martedì 29 maggio 2012

Siria, la linea dura dei Paesi europei, espulsi gli ambasciatori di Damasco

Roma, Londra, Berlino e Parigi reagiscono al massacro di Hula. L'Onu diffonde altri dettagli: civili giustiziati e donne stuprate Roma Si intensifica la pressione internazionale sul regime di Assad. L'Occidente espelle gli ambasciatori del regime siriano di Bashar al-Assad dopo l’atroce massacro di Hula, che ha causato la morte di oltre 100 persone, tra cui moltissimi bambini. Mentre l’inviato speciale dell’Onu, Kofi Annan, nel corso di un incontro a Damasco con il presidente Assad, ha chiesto con forza «passi coraggiosi, non domani ma ora, per l’attuazione del piano» di pace. «Ciò vuol dire - ha avvertito Annan - che il governo e tutte le milizie filogovernative devono fermare tutte le operazioni militari». La strage dei bambini, come ha scritto più di qualche osservatore, può davvero rappresentare il punto di svolta della crisi siriana. Moltissimi Paesi europei - tra cui Italia, Francia, Germania, Spagna e Gran Bretagna - hanno deciso oggi di espellere in modo coordinato i rappresentanti diplomatici di Damasco, dichiarandoli ’persona non gratà. Stessa cosa hanno fatto gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. In una nota diffusa a Washington, la portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Victoria Nuland, ha precisato che l’incaricato d’affari siriano (l’ambasciatore era già stato richiamato a Damasco per consultazioni) ha 72 ore di tempo per lasciare gli Stati Uniti. Mentre il presidente francese, Francois Hollande, ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatrice siriana (che di fatto non lascerà il Paese in quanto è anche ambasciatrice all’Unesco) e l’organizzazione della terza conferenza degli «Amici del popolo siriano» a inizio luglio a Parigi. «Assad‚ l’assassino del suo popolo. Deve lasciare il potere», ha detto il capo del Quai d’Orsay, Laurent Fabius, intervistato dal quotidiano Le Monde. Mentre il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha scritto su twitter che «dopo gli orrori di Hula», l’espulsione degli ambasciatori rappresenta un «messaggio forte e inequivocabile al regime di Damasco. Basta violenze». «Una cosa è chiara e non solo dal massacro di Hula: con Assad la Siria non ha alcun futuro. Si deve fare strada a un cambiamento pacifico», ha commentato il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle. Mentre il suo collega spagnolo, Jos‚ Manuel Garc¡a-Margallo, ha puntato il dito contro l«’inaccettabile repressione» del regime siriano e ha anche rinnovato l’appello a Damasco a «cogliere l’occasione offerta da piano Annan». In un duro e significativo intervento, anche il premier islamico conservatore turco Recep Tayyip Erdogan ha avvertito Assad che la pazienza della comunità internazionale ha «un limite». Parlando davanti al gruppo parlamentare del suo partito, l’Akp, Erdogan ha denunciato il «disumano massacro» di Hula, attribuito oggi dall’Onu alle milizie filo-Assad. Il premier turco ha denunciato la «crudeltà» del regime, avvertendo che «c’è un limite alla pazienza e, grazie a Dio, anche alla pazienza del consiglio di sicurezza Onu». Mentre il Consiglio nazionale siriano (Cns), il principale movimento di opposizione al regime di Damasco, ha salutato l’espulsione dei diplomatici, chiedendo che il Consiglio di Sicurezza autorizzi il ricorso alla forza contro il regime. Prospettiva - almeno al momento - irrealizzabile per il veto di Cina e Russia, alleati di Damasco. La maggior parte dei Paesi occidentali, avevano già chiuso le loro rispettive rappresentanze diplomatiche a Damasco durante la repressione a Homs da parte delle truppe filogovernative siriane. Al di là del massacro di Hula - le testimonianze dei sopravvissuti raccolte dall’Onu parlano di vere e proprie ’esecuzioni sommariè - in Siria la repressione del regime miete vittime tutti i giorni, nonostante l’entrata in vigore (molto teorica), lo scorso 12 aprile, del ’cessate il fuocò compreso nel piano Annan. In 14 mesi, le violenze hanno causato la morte di 13mila persone, di cui 1.800 dal 12 aprile, secondo i dati dell’osservatorio siriano sui diritti umani. Intanto dall'Onu arrivano i primi elementi dell'inchiesta sul massacro di Hula che evidenziano le gravissime responsabilità di Damasco. La maggior parte delle vittime non sono infatti state colpite dall'artiglieria, come si riteneva in un primo momento, ma passate per le armi in esecuzioni sommarie, avvenute casa per casa. «Famiglie intere sono state sterminate», ha affermato un portavoce dell'ufficio dell'Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani. Dei 108 morti (dei quali 49 erano bambini e 34 donne), meno di 20 sono morti sotto le bombe; il resto sono state vittime di esecuzioni sommarie, «compresa la gran parte dei bimbi assassinati». http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/456150/

