di Aluf Benn
L’annuncio dell’avvio di “colloqui di prossimità” (negoziati indiretti) fra Israele e palestinesi solleva diverse questioni: di cosa esattamente si parlerà? Cos’altro si potrà rilanciare, nel processo di pace, dopo che tutto sembra essere stato tentato mentre la pace resta inafferrabile? Che asso avrà mai nella manica il mediatore del momento, George Mitchell, che non fosse a diposizione dei suoi frustrati predecessori?
Israele vuole tirarsi fuori dal pantano del controllo sui palestinesi, che lo accusano di apartheid e lo costringono a scegliere fra identità ebraica e democrazia. Ma Israele vuole anche conservare parte della Cisgiordania, i principali blocchi di insediamenti e il controllo sulla sicurezza, e vorrebbe preservare la sovranità su Gerusalemme.
La risposta di Israele a questo stallo prevede la promozione dell’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Salam Fayyad ad ente responsabile di una comunità politica all’interno di confini provvisori. Questo staterello verrebbe creato grazie a un voto speciale dell’Onu, assolvendo di fatto Israele dalle responsabilità sulla popolazione palestinese. Le contese sui territori rimanenti, sui profughi e su Gerusalemme verrebbero appianate più tardi attraverso trattative fra i due stati sovrani, Israele e Palestina, e non tra un occupante e gli occupati. […]
Un anno fa il Reut Institute raccomandò che Washington presentasse una sua prospettiva di accordo finale tale da offrire ai palestinesi un “orizzonte diplomatico” grazie al quale far nascere uno stato palestinese entro confini provvisori. Il presidente d’Israele Shimon Peres ha avanzato una proposta simile, suggerendo colloqui separati rispettivamente per un accodo (su uno stato) provvisorio e un accordo per la composizione definitiva del conflitto.
Dopo un anno di inutili dispute sullo sgombero degli insediamenti, uno stato palestinese provvisorio sembrerebbe effettivamente l’accomodamento per ora più praticabile, o grazie a un accordo concordato o attraverso una decisione unilaterale israeliana.
Si tratta naturalmente di un tema soggetto a limitazioni polirci, ma per ora Israele potrebbe adattarsi a un circoscritto sgombero di insediamenti e avamposti, mantenendo il controllo sulla sicurezza e senza negoziare, per il momento, su Gerusalemme. Intanto ai palestinesi non verrebbe chiesto nulla in cambio: né di riconoscere Israele come stato ebraico, né di abbandonare la rivendicazione del “ritorno”, due cose che Netanyahu pone come condizioni per arrivare a un accordo finale.
Ma qui stanno anche i punti deboli di questa iniziativa. Le dispute sulle questioni più delicate resterebbero intatte, minacciose come spade di Damocle, e Israele verrebbe trascinato in conflitti interni sugli insediamenti. Il tutto senza una reale soluzione del conflitto in senso più ampio.
Netanyahu pare convinto che l’unica risposta all’attuale stallo diplomatico sarebbe un accordo interinale basato su uno stato palestinese entro confini provvisori, ma esita a sostenere apertamente questa idea. Vorrebbe piuttosto arrivare a questo risultato per mancanza di alternative, sotto le forti pressioni americane e – se possibile – in cambio di un intervento americano contro l’Iran: come il suo predecessore Ariel Sharon, che sgomberò dalla striscia di Gaza solo dopo che George W. Bush era intervenuto contro l’Iraq di Saddam Hussein.
(Da: Ha’aretz, 28.4.10)
http://www.israele.net/articolo,2826.htm
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