venerdì 8 febbraio 2013

Tunisia, più di un milione ai funerali di Belaid. Scontri, sciopero generale, paese paralizzato

Disordini nella capitale, a Sfax, a Soussa, a Gafsa, mentre migliaia di persone hanno partecipato alle esequie del leader dell'opposizione laica assassinato. Crisi di governo aperta: Ennahda ricusa il premier che aveva aperto a un governo tecnico. Al Arabiya: aggredito un altro esponente dell'opposizione. TUNISI - Nel cimitero di Djellaz, per il funerale del leader dell'opposizione Chokri Belaid, ucciso mercoldì in un agguato nei pressi della propria abitazione, ci sarebbe oltre un milione di persone. La stima, secondo Nessma Tv, è del ministero dell'Interno tunisino. Stando ad una comunicazione ufficiale del ministero, le persone presenti a Djellaz potrebbero essere un milione e 400 mila. In serata, Al Arabiya dà notizia di una nuova aggressione ai danni di un esponente dell'opposizione, Ahmed Nejib Chebbi, il fondatore del Partito Democratico Progressista. Il rito funebre di Belaid è l'evento che segna un venerdì di tensione e di disordini in Tunisia, dove il principale sindacato del paese, l'Union tunisienne generale du travail (Ugtt), ha proclamato uno sciopero generale in segno di protesta per la morte del leader dell'opposizione Chokri Belaid, ucciso mercoldì in un agguato nei pressi della propria abitazione. E dove tutti i voli da e per la Tunisia per la giornata di oggi sono stati annullati. I funerali di Belaid. Con una decisione di enorme valore simbolico, perché sancisce il rango di "martire" del Paese dell'esponente politico assassinato, la salma di Chokri Belaid è stata portata dalla casa dei genitori, a Djebel Jelloud, al cimitero di Djellaz, a bordo di un camion scoperto dell'Esercito, sul cui pianale hanno preso posto uomini della polizia militare. Nel tragitto il camion è stato seguito da una vettura sulla quale c'erano la moglie dell'esponente ucciso, Bassma, e i figli. Dietro la macchina con i familiari, una lunga coda di vetture. Tutto il tragitto percorso dal corteo è stato controllato da due elicotteri dell'esercito, che sono rimasti in volo anche dopo l'arrivo del feretro nel cimitero dove, ad attenderlo, c'erano già migliaia di persone, che battevano le mani e scandivano slogan per ricordare il leader scomparso e contro il partito di governo Ennahda. Una massa umana cresciuta a dismisura di minuto in minuto. Solo uomini, nel rispetto delle prescrizioni del Corano. Tanto che al rito funebre non ha potuto assistere neanche la moglie Bassma. Le donne potranno rendere omaggio alla tomba a partire da domani. Gli scontri. Come si temeva, a margine delle esequie e della tradizionale preghiera islamica del venerdì, si sono verificati incidenti. All'esterno del cimitero si segnalano lanci di lacrimogeni e tafferugli. Secondo la tv privata Nessma, approfittando della presenza di migliaia di persone e di centinaia di vetture parcheggiate davanti al cimitero di Djellaz, bande di giovinastri mascherati si sono lasciate andare ad atti di vandalismo e furti dalle automobili. La polizia è intervenuta in modo massiccio e ha disperso i vandali operando anche dei fermi. Il centro di Tunisi è blindato con i mezzi dell'esercito e polizia in assetto antisommossa schierati sull'Avenue Bourguiba, già teatro di scontri nei giorni scorsi e dove le forze dell'ordine sono intervenute anche oggi con manganelli e lacrimogeni contro giovani manifestanti che gridavano "vattene, vattene". Tra i manifestanti che partecipano alle manifestazioni in ricordo di Belaid, risuonano anche slogan dedicati al generale Rachid Ammar, capo delle Forze armate tunisine, chiedendogli di intervenire. Ammar è famosissimo in Tunisia per essersi opposto alla richiesta di Ben Ali di schierare l'esercito contro chi chiedeva la caduta della dittatura. Sostenitori di Ennahda stanno confluendo verso la sede del partito, nel quartiere di Montplaisir, temendo che possa essere attaccata dai dimostranti