domenica 4 settembre 2011

Peres: la primavera araba ora dia libertà alle donne"

di Vincenzo Nigro

CERNOBBIO - «Può darsi che i jihadisti abbiano avuto un ruolo nella rivolta in Libia, ma a pesare di più sono stati i 42 anni di oppressione del regime, non gli incitamenti degli estremisti islamici. Le rivoluzioni arabe sono già una grande promessa per il Medio Oriente. Ho fiducia nelle giovani generazioni. Il futuro è affidato alla scienza, è costruito da relazioni pacifiche». A 88 anni Shimon Peres, il presidente di Israele, si muove al workshop di Cernobbio con la lentezza di un vecchio saggio, ma con la velocità intellettuale di un ragazzo che sa immaginare un nuovo mondo.

Presidente, alla fine di settembre l´Anp di Abu Mazen chiederà un voto all´assemblea Onu per riconoscere uno Stato palestinese. Potrebbero avere l´appoggio del mondo anche se sarà un voto simbolico.

«La posizione di Israele, del popolo, del suo governo, è che uno Stato palestinese dovrà sorgere. La questione non è più il "se", ma "come" si possa raggiungere l´obiettivo garantendo anche la sicurezza di un altro Stato che già esiste: Israele. Abbiamo avuto l´esperienza di Gaza, che una volta diventata indipendente si è trasformata in una base per lanciare attacchi contro Israele. Mi chiedo: con quel voto le Nazioni Unite possono garantire la sicurezza di Israele? L´Onu può fermare il lancio di missili su Israele? Può bloccare il contrabbando di armi dall´Iran, un Paese membro della stessa Onu?».

Si metta nei panni del leader palestinese Abu Mazen: lei non farebbe lo stesso? Non chiederebbe un voto all´Onu per sbloccare un negoziato paralizzato da anni?

«Non sono sicuro del risultato di quel voto. Ho paura che sarà una mera dichiarazione che rinvierà la possibilità di un negoziato vero. Certo, è passato molto tempo, ma la pace richiede tempo: essere impazienti e ottenere solo una dichiarazione non servirà a molto».

Sappiamo che, in accordo col governo Netanyahu, lei ha avuto contatti riservati con la dirigenza palestinese.

«La risposta alle domande di arabi e israeliani sarebbe avere colloqui bilaterali e diretti. Ne sto parlando con i palestinesi, non escludo la possibilità di un accordo diretto fra noi e loro. Lo dico chiaramente: la soluzione è andare a negoziati diretti».

Israele congelerà i fondi dell´Anp, bloccherete la collaborazione con i palestinesi dopo un eventuale voto Onu?

«Sui versamenti non ci sono problemi, c´è stato un breve blocco, c´era un dibattito interno al governo, ma quei soldi appartengono ai palestinesi e vanno versati a loro. Per il resto credo che dovremmo continuare a negoziare».

Un fattore essenziale è il supporto dell´opinione pubblica: la società politica israeliana sta cambiando. Crede che gli israeliani sosterranno la pace?

«Le rispondo con un paradosso: non so se la maggioranza sosterrà la pace, ma di sicuro la pace creerà una maggioranza. Se un primo ministro si presenterà con un progetto di pace, otterrà sostegno. I sondaggi non sono il verdetto finale: sono come i profumi, gradevoli da odorare, pericolosi da bere. Se ci sarà un vero progetto di pace, la pace verrà approvata».

Di fronte a voi, la "primavera" del mondo arabo. Per Israele la rivoluzione più delicata è stata quella in Egitto. Quale sarà il futuro dei rapporti con questo Paese cruciale per la vostra sicurezza?

«Queste rivoluzioni sono già una grande promessa per tutto il Medio Oriente. Per ora, però, abbiamo dei rivoluzionari, non una vera "Rivoluzione": non hanno leader, né un´ideologia, né piani. Hanno la forza dell´età. Le giovani generazioni vedono le cose in maniera differente, in tutto il mondo. Ma far funzionare la macchina del cambiamento non è semplice. Ci vorranno tempo, elezioni e passi successivi. Aggiungo una cosa: non si può cambiare una società se non vengono garantiti uguali diritti alle donne. Una volta il presidente Obama mi ha chiesto: «Chi sono i principali oppositori alla democrazia in Medio Oriente?». Gli ho risposto: i mariti, gli uomini. Non vogliono dare diritti alle donne. La loro libertà è essenziale per la libertà delle società».

