Shimon Peres
Il presidente israeliano: la responsabilità del blocco di Gaza ricade su Hamas
ED SANDERS
Mentre Israele si prepara ad allentare il blocco terrestre di Gaza - anche se il suo soldato Gilad Shalit resta prigioniero e Hamas è sempre al potere - molti israeliani si chiedono se l’embargo economico degli ultimi tre anni abbia ottenuto qualcosa di tangibile. Lo ha ottenuto? «Con quel blocco Israele voleva dire ai palestinesi che i razzi di Hamas contro di lei avrebbero fatto male a loro. Ma con due riserve: che non diventasse una punizione collettiva e non creasse una situazione disumana. Così abbiamo misurato ogni cosa. C’è acqua, c’è cibo, ci sono medicinali sufficienti? Ho letto resoconti sulla situazione a Gaza molto negativi. Eppure la gente era vestita correttamente, i mercati pieni di merci. C’era una contraddizione. Non è un caso che non ci sia stata una crisi umanitaria. Ci sentivamo responsabili. E’ Hamas che ha distrutto tutto. Questo lo si dimentica».
Ma le restrizioni israeliane sui beni civili e i rifornimenti sono servite a raggiungere gli obiettivi politici? «Non posso rispondere e non so neppure se sia importante. Avevamo sperato in qualcosa di più. Dopo il ritiro unilaterale da Gaza del 2005, avevamo sperato che una volta fuori dalla Striscia, ne saremmo stati fuori davvero. Non siamo riusciti a capire perché ci bombardassero. Siamo stati davvero sorpresi da quella reazione. Io continuo a non capire. Se chi governa Gaza smilitarizzasse Gaza e il terrorismo, non ci sarebbero problemi. Il destino è nelle loro mani».
Qualcuno teme che Israele stia entrando in una nuova stagione di isolamento internazionale. I suoi comportamenti le stanno facendo perdere amici? «Il fatto che degli estranei facciano pressione su di noi non significa che abbiano ragione. E’ in atto un tentativo di delegittimare Israele. E’ facile. Il blocco arabo ha una maggioranza strutturale alle Nazioni Unite. Non abbiamo mai avuto la minima chance. Io mi chiedo: se stanno delegittimando Israele, chi stanno legittimando? Legittimano anche Hezbollah, Hamas e Al Qaeda. Non è il loro obiettivo, ma se delegittimi la lotta al terrore, la conseguenza è che il terrore viene legittimato».
Non è una semplificazione eccessiva? Criticare le politiche e le pratiche di Israele equivale davvero a delegittimare Israele? «La critica è una cosa, ma se qualcuno dice: “Tornatevene in Polonia. Tornatevene in Germania”, questa non è una critica. Nemmeno se dice che Israele non ha il diritto di esistere».
Quelli sono come gli scoppi d’ira improvvisi. Non sono ciò che s’intende davvero quando si parla dell’isolamento di Israele. «Ma che cosa si vuole da noi? Abbiamo accettato la soluzione dei due Stati. Abbiamo accettato di allentare la situazione in Cisgiordania. Stiamo allentando la situazione a Gaza. Eppure ci sono ancora atti di terrorismo. I Paesi che devono combattere il terrorismo capiscono ciò che facciamo, quelli che si limitano a leggerne, no. Abbiamo una storia che non ha nessun altro. In 62 anni di vita siamo stati attaccati sette volte, e sempre per distruggerci».
Gli Stati Uniti vi sono sempre stati amici, ma ora il presidente Obama sembra ridefinire i termini di questa amicizia. Vi ha chiesto di bloccare la costruzione di nuovi insediamenti e ha firmato una risoluzione invitandovi a firmare il Trattato di non proliferazione nucleare, nonostante le vostre obiezioni. E’ un nuovo genere di amicizia? «L’amicizia fra Israele e America resta. Obama è stato abbastanza corretto da dire che su alcuni punti aveva capito male. E noi dovremmo fare la stessa cosa, su alcuni punti abbiamo capito male. Ma per essere amici non occorre essere d’accordo sempre e su tutto. La tensione è nata sul problema se costruire o no a Gerusalemme Est. Il primo ministro ha detto che costruiremo là dove lo abbiamo fatto per 44 anni, cioè dalla guerra del ’67, e non costruiremo dove da 44 anni non lo facciamo. Ci sono 21 sobborghi palestinesi dove non abbiamo mai costruito».
Washington si è opposto a quel progetto. Vale la pena di inimicarsi il più potente amico per costruire un parco a Gerusalemme Est? «Il sindaco di Gerusalemme ha detto che quello è un problema suo e ritiene di essere nel giusto. C’era un’intesa che di queste aree si discuterà nell’ambito degli accordi di pace. E noi ci stiamo comportando di conseguenza: costruiamo dove abbiamo già costruito».
Alcuni palestinesi hanno definito Gaza un enorme campo di concentramento. «Ma come? Abbiamo lasciato Gaza senza lasciare guardie. Ha mai sentito di un campo di concentramento da cui partano migliaia di razzi?».
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