giovedì 10 maggio 2012

Strage di studenti a Damasco: 55 morti e 372 feriti nel duplice attentato

Testimoni riferiscono di 11 bimbi uccisi nelle esplosioni Ministro Terzi: «Su intervento armato serve unanimità Onu» ] Testimoni riferiscono di 11 bimbi uccisi nelle esplosioni Ministro Terzi: «Su intervento armato serve unanimità Onu» MILANO - È salito a 55 morti e 372 feriti il bilancio delle vittime nel duplice attentato che ha colpito giovedì mattina Damasco, in Siria. Lo riferisce l’inviato della tv satellitare «al-Arabiya» che ha confermato che le due esplosioni sono avvenute nei pressi di una sede della sicurezza siriana e che uno dei due veicoli usati per l’attentato è un camioncino carico di esplosivo. Secondo testimoni tra le vittime ci sarebbero anche 11 bambini. ATTENTATI TERRORISTICI - Due colonne di fumo si sono alzate sopra la capitale che negli ultimi mesi è stata oggetto di diversi attacchi. La tv di Stato siriana ha riferito di due «attentati terroristici compiuti in contemporanea» nella periferia sud di Damasco, nei pressi della tangenziale meridionale, all'incrocio detto Qazaz. L'emittente precisa che nel luogo degli attentati «si trovavano impiegati diretti al lavoro e bambini diretti a scuola». LA TESTIMONIANZA - Un residente, che ha raccontato di esser arrivato a circa un centinaio di metri dal luogo di una delle esplosioni prima di esser respinto dalle forze di sicurezza, ha detto di aver visto vetri rotti e donne in lacrime. Le scuole nelle vicinanze hanno rimandato a casa i bambini per la giornata. Un altro residente ha raccontato che la polizia ha isolato il distretto di Kfar Souseh, che ospita un centro dell'intelligence militare, e che sono risuonati colpi d'arma da fuoco nell'aria. Secondo l'emittente siriana «ci sono decine tra morti e feriti». Sul luogo delle due esplosioni si vedono carcasse di auto bruciate e uomini che raccolgono resti umani da terra e dall'interno delle vetture. LE AUTO - Ad esplodere sarebbero state due autobomba con 30 chili di tritolo che hanno provocato numerose vittime oltre a un cratere sulla strada. Sul luogo dell'attentato si è recato anche il comandante della missione di osservatori Onu in Siria, il generale norvegese Robert Mood, uscito illeso da un attentato a Deraa, che ha colpito il convoglio Onu sul quale viaggiava. Sei soldati della scorta sono rimasti feriti.Il comandante ha anche fatto un appello per fermare gli attacchi: «Noi, la comunità internazionale - ha spiegato Mood - siamo al fianco del popolo siriano e invitiamo tutti in Siria e all'estero affinché contribuiscano a fermare queste violenze». KOFI ANNAN - L'inviato Onu e Lega araba per la Siria, Kofi Annan, ha condannato i sanguinosi attentati a Damasco definendoli «inaccettabili». «Questi atti odiosi sono inaccettabili e la violenza in Siria deve finire» ha detto Annan. «Ogni azione che aumenta il livello di violenza è controproducente per gli interessi delle parti in causa» ha aggiunto. «DONATE IL SANGUE»- Quella di giovedì mattina «potrebbe essere la più forte» della serie di esplosioni che hanno colpito la capitale siriana da dicembre scorso, afferma il portavoce del ministero degli Esteri siriano, Jihad Makdissi, in un messaggio pubblicato sul proprio profilo di Facebook. Makdissi ha fatto appello agli abitanti di Damasco affinché si rechino negli ospedali a donare il sangue per le vittime dell'attacco, in cui sono morte oltre 40 persone e 170 sono rimaste ferite. GUERRA CIVILE - «Armare l'opposizione siriana spingerá il Paese verso la guerra civile» e la soluzione della crisi che imperversa in Siria da oltre un anno si cela in una «transizione sul modello yemenita». Ne è convinto il presidente tunisino Moncef Marzouqi, secondo il quale «di fatto la guerra civile in Siria è giá in atto, dal momento che alcuni soggetti in campo ritengono che armare l'opposizione porterá a una soluzione». TERZI: IPOTESI USO DELLA FORZA-L'attentato di Damasco è «gravissimo» e «l'Italia stigmatizza nel modo più fermo il perpetrarsi di attentati, a qualsiasi natura e fonte siano riconducibili le matrici terroristiche» la condanna arriva dal ministro degli Esteri, Giulio Terzi. Che sull'ipotesi di un intervento armato della Comunità Internazionale in Siria aggiunge: «Potrebbe essere considerata» dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, «ma ci vogliono le condizioni politiche» affinchè tutti i membri dell'organismo diano il loro lasciapassare in base all'articolo 7 della Carta Onu. Per la prima volta, quindi, Terzi si è mostrato possibilista sull'ipotesi dell'uso della forza armata, ha detto che «allo stato attuale si tratta di una possibilità». «Ci vuole una soluzione politica - ha aggiunto - guidata dal Consiglio di Sicurezza, auspicabilmente con una nuova risoluzione». http://www.corriere.it/esteri/12_maggio_10/siria-damasco-esplosioni_648faafc-9a64-11e1-9cca-309e24d49d79.shtml

