di
BORIS BIANCHERI
L’abbiamo salutata tutti come l’aspirazione di un mondo arabo nuovo verso traguardi di libertà e dignità della persona umana. E continuiamo a sperare che i germogli nati in Tunisia, in Egitto e altrove possano, col nostro aiuto, svilupparsi. Ma quello che vediamo accadere ora in Libia, questo vortice inquietante nel quale la megalomania di Gheddafi ha trascinato i cosiddetti «volenterosi» e noi con loro, non mi sembra essere la via che porta a traguardi ideali neppure nella mente dei Paesi che la stanno percorrendo.
Partiamo dalla rivolta di Bengasi che, l’abbiamo già detto, si è presentata subito come diversa da quanto era accaduto in altri Paesi nordafricani. L’insurrezione in Cirenaica contiene infatti in sé anche i germi di fratture che appartengono da sempre alla società libica ed è spinta da crescente insofferenza dell’Est verso il lungo dominio gheddafiano con le sue profonde radici nell’Ovest e nel Sud. Essa divide la Libia più per linee tribali e geografiche che per linee politiche e ideali. Del Consiglio rivoluzionario di Bengasi, dei suoi protagonisti (alcuni dei quali sono stati a lungo vicini al raiss) e dei suoi programmi sappiamo poco: sappiamo solo che Gheddafi è talmente autocratico e assoluto che è improbabile che lo siano più di lui.
Veniamo ora alla reazione degli occidentali. Il termine «occidentali» è appropriato dato che la sigla Nato non si può usare per il veto dei turchi e di altri, mentre termini più ampi non se ne possono inventare dato che Lega Araba e Unione Africana, dapprima cautamente favorevoli, si sono dissociate quando della nostra reazione hanno visto le conseguenze. Il motore principale dell’intervento in Libia è stato, come sappiamo, la Francia. Si è messa subito al lavoro per una risoluzione dell’Onu, ha quasi riconosciuto il regime di Bengasi, ha fatto capire di essere pronta ad agire anche da sola o con la sola Gran Bretagna e ha tenuto ad effettuare la prima vera operazione bellica. Il motivo di questo protagonismo sta nella necessità di Sarkozy di riabilitare la propria immagine presso la destra tradizionale che Marine Le Pen rischia di portargli via alle prossime elezioni. Si tratta di restituire alla Francia una posizione di leadership nel Mediterraneo dopo il suo maldestro tentativo di creare una Unione del Mediterraneo di ispirazione francese tra Europa e sponda Sud, tentativo che, pur ridimensionato nel nome e negli obiettivi, è rimasto in pratica lettera morta. In Libia la Francia non ha grandi interessi e quindi rischia poco; ha invece interessi storici in Tunisia, Algeria, Marocco e in Africa nera ed è qui che l’influenza di Parigi deve riprendere vitalità. L’operazione Libia serve anche a questo.
In simile situazione gli Stati Uniti non potevano restare indietro. Non poteva farlo Obama, che fin dalla campagna elettorale si era proclamato l’interlocutore di un mondo arabo moderno e dialogante; e comunque la prima potenza al mondo, che ha in Medio Oriente e Africa interessi politici ed economici ingenti, non poteva fingere di ignorare quel che accade in Libia soprattutto se è la Francia ad indicarglielo col dito. Le contraddizioni e le incertezze della diplomazia americana in questi giorni testimoniano che si è trattato di una decisione sofferta, di cui Washington intravedeva i rischi.
La Germania non ha dovuto fingere di perseguire traguardi ideali di libertà e di progresso in questa vicenda: i tedeschi attraversano una fase di ripiegamento su condizioni di relativo benessere, non aspirano a posizioni di preminenza se non in campo economico e guardano con distacco al Mediterraneo, memori anche di quanto gli squilibri di bilancio dei Paesi del Sud Europa siano costati ai loro risparmi. Coerentemente, hanno scelto di astenersi dall’intervenire.
Quanto all’Italia, il suo governo è partito con la palla al piede di un trattato italo-libico, legittimo e anzi positivo nella sostanza ma macchiato da goffaggini di immagine che hanno fatto il giro del mondo. Si è associato ai «volenterosi» soprattutto per non passare da filo gheddafiano e per stare con coloro che contano. Ma l’attivismo dei francesi e i ripensamenti della Lega Araba (nonché quelli della Lega nostrana) hanno accresciuto lo scetticismo. L’affermazione di Frattini ieri a Bruxelles secondo cui potremmo riappropriarci delle basi se l’operazione non passasse sotto il comando Nato, il che sembra da escludere, non fa una grinza nella sostanza: come si conduce una difficile operazione militare multilaterale se non c’è un unico comando? Ma è anche una via d’uscita. Per ragioni pratiche e contingenti: ognuno, d’altronde, deve badare ai fatti suoi. Quelle motivazioni ideali di libertà e progresso da cui tutto è partito sembrano un lontano ricordo.
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