scesi in piazza dopo l'uccisione di Chokri Belaid. L'iniziativa, che secondo il sito Tunisie Numerique, pare essera stata presa d'intesa con i vertici del partito, è conseguenza delle notizie che vengono da altri punti della città (tra cui la non distante avenue Bourghiba) e che riferiscono di assembramenti di gente contraria ad Ennahda. Disordini a Gafsa, dove la polizia ha usato i lacrimogeni per disperdere i manifestanti armati di pietre e bottiglie molotov. A Sfax, migliaia di persone stanno attraversando le vie principali della città per un funerale simbolico di Chokri Belaid. Gridando slogan contro il governo ed Ennahda, la folla segue una bara vuota, sulla quale sono state poste la bandiera tunisina e una foto dell'uomo politico ucciso. Massiccia la presenza delle forze di sicurezza per il timore di incidenti, perché i sostenitori di Ennahda hanno organizzata una contro-manifestazione. I due cortei si lambiranno, probabilmente vicino alla grande moschea di Lakhmi, da tempo controllata dagli islamici più radicali. Violenti scontri sono scoppiati a Sousse, dove forze di sicurezza e manifestanti si stanno affrontando duramente nelle strade del centro cittadino. La polizia sta facendo uso massiccio di gas lacrimogeno e, riferisce il sito Tunisie Numerique, diverse persone sono state portate in ospedale perché intossicate dal fumo delle granate. Il palazzo del governatore di Jendouba è stato preso d'assalto da centinaia di persone, anche se gli organizzatori della manifestazione, che doveva essere pacifica, hanno tentato in tutti i modi di impedire che la folla facesse irruzione. In punti diversi della città sono segnalati scontri tra manifestanti e polizia, con sassaiole e lancio di lacrimogeni. Tra le centinaia di persone che hanno manifestato per ricordare Chokri Belaid si sono infiltrate decine di giovani, che approfittando dalla confusione, hanno attaccato dei negozi tentando di saccheggiarli. Testimoni citati dalle radio locali sostengono che i giovani, dopo essere stati respinti dalla polizia, si stanno organizzando con l'obiettivo di bloccare le strade della città. Alcuni di loro stanno ammassando pneumatici nelle principali strade d'accesso a Jendouba per incendiarli. Alcune persone, che hanno avuto dei malori per il fitto fumo dei lacrimogeni, hanno raggiunto l'ospedale per le prime cure. Sul fronte istituzionale, la crisi resta aperta: ieri il partito islamista Ennahda ha sconfessato il primo ministro Hamadi Jebali, che ha forzato la mano annunciando lo scioglimento dell'esecutivo per aprire la strada ad un governo tecnico. L'iniziativa, prontamente respinta dalla presidenza, ha provocato una spaccatura interna tra le fila del movimento islamico, seguita dalle accuse mosse dalla famiglia dei Belaid nei confronti del suo leader storico, Rached Ghannouchi, reo di essere "il mandante dell'esecuzione". Il giorno dopo, nelle ore successive ai funerali di Belaid, Jebali ha ribadito le sue posizioni, dicendosi deciso a formare un governo di tecnici, nonostante la contestazione di Ennhada. "Resto sulla mia decisione di formare un governo di tecnici e non avrò bisogno dell'avallo dell'assemblea costituente", ha affermato Jebali, citato dall'agenzia ufficiale Tap. Nella notte, ai disordini è giunta la ferma condanna del segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, secondo cui, pur essendoci stati progressi importanti nella transizione del paese "resta ancora molto da fare per quanto riguarda il processo costituzionale e per soddisfare le esigenze economiche e sociali della popolazione". A Ban si unisce l'appello congiunto dell'alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton, e del commissario europeo alla politica di vicinato, Stefan Fule, a fermare le violenze: "In Tunisia occorre fare tutto il possibile per mettere fine agli atti di violenza politica commessi dagli estremisti, che minacciano il processo di transizione democratica". (08 febbraio 2013)