sabato 28 aprile 2012

Siria: Libano, armi per insorti su nave salpata da Libia

Tre container colmi di armi destinate agli insorti siriani sono stati scoperti a bordo della 'Lutfallah II', il mercantile battente bandiera della Sierra Leone intercettato due notti fa da unita' della Marina Militare di Beirut, al largo della costa settentrionale del Libano: lo hanno riferito in via riservata fonti della forze di sicurezza libanesi, secondo cui la nave trasportava mitragliatrici, lancia-razzi e lancia-granate, proiettili di artiglieria, missili ed esplosivi. Rimorchiata inizialmente fino al porto di Selaata, una cinquantina di chilometri a nord della capitale, la 'Lutfallah' in mattinata ha levato l'ancora e, sotto massiccia scorta, si e' diretta verso un'ignota destinazione. Era salpata dalla Libia e, dopo aver fatto scalo ad Alessandria d'Egitto, si stava dirigendo verso Tiro, nel Libano meridionale, nel cui porto era stata autorizzata ad attraccare. Comandante e membri dell'equipaggio sono stati affidati ai servizi segreti militari in tale citta', per essere sottoposti a ulteriori interrogatori. Quanto al carico di armi, e' stato trasferito a Beirut con tre camion, scortati da fuoristrada blindati dell'Esercito e da un elicottero. Il regime di Bashar al-Assad ha piu' volte denunciato che attraverso il Paese confinante, il cui governo gli e' di fatto favorevole, passano armamenti destinati ai ribelli in Siria . (28 aprile 2012) http://www.repubblica.it/ultimora/esteri/siria-libano-armi-per-insorti-su-nava-salpata-da-libia/news-dettaglio/4154732

