle necessità dei popoli non meno di quanto le

bandiere possano segnare i loro destini. E’ giunto il momento di costruire un Medio Oriente per la gente e non solo per i governanti.
Signor Presidente, non è stato facile aprire porte che erano serrate alla pace. In nome di Dio, non lasciate che si chiudano di nuovo, cosicché la pace

possa essere completa, riguardare tutte le questioni, tutti i Paesi e tutte le generazioni. Propongo di procedere tutti ai negoziati su un piano di

parità. Offriamo un terreno comune, costituito da rispetto e compromessi reciproci. Sono passati tredici anni da quando abbiamo avviato rapporti di

pace con l’Egitto. Siamo grati a questo Paese ed al suo Presidente per aver approfondito la comprensione, manifestamente o meno. In un mondo

caratterizzato da molteplici problemi insolubili, i palestinesi e gli israeliani hanno finalmente dimostrato che, in realtà, non vi sono questioni prive di

soluzioni. Abbiamo realizzato un accordo su una delle questioni più complesse degli ultimi cent’anni. Siamo grati agli Stati Uniti per il loro supporto e

per la loro guida, al presidente Clinton ed al segretario di Stato Christopher per il loro ruolo rilevante . Abbiamo apprezzato il ruolo svolto dall’Egitto

e l’incoraggiamento dato dalla Norvegia, il contributo europeo ed il favore asiatico. Forse, ora dovremmo dire agli altri popoli in conflitto: “Non

arrendetevi. Non cedete alle vecchie ossessioni e non manifestate nuovi malcontenti in modo precipitoso”. Ciò che abbiamo fatto noi lo possono fare

anche gli altri.
Signor Presidente, siamo determinati a fare questo accordo con i palestinesi un successo permanente. Israele considererà il successo economico dei

palestinesi come fosse proprio; e ritengo che una nuova sicurezza risponderà alle aspirazioni degli israeliani ed alle necessità dei palestinesi. Gaza,

dopo settemila anni di sofferenza, può emanciparsi dal bisogno. Gerico, dopo il crollo delle mura, può finalmente vedere fiorire di nuovo i suoi

giardini.
Al volgere del XX secolo, abbiamo appreso dagli USA e dalla Russia che non vi sono risposte militari ai nuovi pericoli militari, ma solo soluzioni

politiche. Le economie vincenti non sono più monopolio dei ricchi e dei benestanti. Esse rappresentano un chiaro invito ad ogni Paese pronto ad

adottare la combinazione di scienza ed apertura mentale. Assistiamo alla fine di questo secolo ad un fenomeno per cui la politica può ottenere molto

di più tramite la cordialità, che tramite il potere; e che la generazione dei giovani che guarda la televisione confronterà il proprio destino con le

fortune e sfortune degli altri. Vedrà la libertà, osserverà la pace e la prosperità in tempo reale. Saprà di poter ottenere di più, lavorando più

duramente. Se vogliamo rappresentare le loro speranze, dobbiamo combinare politiche sagge e sicurezza regionale con le economie di mercato. Da

un punto di vista storico siamo nati tutti uguali, e su un piano di uguaglianza possiamo dare vita ad una nuova era.
“Osservate, verrà il giorno in cui” dice il Signore “il contadino lascerà la zappa e la pigiatura dell’uva e non dovrà gettare i semi, e le montagne

verseranno vino dolce e tutte le colline daranno frutto” (Amos 9: 13)

martedì 10 febbraio 2009

Intervista al Primo Ministro Palestinese Salam Fayyad


Riporto un’ interessante intervista, apparsa su Famiglia Cristiana n 6/2009 a firma de giornalista Fulvio Scaglione, a Salam Fayyad premier dell’ANP. Emerge dalle parole del premier la giusta visione che solo la politica, i negoziati e l’implementazione degli stessi porteranno alla giusta soluzione di due popoli per due Stati.


Intervista al Primo Ministro Palestinese Salam Fayyad

“Basta con la violenza da entrambe le parti”

I razzi di Hamas sono inaccettabili e la reazione di Israele è sproporzionata: “Ma dobbiamo risorgere dalle ceneri”.

Ramallah

Forse solo uno che si è occupato di problemi planetari alla Banca mondiale (1985- 1995) e al Fondo monetario internazionale (1996-2001) poteva ritrovarsi a gestire uno Stato che non c’è. Salam Fayyad è dal 2007 primo ministro dell’Autorità palestinese. Dicono che abbia messo un argine ai mille rivoli che dissestavano, in dollari, la burocrazia di qui. Intanto, mi riceve con puntualità svizzera, in un ufficio dall’ordine teutonico. Gaza sembra lontana ed è invece vicinissima.