venerdì 7 dicembre 2012

La Costituzione che divide l'Egitto

La Primavera araba torna rovente. Gli eventi del Cairo influenzeranno la Tunisia, prigioniera di un inquietante risveglio. La Rivoluzione contesa tra laici e Fratelli musulmani. E l'incognita resta l'esercito di BERNARDO VALLI Nelle rivoluzioni il compromesso, soluzione principe della politica, tarda ad arrivare. È quel che accade in queste ore in Egitto dove due forze si contendono in aperta tenzone, a muso duro, la "primavera" cominciata nel gennaio dell'anno scorso in piazza Tahrir, nel cuore del Cairo. Entrambe rivendicano di fatto, separatamente, il diritto di esercitare il potere, poiché ciascuna si considera appunto l'unica autentica rappresentante della rivoluzione da cui quel potere deriva. Da un lato i laici, i liberali, i cristiani, raccolti in un Fronte nazionale di salvezza dai confini incerti, accusano il presidente Mohammed Morsi, espressione di un vago, ampio fronte islamico, di essere un usurpatore; dall'altro i Fratelli musulmani difendono la legittimità di Morsi e delle prerogative che si attribuisce, in quanto capo dello Stato eletto al suffragio universale. L'esercito avrebbe gli strumenti per decidere la sorte della rivoluzione contesa. Ma a parte l'inevitabile impegno di alcune unità d'élite, incaricate della protezione del capo dello Stato, rafforzate per l'occasione da qualche carro armato parcheggiato davanti alla presidenza, nel quartiere di Heliopolis, al fine di tenere a distanza i manifestanti, a parte queste essenziali precauzioni, i militari sono rimasti fuori dalla mischia. Si sono ben guardati dall'intervenire in appoggio di una delle parti a confronto. In agosto i generali più giovani hanno esautorato i loro colleghi anziani, compromessi col vecchio regime, hanno concluso un'alleanza con i Fratelli musulmani, e quindi hanno appoggiato Mohammed Morsi appena eletto alla presidenza della Repubblica. In cambio hanno conservato, e conserveranno, i privilegi riservati da più di sessant'anni alla società militare. Ma non hanno venduto del tutto la loro anima. Un'anima tutt'altro che omogenea, poiché nel corpo ufficiali prevale un tradizionale spirito laico, risalente ai primi anni Cinquanta, quando fu proclamata la repubblica; mentre la truppa, in cui sono in maggioranza i coscritti provenienti dalle diseredate periferie urbane, e dalle province ancora rurali, è sotto una forte, altrettanto tradizionale influenza religiosa. Quindi i soldati sono tendenzialmente per i Fratelli Musulmani, o per i salafiti, più estremisti. Insomma l'esercito, per ora, resta un enigma. E' invece evidente che la "primavera araba" data per morta, sommersa dall'ondata islamica, è ancora rovente, e non solo nella sua versione egiziana. La Tunisia, che ha conosciuto la prima rivolta contro i raìs, e che poi è rimasta prigioniera di un prepotente, inquietante risveglio islamico, sarà influenzata, come altre società arabe, dagli avvenimenti del Cairo, principale capitale mediorientale. Dove i laici, i liberali, i progressisti, all'origine della insurrezione di piazza Tahrir, dopo essere stati emarginati dalla tardiva ma incontenibile irruzione sulle sponde del Nilo dei Fratelli musulmani, sono adesso riemersi in forza per far valere le loro esigenze democratiche. E contrastare la svolta autoritaria di Mohammed Morsi. Il quale, in attesa di una Costituzione, si è aggiudicato poteri definiti dai laici "uguali o superiori a quelli che aveva Mubarak", il raìs destituito. Adesso i promotori della "primavera araba" vorrebbero ridarle i colori iniziali. Il loro programma è vasto e di difficile applicazione. E' tuttavia la prova che la rivoluzione continua. La posta in gioco è la futura Costituzione. Vale a dire la natura politica dell'Egitto di domani. I due fronti, il laico e l'islamico, non usano le stesse armi. I primi, i laici, all'inizio chiedevano libere elezioni, ma si sono accorti