domenica 15 aprile 2012

Il Quartetto non accusa gli insediamenti per l’impasse negoziale

Il Quartetto (Usa, Ue, Russa, Onu) ha diffuso mercoledì una dichiarazione che contiene parole trite e ritrite sugli insediamenti, ma si guarda bene dall’affermare – come avrebbero voluto i palestinesi – che la colpa dell’impasse nel processo diplomatico è delle attività edilizie ebraiche negli insediamenti. Nell’ultimo paragrafo del comunicato il Quartetto “esprime preoccupazione per azioni unilaterali e provocatorie da entrambe le parti comprese le perduranti attività negli insediamenti, le quali non devono pregiudicare il risultato dei negoziati, che sono l’unica strada per una soluzione giusta e duratura del conflitto”.
La dichiarazione è stata diffusa al termine di un incontro tenutosi a Washington fra il segretario di stato Usa Hillary Clinton, il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, la rappresentante delle politica estera dell’Unione Europea Catherine Ashton, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, l’inviato speciale del Quartetto Tony Blair e il ministro degli esteri giordano Nasser Judeh. La Giordania non è membro del Quartetto, ma ha sponsorizzato l’ultimo round di colloqui israelo-palestinesi ad Amman lo scorso gennaio.
Il giorno prima dell’incontro, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat aveva affermato che il Quartetto avrebbe dovuto condannare pubblicamente Israele come responsabile del deragliamento del processo di pace. La dichiarazione del Quartetto, invece, non fa nulla del genere, anche se include un paragrafo che mette assieme l’estremismo violento e l’istigazione all’odio fra i palestinesi con gli atti vandalici di gruppi di coloni israeliani. “Nel prendere atto dei significativi progressi in materia di sicurezza conseguiti dall’Autorità Palestinese in Cisgiordania – si legge nel comunicato – il Quartetto esorta l’Autorità Palestinese a continuare a fare ogni sforzo per migliorare legge e ordine, combattere l’estremismo violento e porre fine all’istigazione. Il Quartetto – continua il testo – esprime inoltre preoccupazione per le attuali violenze e istigazioni dei coloni in Cisgiordania ed esorta Israele ad adottare misure efficaci, compresa quella di portare i responsabili di tali atti davanti alla giustizia”.
Un funzionario israeliano ha osservato che il Quartetto sembra aver fatto un semplice “copia e incolla” delle parole usate in precedenti dichiarazioni dell’Unione Europea in occasione di vari incontri sul Medio Oriente senza accorgersi che, proprio grazie all’azione delle autorità di sicurezza israeliane, nelle scorse settimane si è registrata una netta diminuzione dei casi di “ritorsione” contro palestinesi di Cisgiordania (cioè degli atti di teppismo e vandalismo giornalisticamente etichettati, in Israele, col termine “fargliela pagare”).
La dichiarazione del Quartetto rinnova poi il proprio impegno rispetto alla cornice delineata lo scorso settembre che prevedeva un incontro iniziale fra le due parti entro trenta giorni, per arrivare successivamente ad uno scambio di proposte globali su sicurezza e territorio entro tre mesi, a negoziati diretti e ad un accordo complessivo entro la fine del 2012.
L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha diffuso un comunicato in cui accoglie con favore la dichiarazione del Quartetto “che chiede la continuazione di colloqui diretti senza precondizioni”. Netanyahu, si legge nel comunicato, proporrà al primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad, nel loro incontro previsto per la prossima settimana, di elevare i colloqui fra le due parti al livello di un incontro diretto con il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
Secondo quanto previsto, Fayyad dovrebbe consegnare a Netanyahu una lettera in cui è delineata la posizione palestinese sui colloqui; pochi giorni dopo, il negoziatore di Netanyahu, Yitzhak Molcho, consegnerà a sua volta una lettera di risposta per Abu Mazen. Funzionari governativi israeliani che hanno visto il documento hanno detto mercoledì sera a YnetNews che la lettera conterrà una dettagliata descrizione delle posizioni d’Israele su controllo della Valle del Giordano e carattere smilitarizzato del futuro stato palestinese, ma non conterrà la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele come stato ebraico. In passato Netanyahu ha più volte chiesto che l’Autorità Palestinese e il suo presidente Abu Mazen riconoscano il diritto di Israele ad esistere come stato nazionale del popolo ebraico così come il governo israeliano riconosce la necessità che esista uno stato nazionale arabo-palestinese. I funzionari di Gerusalemme hanno detto che questa richiesta non comparirà nella nuova lettera e che verrà avanzata soltanto verso la conclusione dei negoziati di pace. “Non intendiamo avanzare precondizioni per l’avvio delle trattative – hanno spiegato – I palestinesi vorrebbero che Israele si impegnasse a ritirarsi sulle linee pre-’67, ma è una precondizione e noi siamo contrari a tali precondizioni. Allo stesso modo, noi non pretenderemo il riconoscimento da parte palestinese di Israele come stato ebraico prima della ripresa dei negoziati. Ora, prima di tutto, occorre sedersi e trattare”.
La dichiarazione del Quartetto fa appello inoltre alla comunità internazionale perché “garantisca il contributo di 1,1 miliardi di dollari in aiuti, necessari per soddisfare le esigenze finanziarie correnti dell’Autorità Palestinese per il 2012”. La dichiarazione incoraggia Israele e Autorità Palestinese a “cooperare per favorire lo sviluppo economico e sociale nell’Area C, che è di cruciale importanza per la fattibilità di un futuro stato palestinese e perché i suoi abitanti palestinesi possano condurre una vita normale”. L’Area C è la parte di Cisgiordania che è sotto controllo israeliano in base agli accordi firmati da Israele e Olp. Secondo i rappresentanti israeliani, ciò che conta nella dichiarazione del Quartetto è l’esortazione a sviluppare l’Area C in cooperazione fra israeliani e palestinesi, mentre negli ultimi mesi si era avuta notizia di varie iniziative unilaterali palestinesi in quella zona, talvolta sostenute da alcuni paesi europei. Tony Blair ha già operato con Israele e palestinesi in attività economiche nell’Area C, poi però l’accordo di riconciliazione Fatah-Hamas firmato lo scorso febbraio a Doha ha per il momento congelato quei progetti.
Infine, la dichiarazione del Quartetto afferma che la situazione “dentro e attorno alla striscia di Gaza” è destinata a restare “fragile e instabile finché Cisgiordania e Gaza non saranno riunite sotto la legittima Autorità Palestinese, che si attiene agli impegni assunti dall’Olp” (con gli accordi già firmati negli anni scorsi), e condanna i lanci di razzi da Gaza sulle città israeliane senza accusare Israele per le sue reazioni militari.