Signor primo ministro, che cosa c’è nei suoi pensieri in queste settimane?

“Tristezza. Il numero dei morti e l’ampiezza delle distruzioni sono senza precedenti , il mondo intero se n’è reso conto. Con il passare dei giorni, però dietro lo shock si affaccia un pensiero più inquietante: che sarà dei sopravvissuti? E i giovani, come reagiranno? Credo che i fatti di Gaza resteranno a lungo impressi nelle loro menti, e non senza conseguenze. E’ una grande preoccupazione per il futuro”.

Le proteste, le trattative, l’inviato di Obama che viene e va, gli aiuti per la Striscia di Gaza. Riesce ancora a governare?

“Certo che sì. Alcune cose sono troppo importanti, meritano comunque la precedenza: una maggiore coinvolgimento degli Usa, per esempio, è da ricercare con forza. Ma c’è molto più di questo nel mio lavoro. L’anno scorso ho convocato un convegno mondiale di imprenditori, per stimolare le attività economiche in Palestina. Lo slogan era: “C’è un party a Betlemme, siete tutti invitati”. Molti qui mugugnavano : “Ma come, c’è l’occupazione, il Muro, e tu parli di party…”. Però nella serata finale 1.300 persone mangiavano insieme , davanti alla basilica della Natività, allegre e serene”.

Sospetto che ci sia una morale?

“Eccola: risorgiamo dalle ceneri. Come possiamo superare una crisi come quella di Gaza se non trasformiamo tristezza e rabbia in energia e speranza? Non metteremo fine all’occupazione da parte di Israele sentendoci miserabili. E non arriveremo mai a uno Stato autonomo, che viva in pace con tutti i vicini, Israele incluso, inserito nella comunità mondiale, tollerante, aperto, se non crediamo nelle nostre possibilità”.

Una bella serata in piazza , però, non fa Stato…

“Ovvio. Lì c’era il simbolo. Nella realtà quotidiana bisogna scegliere la concretezza al posto dei discorsi o , peggio,delle avventure. Bisogna cambiare le cose sul terreno, in senso letterale: la prima condizione per far finire l’occupazione è che la nostra gente resti sulla terra, e per farla restare devi aiutarla a vivere meglio. Un Governo onesto, ospedali, linee elettriche, asili, scuole, ecco le cose che ci daranno un futuro”.

Ancor più frustante, quindi, vedere le macerie di Gaza. Là, inoltre, gli uomini fedeli al presidente Abu Mazen e al suo Governo se la stanno vedendo piuttosto brutta…

“E’ pazzesco . Ma c’è una lezione anche qui. Il nostro compito è fare l’opposto di ciò che ci ha portati a tutto questo. Distruggono? E noi ricostruiamo. Sparano? Rinunciamo alla violenza. Non si parlano? Parliamo con tutti . Solo così arriveremo a far capire che il problema è l’occupazione israeliana, punto. E non “l’occupazione israeliana, ma…”


Nella crisi di Gaza, però, ci sono alcuni dati certi. Uno è che c’era una tregua e Hamas l’ha denunciata, sparando poi centinaia di missili…

“La violenza di Hamas contro Israele è inaccettabile e ingiustificabile. In più, l’ho detto prima e lo ripeto, i palestinesi otterranno il loro scopo solo se i metodi saranno non violenti. Proprio per questo, però, dico che la reazione sproporzionata di Israele non solo non risolve il problema ma lo aggrava. Guardiamo a quel che è successo finora. Da ani un milione e mezzo di palestinesi vive a Gaza come una prigione. Questo ha forse contribuito a ridurre la violenza? No, la strategia israeliana ha provocato ancor più rabbia. E ha dato ai palestinesi di Gaza la sensazione di non aver nulla da perdere. Bisogna fare l’opposto: dare alla gente qualcosa da perdere per spingerla a scegliere la pace”.

Dal 2007 l’Autorità palestinese ha perso il controllo di Gaza. Una fetta non piccola del budget del suo Governo, però, va ancora alla Striscia…

“Là c’è la nostra gente . Hamas passerà, loro restano e noi dobbiamo aiutarli. Per questo ogni mese spendiamo a Gaza 120 milioni di dollari”.

E’ sicuro che tutti questi soldi non finiscono a Hamas?

“Abbiamo dei meccanismi di garanzia. Uno è far gestire gli interventi a organizzazioni di fiducia. E poi la Striscia ha esigenze particolari: per esempio, il 65 per cento dell’elettricità le arriva da Israele, il 25 dall’Egitto e solo il 10 è prodotto lì. Noi paghiamo i fornitori”.