Non crede che in Egitto la giunta militare sarà portata a cavalcare i sentimenti anti-israeliani? Arriverà a mettere in dubbio la pace con Israele?

«Non c´è una sola ragione di conflitto fra noi e l´Egitto. È stato il Paese più importante del Medio Oriente, e noi ci auguriamo che rimanga il Paese più solido e importante come l´abbiamo conosciuto. La pace fra noi e l´Egitto è un interesse comune: si fanno molte critiche a Mubarak, ma per 30 anni ha preservato la pace, ha salvato la vita di migliaia di egiziani e di israeliani».

C´è un altro Paese cruciale per voi, la Siria.


«Assad sta mantenendo il potere, ma ha completamente perso la testa. Non puoi rimanere al potere se non hai la testa a posto: ha già ucciso troppi fra i suoi cittadini, non è possibile cancellare quel che ha fatto. Ammiro il coraggio dei cittadini siriani: hanno protestato per mesi, sfidando il fuoco dei fucili, per difendere la loro dignità, la loro libertà. Avendo ordinato di assassinare così tanti cittadini, Assad ha ucciso anche il suo futuro. Credo che il regime abbia raggiunto la sua fine, è solo questione di tempo».

In Libia la scomparsa di Gheddafi potrebbe assegnare un ruolo importante a leader islamisti o jihadisti?

«Può darsi che i jihadisti abbiano avuto un ruolo, ma il ruolo principale nella rivoluzione l´ha avuto Muammar Gheddafi. La rivolta del popolo libico è stata creata da Gheddafi, per i 42 anni della sua oppressione, non dagli incitamenti dei jihadisti. Ha trattato un Paese come una sua proprietà privata, difesa con violenza disumana».

Crede che in Libia la "buona politica" riuscirà a limitare il ruolo di jihadisti e terroristi?

«Io spero di sì, ma le dico una cosa: già il regime di Gheddafi era un regime estremista, terrorista. Hanno fatto attentati, hanno abbattuto aerei carichi di passeggeri innocenti, pensi a Lockerbie. Non dobbiamo dimenticarlo. Il futuro è davanti a noi: non ho mai ceduto alla previsione dello scontro fra civiltà; c´è invece uno scontro fra generazioni, ovunque nel mondo. Io ho fiducia nelle nuove generazioni. Il futuro è globale, è affidato alla scienza, è costruito da relazioni pacifiche. Il problema del Medio Oriente è il cibo, il benessere, la vita dei cittadini. La jihad può rispondere a questi problemi? Si possono mangiare i proiettili a colazione? Non credo, le risposte possono offrircele solo politiche corrette di sviluppo economico. Per questo vengo a Cernobbio, a un convegno in cui ogni volta sento parlare di economia, di sviluppo: questo è lo strumento migliore per la pace. Negoziare per favorire lo sviluppo dei popoli».

Repubblica del 04/09/2011

domenica 21 agosto 2011

La solitudine d'Israele

di Salvatore Falzone


I fatti tragici degli ultimi giorni con gli attentati multipli contro Israele, indicano, ancora una volta, che le organizzazioni terroristiche hanno nella loro agenda il mantenimento di una situazione di conflitto, ma indica anche la solitudine dello Stato Ebraico nell’affrontare tali organizzazioni.
Non c’è stata nessuna condanna esplicita da parte dell’Egitto, né di Hamas, né dell’Anp.
Solamente si sono limitati ad una pronuncia di “non responsabilità” per quanto accaduto e sta accadendo, non una presa di posizione e d’attivazione contro il terrorismo.

L’Egitto, pur avendo interesse affinché il suo territorio non sia destabilizzato, non solo per il mantenimento della pace con Israele, visto che i controlli al valico di Rafak e sul Sinai sono di sua competenza con tanto di presenza dei soldati egiziani, bensì per evitare la sovversione della Repubblica laica egiziana con la presa di potere dei vari gruppi estremisti, o dell’ala dura dei Fratelli musulmani, si concentra sulla crisi diplomatica con Israele, (nonostante le aperture di quest’ultimo); Hamas, che si trova al governo nella Striscia di Gaza mostra tutta la sua non politica con il suo vero volto, con tanto di lanci di missili grad che hanno una gittata tale da mantenere nel mirino il sud d’Israele, infine l’Anp mantiene un atteggiamento che mostra come la tanto sbandierata “unità palestinese” sia inesistente.

