di Herb Keinon (Jerusalem Post, 3.1.10)
Invitato a una conferenza sulla pace in Medio Oriente sponsorizzata dalla Russia, che si teneva in una località sulla sponda orientale del Mar Morto, con altri quattro israeliani ho avuto il permesso speciale di attraversare il confine per entrare in Giordania al valico del Ponte di Allenby, un privilegio che normalmente non viene concesso ai cittadini israeliani: una visita durante la quale siamo stati testimoni del senso di insicurezza e di vulnerabilità che gli israeliani provano quando si recano anche semplicemente in un paese come la Giordania, col quale abbiamo (da 16 anni) un trattato di pace e buone relazioni a livello governativo.
Sottolineo “a livello governativo”, giacché quello che ho sentito tutt’attorno a me da parte della gente che partecipava alla conferenza non era esattamente ciò che chiamerei amicizia.
Secondo alcune notizie, un certo numero di giornalisti giordani ha contestato la presenza della piccola delegazione israeliana (si noti: a una conferenza sulla pace in Medio Oriente) semplicemente disertando il convegno. La presenza di israeliani pare abbia costretto anche i rappresentanti di altri paesi – Iran, Bahrain e Libano – a cancellare la loro partecipazione.
Si poteva dunque pensare che, per contro, le persone che avevano fatto appello a tutto il loro coraggio per venire alla conferenza e sedere allo stesso tavolo con dei delegati israeliani sarebbero state aperte ed eccezionalmente garbate. Errore.
Sedendo al mio posto al tavolo della conferenza, mi sono ritrovato fra una professoressa statunitense e una signora straordinariamente affascinante, delegata da un paese arabo, il cui nome non sono riuscito a leggere sul suo badge. Dopo aver scambiato qualche battuta con l’americana, mi sono rivolto alla signora alla mia sinistra per fare lo stesso. Pessima idea. Come risposta al mio saluto, mi ha girato le spalle bofonchiando. Per tutto il tempo della sessione, durata circa cinque ore, siamo rimasti seduti uno accanto all’altra senza scambiare una parola, e nemmeno uno sguardo.
Ma la mia esperienza con quella signora è stata un autentico festival dell’amore in confronto alle dichiarazioni che intanto venivano fatte, uno dopo l’altro, dai relatori provenienti dal mondo arabo: Autorità Palestinese, Arabia Saudita, Giordania, Iraq, Egitto.
Finché ce ne stiamo in Israele a parlare di noi e fra di noi, perdiamo il contato e siamo ben poco esposti ai sentimenti di aperta ostilità verso di noi che circolano fra i nostri vicini. Lo sappiamo bene che questi sentimenti esistono, ma non ne facciamo esperienza di prima mano. Eppure è un’ostilità reale e concreta, veemente e allarmante.
Per due giorni ho partecipato a quella conferenza sulla pace in Medio Oriente ascoltando un relatore arabo dopo l’altro che, in sostanza, gettava tutti i mali del mondo sulle spalle di Israele, mettendoli tutti sul nostro conto.
I miei più fedeli lettori probabilmente ricordano che il mese scorso, dopo un viaggio negli Stati Uniti e in Canada, avevo scritto che in Nord America Israele ha molto più sostegno di quanto generalmente non si creda, e che questo sostegno si può trovare anche nei posti più impensati come ad Austin, Texas, o a Florence, Alabama. Il mese scorso, insomma, ho percepito amicizia per Israele a diecimila chilometri da casa, nel profondo sud americano. Questo mese, invece, ho percepito profondo odio a soli cinquanta chilometri da casa, in Giordania. Ed ecco perché, quando ho riattraversato il Ponte di Allenby, ho provato un improvviso struggimento… per l’Alabama.
Invitato a una conferenza sulla pace in Medio Oriente sponsorizzata dalla Russia, che si teneva in una località sulla sponda orientale del Mar Morto, con altri quattro israeliani ho avuto il permesso speciale di attraversare il confine per entrare in Giordania al valico del Ponte di Allenby, un privilegio che normalmente non viene concesso ai cittadini israeliani: una visita durante la quale siamo stati testimoni del senso di insicurezza e di vulnerabilità che gli israeliani provano quando si recano anche semplicemente in un paese come la Giordania, col quale abbiamo (da 16 anni) un trattato di pace e buone relazioni a livello governativo.
Sottolineo “a livello governativo”, giacché quello che ho sentito tutt’attorno a me da parte della gente che partecipava alla conferenza non era esattamente ciò che chiamerei amicizia.
Secondo alcune notizie, un certo numero di giornalisti giordani ha contestato la presenza della piccola delegazione israeliana (si noti: a una conferenza sulla pace in Medio Oriente) semplicemente disertando il convegno. La presenza di israeliani pare abbia costretto anche i rappresentanti di altri paesi – Iran, Bahrain e Libano – a cancellare la loro partecipazione.
Si poteva dunque pensare che, per contro, le persone che avevano fatto appello a tutto il loro coraggio per venire alla conferenza e sedere allo stesso tavolo con dei delegati israeliani sarebbero state aperte ed eccezionalmente garbate. Errore.
Sedendo al mio posto al tavolo della conferenza, mi sono ritrovato fra una professoressa statunitense e una signora straordinariamente affascinante, delegata da un paese arabo, il cui nome non sono riuscito a leggere sul suo badge. Dopo aver scambiato qualche battuta con l’americana, mi sono rivolto alla signora alla mia sinistra per fare lo stesso. Pessima idea. Come risposta al mio saluto, mi ha girato le spalle bofonchiando. Per tutto il tempo della sessione, durata circa cinque ore, siamo rimasti seduti uno accanto all’altra senza scambiare una parola, e nemmeno uno sguardo.
Ma la mia esperienza con quella signora è stata un autentico festival dell’amore in confronto alle dichiarazioni che intanto venivano fatte, uno dopo l’altro, dai relatori provenienti dal mondo arabo: Autorità Palestinese, Arabia Saudita, Giordania, Iraq, Egitto.
Finché ce ne stiamo in Israele a parlare di noi e fra di noi, perdiamo il contato e siamo ben poco esposti ai sentimenti di aperta ostilità verso di noi che circolano fra i nostri vicini. Lo sappiamo bene che questi sentimenti esistono, ma non ne facciamo esperienza di prima mano. Eppure è un’ostilità reale e concreta, veemente e allarmante.
Per due giorni ho partecipato a quella conferenza sulla pace in Medio Oriente ascoltando un relatore arabo dopo l’altro che, in sostanza, gettava tutti i mali del mondo sulle spalle di Israele, mettendoli tutti sul nostro conto.
I miei più fedeli lettori probabilmente ricordano che il mese scorso, dopo un viaggio negli Stati Uniti e in Canada, avevo scritto che in Nord America Israele ha molto più sostegno di quanto generalmente non si creda, e che questo sostegno si può trovare anche nei posti più impensati come ad Austin, Texas, o a Florence, Alabama. Il mese scorso, insomma, ho percepito amicizia per Israele a diecimila chilometri da casa, nel profondo sud americano. Questo mese, invece, ho percepito profondo odio a soli cinquanta chilometri da casa, in Giordania. Ed ecco perché, quando ho riattraversato il Ponte di Allenby, ho provato un improvviso struggimento… per l’Alabama.
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