Ancora l’estate scorsa molti pensavano che un accordo con Israele fosse possibile. Sono successi fatti gravi e tutto è cambiato. Le chiedo solo: si era davvero vicini?

“Devo deluderla . No, non ho mai pensato che fossimo vicini a un accordo. Il Governo uscente di Israele ha fatto molti bei discorsi diplomatici ma, come le devo, a me interessa ciò che avviene sul terreno. E lì ci sono stati più insediamenti e più posti di blocco, a dispetto di quanto era stato stabilito e ribadito ad Annapolis. Il problema è che la pace sia fa solo tra uguali. E noi questa uguale dignità dobbiamo ancora vedercela riconosciuta”.

giovedì 15 gennaio 2009

IN LIBRERIA

NEL NOSTRO TEMPO TRA TERRORISMO E CONFLITTO ISRAELO - PALESTINESE
  • Categoria: Saggistica
  • Autore: Salvatore Falzone
  • Editore: Salvo Bonfirraro
  • ISBN: 8862720009
  • ISBN-13: 9788862720007
  • Pagine: 144
  • Prezzo di copertina: 14,95 €
RECENSIONE

Una ricostruzione incisiva e chiara delle vicende storico-politiche che hanno scosso l’intero pianeta: lo Stato d’Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Lo Stato d’Israele che vede la luce nel maggio del ’48 dopo la Risoluzione 181 dell’ONU e gli Stati arabi che rifiutano, a tutto campo, qualsiasi decisione internazionale dichiarando immediatamente guerra. Ne segue un lungo periodo di guerre arabo – israeliane. Il libro descrive, molto saggiamente, la paradossale realtà palestinese: condizionamenti e calcoli politici nelle mani delle Nazioni che avevano rifiutato il piano di spartizione. Sullo sfondo il cambiamento e la presa di coscienza del popolo palestinese di essere responsabile del proprio destino, da qui l’evolversi da conflitto arabo – israeliano a arabo-palestinese-israeliano. Dietro l’emergere del terrorismo e l’analisi delle difficoltà connesse all’utilizzazione del termine, ai cambiamenti negli anni ‘90 davanti ad uno scenario nel quale i due leader politici delle due parti, Arafat e Rabin, si mostreranno molto più realisti. Scenario che porterà alla Dichiarazione dei Principi e alla nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese come una forma embrionale di Stato. Il libro poi descrive dettagliatamente il fallimento dello status finale tra i due contendenti con la conseguente seconda intifada e l’emergere di un terrorismo devastante che toccherà il culmine con gli attacchi dell’11 settembre 2001. L’autore nota come “la minaccia del terrorismo internazionale connota con i suoi vari attentati l’attuale fase di trasformazione del sistema politico internazionale in particolar modo per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, con il suo intreccio, al fenomeno terroristico e le sue ricadute planetarie”. Evidenzia, anche la parti dei messaggi di Al Qaeda che fanno espressamente riferimento alla situazione tra israeliani e palestinesi, utilizzata strumentalmente contro l’Occidente ed Israele, per cercare di legittimarsi come i veri difensori della causa araba o palestinese. Gli argomenti che sono trattati da questo libro si collocano tra la storia e la geopolitica; inoltre il testo è corredato da mappe e documenti che vanno da alcune Risoluzioni ONU sino alla Road Map, comprese le riserve israeliane. Il testo può essere definito come un´ interessante guida alla comprensione del nostro periodo carico di tante e troppe tensioni pronte a sfociare in nuove e sanguinose guerre. Un libro per tutti coloro che intendono avvicinarsi allo studio dei problemi di questa regione con le idee più chiare. D’altronde i fatti del Medio Oriente sono spesso nelle prime pagine dei telegiornali e dei quotidiani come una realtà molto vicina a noi. Non sono rare le immagini di cruda violenza, che scuotono la parte intima e profonda di una persona umana, e generano l’acceso dibattito politico e lo scontro sulle versioni contrastanti sui motivi che hanno portato a tutto ciò. La capacità di comprendere meglio il presente è un’esigenza per capire le varie posizioni delle varie parti in causa di un’area che resta uno dei tasselli fondamentali di un ordine internazionale turbato dai gravi fatti succedutisi sino ai nostri giorni. Una fotografia del nostro tempo, composta dai colori più variopinti, vista da un autore che è un appassionato di Storia contemporanea e attento osservatore degli eventi mediorientali.