molto presto che essendo frantumati in numerosi movimenti sarebbero stati facilmente sopraffatti nelle urne dai Fratelli musulmani, dotati di un partito ben organizzato (Libertà e giustizia), e di una rete sociale che abbraccia l'intero Egitto. Sono stati dunque gli islamici, non per vocazione democratica ma per motivi tattici, ad adottare le elezioni come armi politiche. Ed infatti hanno vinto tutte le consultazioni, quelle parlamentari annullate, come quelle presidenziali che hanno portato Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato. Morsi è tuttavia un presidente senza Costituzione, poiché quella del vecchio regime è stata annullata, e quella nuova dovrebbe essere sottoposta il 15 dicembre a un referendum. Al quale il fronte laico si oppone; e sul quale i giudici, indignati dai poteri giudiziari che il presidente si è attribuito, non vogliono soprintendere come la legge esigerebbe. Non è dunque sicuro che lo si possa tenere. Il testo costituzionale preparato dai Fratelli musulmani, nel caso si dovesse votare tra una settimana, non correrebbe comunque troppi rischi, perché sul terreno elettorale i Fratelli musulmani sono imbattibili. I numeri sono per loro. Per questo i laici, i progressisti, i cristiani si oppongono a un voto che renderebbe legittima la svolta islamica del paese attraverso la nuova Costituzione. Secondo Human Rights Watch il progetto di magna charta presentato da Morsi è difettoso e contraddittorio, ma non catastrofico. È ambiguo. Si presta a varie letture. La nuova Costituzione non disegna uno Stato teocratico, ma lascia aperte molte porte a un'evoluzione conservatrice rigorosa. Le libertà individuali sono garantite, ma al tempo stesso si affida a un'autorità religiosa, l'università islamica di Al Azhar, le decisione di interpretare, senza appello, i principi della sharia (le leggi coraniche) da applicare. Viene così esclusa curiosamente da questo compito qualsiasi altra autorità, giuridica o legislativa. E abbandonata alle variabili tendenze teologiche, agli umori religiosi, la facoltà di regolare le libertà dei cittadini. Per il capitolo essenziale delle donne è stata abbandonata una prima versione salafita, che puntava sulla lettura più intransigente del Corano. Ed è stata adottata la generica formula che riconosce "l'uguaglianza tra tutti gli egiziani". Anche se poi si esplicita che la donna "deve trovare un equilibrio tra i suoi doveri familiari e professionali". La libertà di culto è assicurata alle tre religioni monoteistiche, ma non è estesa a tutte le religioni. Mohammed Morsi non può agire come i vecchi raìs. Lui è condizionato dai salafiti, ala radicale dell'islamismo e concorrenti dei Fratelli musulmani. Non può disporre liberamente, almeno per ora, dell'esercito che vuole tenersi fuori dalla mischia. Non può usare con spregiudicatezza la polizia e annessi per reprimere le manifestazioni perché è sotto sorveglianza del Fondo Monetario internazionale dal quale aspetta quattro miliardi e mezzo di dollari, che dovrebbero impedire il fallimento economico del paese. E deve tener conto dello sguardo, sia pur non troppo severo degli americani, che danno un miliardo e mezzo all'anno alle forze armate. Il 22 novembre Mohammed Morsi ha tuttavia compiuto quel che può essere considerato un colpo di Stato. Ha proibito qualsiasi tipo di ricorso contro le sue decisioni e contro la Costituente, assumendosi così tutti i poteri. Compreso quello di scrivere una Costituzione su misura. Si è messo al di sopra delle leggi e ha eliminato via via tutti gli ostacoli alla conquista del potere da parte dei Fratelli musulmani. L'operazione ha colpito anche numerosi uomini del vecchio regime, in particolare nell'amministrazione della giustizia, spingendo verso l'opposizione funzionari epurati perché un tempo al servizio del deposto raìs. Questo non favorisce l'immagine del movimento laico e liberale. (07 dicembre 2012)