(Da: Jerusalem Post, YnetNews, 11.4.12)
http://www.israele.net/articolo,3408.htm

venerdì 16 marzo 2012

Un fragilissimo cessate il fuoco

Dopo quattro giorni di conflitto, l'ultimo round di scontri con le organizzazioni terroristiche nella striscia di Gaza sembra volgere al termine. In effetti le principali parti coinvolte avevano un preciso interesse ad evitare l’escalation.
Gli obiettivi di Israele, in questa fiammata di violenze, erano limitati al contenimento delle ricadute conseguenti all’eliminazione mirata di Zuhair al-Qaissi, capo terrorista dei Comitati di Resistenza Popolare nella striscia di Gaza. Qaissi era considerato una “bomba a orologeria” che stava preparando un attentato dalla penisola del Sinai in preda all’anarchia, analogo a quello architettato lo scorso agosto.
L’obiettivo dei Comitati di Resistenza Popolare, della Jihad Islamica palestinese e di altri gruppi terroristi “muqawama” (irriducibili), pesantemente finanziati e sostenuti dall’Iran, era e rimane quello di sequestrare e/o ammazzare degli israeliani e trascinare Israele in un conflitto diretto con l’Egitto post-Mubarak. Esattamente l’obiettivo che Israele ha voluto sventare uccidendo Qaissi.
Ma Israele non era interessato a una vera escalation, che avrebbe potuto causare numerose vittime civili non intenzionali, soprattutto considerando la strategia palestinese di sparare i razzi dai centri densamente abitati e di usare i civili come scudi umani. E benché le batterie anti-missili del sistema Cupola i ferro schierate ad Ashdod, Ashkelon e Beersheba abbiano garantito una significativa protezione a decine di migliaia di israeliani che vivono nel raggio della gittata dei razzi sparati da Gaza, prolungare il conflitto significava aumentare il rischio di subire vittime civili israeliane.
Anche Hamas, che controlla la maggior parte della striscia di Gaza, non era interessata a un’escalation, quantunque la cosa più avanti possa anche cambiare. La storica organizzazione fondamentalista palestinese è in via di mutamento, mentre cerca di smarcarsi dalla sua vecchia alleanza con Iran e Siria e di allinearsi con gli stati sunniti, soprattutto con l’Egitto dove la Fratellanza Musulmana, organizzazione madre di Hamas, sta salendo al potere. Hamas ha un chiaro interesse a mostrare all’Egitto e ad altri stati “moderati” sunniti d’essere capace di mantenere la stabilità a Gaza. Tanto più che l’Egitto, che sta attraversando un tremendo sconvolgimento politico da quando Hosni Mubarak è stato estromesso, ha i suoi problemi – soprattutto le tensioni fra giunta militare e islamisti – e non ha voglia di veder scoppiare una guerra ai suoi confini nord-orientali. Ed infatti l’Egitto ha giocato un ruolo chiave nel favorire il cessate il fuoco. Il capo dell’intelligence Murad Muafi e altre figure delle forze armate egiziane hanno fornito l’indispensabile collegamento fra Israele e i gruppi terroristi di Gaza. Amos Gilad, direttore degli affari politico-militari presso il ministero della difesa israeliano, ha dichiarato martedì a radio Galei Tzahal che non c’è stato nessun accordo formale con Hamas o altre organizzazioni terroristiche che operano nella striscia di Gaza, dal momento che Israele “non si accorda con gli assassini”. Piuttosto, ha spiegato Gilad, Israele attraverso gli egiziani ha fatto arrivare il messaggio “calma in cambio di calma”, pur riservandosi il diritto di condurre eliminazioni mirate quando si rende necessario per prevenire attentati.
Ma il cessate il fuoco è molto fragile. Martedì stesso (e poi ancora mercoledì e giovedì) diversi ordigni sono stati sparati dalla striscia di Gaza sul sud di Israele, mentre i Comitati di Resistenza Popolare e la Jihad Islamica, che hanno dimostrato di disporre di moltissimi razzi, continueranno a pianificare attacchi contro “l’entità sionista”.
Ancora più inquietante è la possibilità assai concreta che l’interesse politico di Hamas ed Egitto per il mantenimento della calma a Gaza possa mutare. Il crescente estremismo nell’Egitto dell’era post-Mubarak è apparso evidente domenica quando il parlamento, ora praticamente controllato dalla Fratellanza Musulmana, ha avviato procedure di voto volte a bloccare la ricezione del miliardo di dollari e più in aiuti che gli Stati Uniti forniscono ogni anno al Cairo. I parlamentari islamisti sono evidentemente molto turbati dal caso giudiziario che coinvolge alcune ONG americane che si battono per i diritti umani in Egitto. Lunedì, poi, il parlamento egiziano ha votato a favore dell’espulsione dell’ambasciatore d’Israele e per il blocco delle esportazioni di gas verso Israele. Una votazione fatta per alzata di mano su una dichiarazione della Commissione per gli Affari Arabi in cui si affermava che l’Egitto non sarà mai amico, partner o alleato di Israele. Limitare gli aiuti americani è considerato un modo per ridurre l’influenza che gli Stati Uniti possono esercitare sulla politica egiziana. Il che potrebbe dare mano libera all’Egitto, nei prossimi anni, per abrogare gli Accordi di pace di Camp David e adottare una posizione più ostile a Israele.
Purtroppo, nei primi giorni di fragile cessate il fuoco, mentre più di un milione di israeliani nel sud del paese cerca di tornare a una vita normale, già si profilano all’orizzonte i segnali della prossima tornata di scontri.