venerdì 16 novembre 2012

Netanyahu: «Israele non intende tollerare attacchi di razzi su un quinto della sua popolazione»

“Nelle settimane e nei giorni scorsi Hamas e le altre organizzazioni terroristiche della striscia di Gaza avevano reso impossibile la vita di più di un milione di cittadini israeliani nel sud del paese. Nessun governo tollererebbe una situazione che vede un quinto della propria popolazione vivere sotto un incessante fuoco di fila di razzi e missili. E Israele non intende tollerarla”. Inizia con queste parole una dichiarazione che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rilasciato giovedì pomeriggio alla stampa estera. “Questo è il motivo per cui il mio governo – ha proseguito Netanyahu – ha dato istruzione alle Forze di Difesa israeliane di condurre raid chirurgici mirati contro le strutture terroristiche a Gaza. Per lo stesso motivo Israele continuerà a intraprendere tutte le iniziative necessarie per difendere la propria popolazione. Voglio ricordare che sette anni fa Israele si è ritirato da Gaza fino all'ultimo centimetro quadrato. Poi Hamas ha preso il controllo delle aree sgomberate. E che cosa ha fatto? Anziché costruire un futuro migliore per gli abitanti di Gaza, i capi di Hamas, sostenuti dall'Iran, hanno trasformato Gaza in una roccaforte del terrorismo. Hanno sparato migliaia di razzi sulle nostre città e cittadine, sui nostri civili, sui nostri bambini. Hanno introdotto clandestinamente a Gaza migliaia di razzi e missili, li hanno piazzati deliberatamente nelle aree civili: nelle case, nelle scuole, a ridosso degli ospedali. Solo dall'inizio di quest’anno hanno sparato più di mille razzi e missili contro Israele, compresi i duecento lanciati in queste ultime ventiquattro ore. Sottolineo tutto questo perché è importante capire un punto molto semplice: non c’è alcuna simmetria morale, non c’è alcuna equivalenza morale fra Israele e le organizzazioni terroristiche della striscia di Gaza. I terroristi commettono un doppio crimine di guerra: sparano sui civili israeliani e si nascondo dietro ai civili palestinesi. Israele, al contrario, adotta ogni misura possibile per cercare di evitare vittime civili. Ho visto oggi la foto di un bambino sanguinante. È un’immagine che dice tutto: Hamas prende deliberatamente di mira i nostri bambini e piazza deliberatamente i suoi razzi in mezzo ai loro bambini. Nonostante questa realtà di fatto, ed è una realtà di fatto estremamente difficile, Israele continuerà a fare tutto quanto in suo potere per evitare vittime civili". "Devo dire – ha concluso il primo ministro israeliano – che dai miei colloqui coi leader del mondo traggo la convinzione che capiscono bene questo stato di cose. Ieri ho parlato col presidente Obama e l’ho informato sulle operazioni di Israele. Voglio esprimere ancora una volta apprezzamento al presidente Obama per il suo inequivocabile sostegno al diritto di Israele di difendersi. Così come voglio esprimere apprezzamento agli altri leader con cui ho avuto occasione di parlare nelle ultime ventiquattro ore: il presidente francese Hollande, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, il ministro degli esteri dell’Unione Europea Catherine Ashton, il rappresentante del Quartetto Tony Blair. Desidero ringraziarli per la loro comprensione della necessità e del diritto che ha Israele di difendersi. Nelle ultime ventiquattro ore Israele ha messo in chiaro che non intende tollerare attacchi di razzi e missili sui suoi civili. Mi auguro che Hamas e le altre organizzazioni terroristiche di Gaza abbiano recepito il messaggio. In caso contrario, Israele è pronto a prendere ogni iniziativa necessaria per difendere la propria popolazione”. (Da: MFA, 15.11.12)