(Da: Jerusalem Post, 13.3.12)

http://www.israele.net/articolo,3387.htm

sabato 18 febbraio 2012

È tempo di rottamare l’Unrwa






L’agenzia Onu per i profughi palestinesi (l’UNRWA ovvero United Nations Relief and Works Agency for Palestinian Refugees) costituisce uno dei più grossi ostacoli al processo di pace. Lo ha ribadito la parlamentare israeliana Einat Wilf (del partito Indipendenza, che fa capo a Ehud Barak), durante un incontro con 65 ambasciatori e diplomatici di alto livello provenienti da tutto il mondo che si è tenuto agli inizi del mese presso l’Università Bar-Ilan.
Einat Wilf ha lanciato una nuova campagna parlamentare internazionale per promuovere una riforma dell’UNRWA e contrastare “l’inflazione quantitativa dei profughi”, con lo scopo di rendere concretamente possibile la soluzione a due stati. “Quando sento un palestinese affermare che esiste un ‘diritto al ritorno’ all’interno del sovrano stato di Israele – ha spiegato Einat Wilf – mi domando se costui voglia davvero la pace e accetti il concetto di una soluzione a due stati, che in quanto tale prevede uno stato ebraico accanto a uno stato arabo”. Ed ha aggiunto: “In tutto il mondo, solo l’UNRWA riconosce una sorta di diritto ereditario automatico allo status di profugo”.
Infatti - a differenza dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees), l’organismo che si fa carico di tutti i profughi del mondo che non siano palestinesi - l’UNRWA garantisce i suoi servizi a tutti i discendenti dei profughi palestinesi della guerra del 1948 anche dopo più generazioni: un meccanismo attraverso il quale l’ammontare dei profughi palestinesi registrati non fa che aumentare ogni anno.
La parlamentare israeliana fa appello alla comunità internazionale perché affronti la questione della continua “inflazione” del numero dei profughi palestinesi, e intende rivolgersi direttamente alle commissioni dei vari Parlamenti incaricate di approvare gli stanziamenti a favore dell’UNRWA. La sua proposta è che le commissioni trasferiscano i fondi destinati all’UNRWA dal finanziamento di base per usi generali a finanziamenti mirati per scopi e progetti specifici. Ad esempio, spiega Einat Wilf, se la striscia di Gaza farà indiscutibilmente parte del futuro stato palestinese, un bambino che nasce oggi a Gaza non può essere considerato “profugo”. I paesi donatori continuino a finanziare ospedali, scuole e assistenza sociale nella striscia di Gaza, ma che il loro aiuto non sia legato allo status di profugo, bensì alle necessità reali.
Einat Wilf accusa l’UNRWA di minare gli sforzi volti a sostenere l’Autorità Palestinese come futuro governo di uno stato palestinese, e suggerisce che i fondi diretti ai programmi dell’UNRWA in Cisgiordania vengano trasferiti direttamente all’Autorità Palestinese, che possa così rafforzare le strutture del suo futuro stato. Inoltre, suggerisce che i programmi dell’UNRWA in Libano, Siria e Giordania vengano accorpati con quelli dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati.
Una volta che fossero attuate queste misure, spiega Wilf, la quantità totale di veri profughi palestinesi (riconosciuti come tali in base agli standard applicati a tutte le altre comunità di profughi del mondo) si “sgonfierebbe” scendendo a circa 30.000. Secondo la Wilf, questo numero “effettivo” di profughi palestinesi aprirebbe la strada alla soluzione a due stati, giacché “anche un governo israeliano di destra” sarebbe disposto ad accettare l’ingresso in Israele di profughi palestinesi nell’ordine di questa cifra, a patto che accettino di convivere in pace coi loro vicini (laddove, al contrario, la continua minaccia palestinese di pretendere l’ingresso in Israele di milioni di discendenti di profughi non può essere accettatala da nessun governo israeliano).
Alcuni dei diplomatici presenti hanno obiettato che questi passi non andrebbero fatti prima dell’accordo di pace definitivo, osservando che quella dei profughi è una delle questioni chiave che devono essere affrontate nel quadro dei negoziati. Einat Wilf ha tuttavia ribattuto che, se il processo non viene rovesciato, è molto improbabile che i negoziati possano avere successo.