sabato 20 ottobre 2012

Beirut sconvolta dall'ennesimo attentato

di Salvatore Falzone Attentato terroristico ieri nel cuore di Beirut. Un’autobomba imbottita di esplosivo nel cuore cristiano della capitale ha falciato la vita di 8 persone provocando almeno 80 feriti. L’obiettivo dell’attentato era Wassim al Hassan, capo dei servizi di intelligence libanesi. Hassan, amico dell’ex Premier Hariri, aveva indagato all’indomani della strage di San Valentino del 2005 sui mandanti dell’eccidio raccogliendo prove nei confronti degli Hezbollah- tra i quali spicca il nome assai noto alle intelligence internazionali di Mustafa Badreddin- e del regime di Damasco. Inoltre, poco tempo fa, aveva fatto arrestare il deputato libanese Michel Samaha, filo siriano, accusato di aver trasportato materiale dinamitardo per compiere attentati nel Paese sotto le direttive del regime pro Assad. Arresto che aveva fatto infuriare gli Hezbollah i quali accusavano Hassan di essere al soldo dell’Esercito libero siriano e di rifornirli di armi attraverso il territorio libanese. L’attentato ha il duplice scopo di mandare il messaggio al Tribunale Penale internazionale, che si occupa dell’uccisione di Rafik Hariri, e di internazionalizzare il conflitto siriano, sebbene già da tempo gli schieramenti parlano chiaro: Turchia, Usa, Arabia Saudita da un lato e Iran, Russia dall’altro. Il Libano, come al solito, si trova al centro dove ognuno dei vari attori gioca la sua partita sul territorio del Paese dei Cedri. Intanto ieri, dopo la strage, la tensione è arrivata alle stelle riaccendendo gli scontri intercomunitari specie tra sunniti e sciiti. La mai sopita guerra civile libanese rischia di riesplodere portando l’intera regione verso una nuova guerra allargata.

sabato 6 ottobre 2012

Giordania, l'ultimo tassello della triste favola della "primavera araba"

I fratelli musulmani in piazza contro Re Abdullah II, ultimo baluardo di stabilità in un Medio Oriente sempre più in fiamme In Giordania regna una monarchia illuminata, profondamente religiosa e tollerante, ispirata a un’idea laica di governo e al modello di un Islam moderato che è stato ed è un elemento di pace e stabilità in una regione, quella mediorientale, attraversata da conflitti sotterranei e, ciclicamente, da guerre conclamate. Allora smettiamola di raccontarci la favola della primavera araba nel momento in cui vediamo ripetersi il film della piazza che si solleva contro la “dittatura”. Re Abdullah II di Giordania ha sciolto il parlamento in piena sintonia con le scelte che ha fatto prima di lui il Re del Marocco, un’altra monarchia “illuminata” e lungimirante, che per il momento sembra riuscita a arginare le rivendicazioni del fondamentalismo islamico. Ci riusciranno Abdhullah II e la Regina Rania, tanto amata in Occidente? Dobbiamo augurarci di sì, ma il clima è rovente e non è detto che la dirigenza giordana, dimostratasi finora tanto saggia e abile da resistere con dignità al contagio delle guerre del confinante Iraq di Saddam Hussein, rischia per la prima volta, davvero, di soccombere a un movimento che appartiene alle grandi correnti della Storia. Un movimento che spazia da un capo all’altro del Califfato ideale sognato da Osama bin Laden e dai suoi emuli e nipoti, un progetto che affonda nell’ideologia e teologia dei Fratelli Musulmani che hanno appena conquistato, sull’onda della sedicente “primavera araba”, la loro culla, la loro patria, l’Egitto. Il sovrano hashemita dovrà adesso calibrare le riforme per venire incontro a richieste che non hanno però come fine la democrazia, ma il potere. Un potere improntato alla fratellanza nella sharia. Già oggi l’opposizione e i Fratelli Musulmani sono riusciti a portare in piazza ad Amman migliaia, forse decine di migliaia di persone (50 mila secondo gli organizzatori). La sinistra laica chiede riforme e lotta alla corruzione. Lo stesso chiedono, con uno spirito conservatore, retrogrado e potenzialmente violento, le masse galvanizzate dalla risorgenza estremista in tutto il mondo arabo. Bisogna sperare che da un lato Re Abdullah II possa contare ancora sul proprio prestigio personale, poi sulla tenuta del proprio clan e del proprio sistema di potere “illuminato”, e in ultimo sulla fedeltà dell’esercito. C’è poco da tifare per la piazza a ogni costo, proprio come fu un errore tifare per la caduta dello Scià in Persia/Iran. È arrivato il momento di risvegliarsi dall’illusione tutta occidentale che nel Nord Africa e in Medio Oriente si possa credere nella rivoluzione liberale, quando la realtà è una esplosiva coincidenza tra frustrazione popolare e propaganda integralista, opportunamente alimentate da anni e anni di duro lavoro dei “fratelli musulmani” e loro affini tra la gente. La propaganda religiosa, la beneficienza e il volontariato sono serviti solo a gettare basi solide per una nuova e più insidiosa forma di regime basato insieme sul consenso e sulla mancanza di libertà. Dietro il paravento della democrazia e solidarietà, spuntano le fiamme di un incendio che prelude a un lungo “inverno arabo”. La Giordania e Amman sono solo l’ultimo tassello. http://mondo.panorama.it/marco-ventura-profeta-di-ventura/Giordania-l-ultimo-tassello-della-triste-favola-della-primavera-araba

sabato 29 settembre 2012

Un agente francese dietro la morte di Gheddafi

Il merito della cattura del rais sarebbe stato dei servizi di Parigi. Il Colonnello «venduto» all’Occidente da Assad] l merito della cattura del rais sarebbe stato dei servizi di Parigi. Il Colonnello «venduto» all'Occidente da Assad TRIPOLI - Sarebbe stato un «agente straniero», e non le brigate rivoluzionarie libiche, a sparare il colpo di pistola alla testa che avrebbe ucciso Moammar Gheddafi il 20 ottobre dell’anno scorso alla periferia di Sirte. Non è la prima volta che in Libia viene messa in dubbio la versione ufficiale e più diffusa sulla fine del Colonnello. Ma ora è lo stesso Mahmoud Jibril, ex premier del governo transitorio e al momento in lizza per la guida del Paese dopo le elezioni parlamentari del 7 luglio, a rilanciare la versione del complotto ordito da un servizio segreto estero. «Fu un agente straniero mischiato alle brigate rivoluzionarie a uccidere Gheddafi», ha dichiarato due giorni fa durante un’intervista con l’emittente egiziana «Sogno Tv» al Cairo, dove si trova per partecipare ad un dibattito sulle Primavere arabe. PISTA FRANCESE - Tra gli ambienti diplomatici occidentali nella capitale libica il commento ufficioso più diffuso è che, se davvero ci fu la mano di un sicario al servizio degli 007 stranieri, questa «quasi certamente era francese». Il ragionamento è noto. Fin dall’inizio del sostegno Nato alla rivoluzione, fortemente voluto dal governo di Nicolas Sarkozy, Gheddafi minacciò apertamente di rivelare i dettagli dei suoi rapporti con l’ex presidente francese, compresi i milioni di dollari versati per finanziare la sua candidatura e la campagna alle elezioni del 2007. «Sarkozy aveva tutti i motivi per cercare di far tacere il Colonnello e il più rapidamente possibile», ci hanno ripetuto ieri fonti diplomatiche europee a Tripoli. RIVELAZIONI - Questa tesi è rafforzata dalle rivelazioni raccolte dal «Corriere» tre giorni fa a Bengasi. Qui Rami El Obeidi, ex responsabile per i rapporti con le agenzie di informazioni straniere per conto del Consiglio Nazionale Transitorio (l’ex organismo di autogoverno dei rivoluzionari libici) sino alle metà del 2011, ci ha raccontato le sue conoscenze sulle modalità che permisero alla Nato di individuare il luogo dove si era nascosto il Colonnello dopo la liberazione di Tripoli per mano dei rivoluzionari tra il 20 e 23 agosto 2011. «Allora si riteneva che Gheddafi fosse fuggito nel deserto e verso il confine meridionale della Libia assieme ad un manipolo di seguaci con l’intenzione di riorganizzare la resistenza», spiega El Obeidi. La notizia era ripetuta di continuo dagli stessi rivoluzionari, che avevano intensificato gli attacchi sulla regione a sud di Bani Walid e verso le oasi meridionali. In realtà Gheddafi aveva trovato rifugio nella città lealista di Sirte. Aggiunge El Obeidi: «Qui il rais cercò di comunicare tramite il suo satellitare Iridium con una serie di fedelissimi fuggiti in Siria sotto la protezione di Bashar Assad. Tra loro c’era anche il suo delfino per la propaganda televisiva, Yusuf Shakir (oggi sarebbe sano e salvo in incognito a Praga). E fu proprio il presidente siriano a passare il numero del satellitare di Gheddafi agli 007 francesi. In cambio Assad avrebbe ottenuto da Parigi la promessa di limitare le pressioni internazionali sulla Siria per cessare la repressione contro la popolazione in rivolta». Localizzare l’Iridium del dittatore con i gps sarebbe poi stato un gioco da ragazzi per gli esperti della Nato. Se fosse confermato, fu quello il primo passo che portò alla tragica fine di Gheddafi poche settimane dopo. http://www.corriere.it/esteri/12_settembre_29/gheddafi-morte-servizi-segreti-francesi-libia_155ed6f2-0a07-11e2-a442-48fbd27c0e44.s