(Da: Jerusalem Post, 1.2.12)
http://www.israele.net/articolo,3363.htm

venerdì 27 gennaio 2012

I rischi del cinismo e dell'indifferenza: perché è importante ricordare

Il Giorno della Memoria e il valore della testimonianza

Il brivido di orrore che hanno avvertito, poche settimane fa, i lettori dei giornali e la moltitudine planetaria dei frequentatori del web è la prova di quanto sia necessaria la mobilitazione, e non una sola volta all'anno, per difendere il valore della memoria. Il giovane titolare di una palestra di Dubai, a caccia di clienti, ha infatti ideato cartelloni pubblicitari con la foto dell'ingresso del più noto e sinistro campo di sterminio nazista. Accompagnandola con uno slogan agghiacciante: «Magri come fosse Auschwitz». Quel che raggela non è soltanto l'accostamento tra il culto del fitness e i lager dove si sterminavano gli ebrei, ma il fatto che l'ideatore si sia permesso quest'infamia, raccogliendo almeno all'inizio una confortante, e in qualche caso entusiastica risposta dai vecchi e nuovi frequentatori della palestra. È l'ultimo inquietante segnale che spiega come sia un obbligo vigilare per non dimenticare.

I negazionisti dell'Olocausto, a cominciare dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, sono sempre in agguato, e il pericolo più grande è che, dopo la scomparsa degli ultimi sopravvissuti-testimoni, si faccia strada un oblio generalizzato, magari lasciando spazio a teorie infamanti, alimentate da una diffusa (e da alcuni voluta) ignoranza. Con l'obiettivo di cancellare una delle pagine più terribili della storia dell'umanità: l'annientamento di sei milioni di ebrei. Colpevoli di un solo crimine: appunto, di essere ebrei.

Per aiutare i giovani a conoscere, e quelli meno giovani a non dimenticare quanto accadde meno di 70 anni fa in un grande Paese europeo, anche noi abbiamo deciso di offrire un contributo, ripercorrendo il sentiero della sofferenza e della morte, con il fondamentale aiuto di un gruppo di sopravvissuti (Guarda il docu-web). Per dare un titolo al nostro lavoro, abbiamo preso a prestito da Goti Bauer, una eroica e generosa donna uscita viva dal campo di sterminio di Auschwitz, una frase laconica e tragicamente vera: «Salvi per caso». È proprio così. I pochissimi che sono tornati alla vita, dopo aver attraversato l'intero tunnel dell'orrore e della bestialità umana, ce l'hanno fatta soltanto grazie ad alcune fortuite circostanze. Alcuni hanno pagato persino da sopravvissuti un atroce supplemento di dolore. Guardati, anzi scrutati con sospetto perché erano riusciti a salvarsi.

Lo sterminio fu pianificato, organizzato e realizzato in un Paese importante, quella Germania patria di filosofi, di intellettuali, di musicisti, di letterati di straordinaria grandezza. Non si può giustificare l'orrore di una cieca acquiescenza con le umiliazioni subite dal popolo tedesco alla fine della prima guerra mondiale, quando i vincitori dettarono ai vinti condizioni durissime e spietate. Nulla di razionale può spiegare come gente colta e fiera si sia lasciata sedurre fino a spingere «democraticamente» nelle stanze del potere un uomo spietato e complessato: quell'Adolf Hitler che, dopo aver attaccato militarmente e ferocemente il mondo, stabilì la scientifica eliminazione di tutta la popolazione ebraica: in Germania e nei paesi europei occupati dai nazisti.

Eppure è accaduto in Europa! A parte qualche apprezzabile e minoritario movimento di opposizione, a parte l'inconcludente ma abbastanza diffusa microresistenza raccontata da Hans Fallada nel libro Ognuno muore solo, e a parte il coraggio di pochi temerari che cercarono di eliminare l'aguzzino che aveva «sporcato e offeso l'onore della Germania», e che pagarono con la morte la loro ribellione, la lucida follia di Hitler riuscì a prevalere per oltre un decennio, tra la «quasi indifferenza» del mondo. Jan Karski, l'agente segreto polacco infiltrato nei campi e poi esfiltrato perché potesse raccontare ai potenti della Terra il genocidio degli ebrei purtroppo non fu ascoltato. Se lo avessero ascoltato, la guerra contro Hitler sarebbe forse cominciata prima.

Pregavamo che arrivassero gli aerei a bombardare i campi di sterminio. Meglio morire così che nelle camere a gas», ha ripetuto più volte uno dei sopravvissuti più celebri, il premio Nobel Elie Wiesel. Siamo andati a cercare e abbiamo trovato alcuni di coloro che hanno vissuto per intero l'incubo che ha abitato l'«interminabile notte della ragione». Per gli ebrei greci, le deportazioni cominciarono alla vigilia della primavera dei 1943, da Salonicco, la città che è stata chiamata «Madre di Israele». Questo perché, allora, gli ebrei erano quasi il 50 per cento della popolazione della città, che contava 120.000 abitanti. I deportati furono circa 58.000. Ne tornarono poco più di 2.000. C'è chi si salvò perché conosceva il tedesco, come Heinz Kounio; o semplicemente perché, costretto ad adattarsi alla ferocia di Auschwitz-Birkenau, aveva una forza e un carattere d'acciaio come Benjamin Kapon; chi si salvò perchè poteva contare su un passaporto spagnolo - come Nina Benroubi, Rachel Revah e Raul Saporta - e quindi fu deportato in un campo, quello di Bergen Belsen, dove si moriva di fame e di freddo ma non vi era la spietata macchina della selezione di Auschwitz: cenno con la mano destra dell'ufficiale medico nazista per indicare camera a gas immediata per bambini, anziani e disabili; cenno con la mano sinistra per chi, a un primo esame, poteva servire per i più duri lavori manuali.

Per gli italiani, i treni dell'infamia partivano generalmente dal binario 21 della stazione centrale di Milano. Carrozze per il trasporto-animali stipate di ebrei, che prima raggiungevano il campo di Fossoli, vicino a Carpi, in provincia di Modena, dove avveniva la turpe consegna dei prigionieri ai nazisti. E si preparava il viaggio-in condizioni disumane- verso Auschwitz. Liliana Segre racconta come abbia cercato di sopravvivere tappandosi le orecchie per non sentire le grida, in tante lingue, di bambini strappati ai genitori, pur sapendo qual era il loro destino. Nedo Fiano racconta di come si salvò perchè conosceva il tedesco, e poi perché sapeva cantare e spesso doveva intrattenere gli aguzzini, ottenendo un po' di cibo oltre al rancio della vergogna: un litro di zuppa semiputrescente e 60 grammi di pane al giorno. Franco Schönheit racconta del vantaggio di avere un cognome tedesco e di avere soltanto il 50 per cento di sangue ebraico. Molti episodi dettagliati che spiegano quel «Salvi per caso»: prima la cattura, poi il viaggio, la vita nel campo di sterminio, il lavoro massacrante, le frustate al primo errore, il fumo dai camini, l'odore della carne bruciata. Poi il cammino della morte, al quale i deportati furono obbligati dai nazisti in fuga. E infine la liberazione, l'inizio di una nuova vita, il desiderio di dimenticare.

Per molto tempo questi sopravvissuti hanno taciuto. Da qualche anno si sono decisi a parlare, a raccontare, a spiegare, a dare puntigliosa, sofferta e dolorosa testimonianza di quel che hanno vissuto. Di quel «mostro» che da qualche parte, nel mondo, potrebbe ancora rinascere: perché quel «mai più!», gridato una volta all'anno, il 27 gennaio, Giorno della Memoria, non basta. Sta diventando quasi un esercizio retorico. Tutti sappiamo che riprodurre le condizioni di quell'orrore è purtroppo possibile se non si sorveglia costantemente. Se non ci si trasforma in intransigenti guardiani della democrazia e del rispetto dei diritti umani.
Ai sopravvissuti che abbiamo incontrato vogliamo dire un grazie di cuore e mandare un forte abbraccio. Le loro testimonianze aiuteranno a non cadere nell'abisso del cinismo, della menzogna, dell'indifferenza e dell'ignoranza.

Antonio Ferrari
Alessia Rastelli

http://www.corriere.it/cultura/12_gennaio_26/ferrari-memoria_57119422-483d-11e1-9901-97592fb91505.shtml