domenica 16 settembre 2012

Most U.S. government workers, families evacuated from Tunisia, Sudan

By Michael Birnbaum and Karen DeYoung, Published: September 15 CAIRO — The Obama administration ordered the evacuation of all but emergency U.S. government personnel, and all family members, from diplomatic missions in Tunisia and Sudan on Saturday and warned Americans not to travel to those countries. The action came as leaders across the Muslim world took stock of their relationship with the United States, a major provider of aid and investment, and struggled to balance it with the will of their populations. In Sudan, the State Department order came after the government in Khartoum rejected a U.S. request to send a Marine anti-terrorism unit to protect the embassy there, which came under attack by protesters Friday. In Yemen, al-Qaeda in the Arabian Peninsula issued a statement urging more killings of U.S. diplomats, and the Yemeni parliament demanded that all foreign troops in the country be sent home, including roughly 50 U.S. Marines deployed to protect the embassy there. The U.S. military and CIA have been in Yemen for some time, in cooperation with the Yemeni government, as part of counterterrorism operations. The decision to evacuate was the latest consequence of a week of anti-American rage across more than 20 countries in the Muslim world, although most were quiet Saturday. U.S. officials said they ordered the evacuations out of caution rather than knowledge of any specific threats. The United States does not currently have an ambassador assigned to Sudan but maintains a diplomatic presence there. The order leaves a significantly reduced diplomatic presence in Tunisia, the country that sparked the Arab Spring last year, where additional security was also deployed to the embassy last week. A travel warning issued for Tunisia noted that the international airport was open in Tunis, the capital, “and U.S. citizens are encouraged to depart by commercial air.” Saturday’s pullback follows the evacuation of 50 U.S. diplomatic personnel from Libya, where Ambassador J. Christopher Stevens and three other State Department employees were killed Tuesday in an assault on the consulate in Benghazi. As the administration continued to reach out aggressively to its allies and partners in the region and beyond, Secretary of State Hillary Rodham Clinton spoke by telephone Saturday with the leaders or foreign ministers of Britain, Libya, Egypt, France, Saudi Arabia, Turkey and Somalia, the State Department said. In Egypt, after days of pressure from the United States, President Mohamed Morsi took decisive action Saturday against lingering protests near the U.S. Embassy, with police making arrests and clearing Tahrir Square of demonstrations whose cause Morsi had only days earlier endorsed. But he had to contend with continued pressure from ultraconservative Muslims and disaffected young people who had fought for days near the embassy. Morsi had been in the middle of negotiating more than $1 billion in aid, debt forgiveness and U.S. investments when protesters, prodded by rage over an obscure anti-Islam video that was made in the United States, stormed the embassy walls and pulled down and destroyed the American flag. The assistance talks have been subsumed by the days of protests near the embassy – some of which were called for by Morsi’s own Muslim Brotherhood party. http://www.washingtonpost.com/world/anti-us-fury-widens-in-muslim-world-as-protests-rage-in-many-countries/2012/09/15/894e2cbc-ff2f-11e1-b153-218509a954e1_story.html