Sul versante internazionale gli Usa, l’UE e l’Onu, dopo le solite prese di posizione, mostrano una forte debolezza politica. Oramai la loro credibilità tende a scemare per la mancanza di una visione d’insieme della situazione israelo-arabo-palestinese.
In una situazione del genere Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente, si trova in solitudine a difendersi per la sua sicurezza nazionale davanti alle ostilità dei Paesi limitrofi, davanti al terrorismo

venerdì 19 agosto 2011

Attentato multiplo nel sud di Israele

Attentato terrorista multiplo, giovedì, contro il sud di Israele: almeno sette persone uccise, trenta i feriti, alcuni in condizioni critiche.
Nel primo attacco un commando di almeno tre terroristi, a quanto pare con addosso divise militari blu (egiziane), ha teso un’imboscata a raffiche di mitra contro un autobus della linea 392 in viaggio da Beersheva (capoluogo del Negev israeliano) a Eilat (nell’estremo sud del paese, sulla costa del Mar Rosso). L’attacco, che ha avuto luogo sulla Strada 12, una ventina di km a nord di Eilat, presso l’incrocio di Ein Netafim, ha causato almeno una dozzina di feriti, di cui diversi in gravi condizioni. I feriti sono stati trasportati d’urgenza con ambulanze ed elicotteri agli ospedali Yoseftal di Eilat e Soroka di Beersheva.
Pochi minuti dopo, giungeva notizia di un secondo attacco nella stessa regione, con armi da fuoco e lancia-granate contro un autobus e un’auto privata: sette le persone ferite, alcune mortalmente. Secondo il portavoce delle Forze di Difesa israeliane, fra le vittime vi sarebbero anche dei soldati.
Un terzo attentato verso l’una del pomeriggio vedeva all’opera diversi ordigni esplosivi e lanci di razzi contro unità delle Forze di Difesa israeliane in servizio di pattuglia lungo il confine fra Israele ed Egitto.
Poco dopo, militari israeliani ingaggiavano uno scontro a fuoco con un gruppo di terroristi, uccidendone tre o quattro.
Tutte le strade verso Eilat sono state temporaneamente chiuse al traffico. Chiuso anche l’aeroporto di Ovda, mentre le forze di sicurezza si sono lanciate alla ricerca dei responsabili in tutta la zona.
Secondo fonti della difesa, almeno parte degli attacchi sarebbero stati portati dal versante egiziano della frontiera. Un funzionario della sicurezza egiziana ha sostenuto invece che tutti gli attacchi si sarebbero svolti all’interno dei confini d’Israele. Nei giorni scorsi le autorità israeliane avevano espresso la preoccupazione che gruppi di terroristi nel Sinai potessero sfruttare il vuoto seguito dalla destituzione del presidente egiziano Hosni Mubarak nel febbraio scorso.
"Agiremo contro l'origine degli attentati con tutta la forza e la determinazione", ha affermato il ministro della difesa, Ehud Barak.

Secondo la testimonianza di diversi passeggeri, Benny Belevsky, 60 anni, l’autista dell’autobus Egged n. 392 attaccato dai terroristi, ha evitato un esito ancora più grave agendo immediatamente con molto sangue freddo. Belevsky ha continuato a guidare sotto la pioggia di proiettili ed ha accelerato cercando di portare in salvo il mezzo, pieno di passeggeri, mentre alcuni soldati a bordo cercavano di rispondere al fuoco e del personale sanitario iniziava subito a prendersi cura dei feriti.

Parlando ai giornalisti giovedì pomeriggio, il comandante della zona sud delle Forze di Difesa israeliane, gen. Tal Russo, ha riepilogato la dinamica degli attentati, costati la vita a sei civili e un militare israeliano. Tre terroristi armati di cariche esplosive, armi automatiche e granate sono penetrati in Israele dal Sinai, si sono sparpagliati su un raggio di 300 metri e hanno iniziato a sparare sul primo autobus. Poi hanno sparato su un’auto privata e su un secondo autobus. Più tardi un attentatore suicida si è fatto esplodere e un altro terrorista apriva il fuoco sui militari sopraggiunti sul luogo degli attentati. Due terroristi sono stati eliminati dalle forze israeliane, e sembra che altri due siano stati intercettati e uccisi da forze egiziane sull’altro versante della frontiera. Successivamente i militari israeliani hanno rinvenuto cariche esplosive disseminate sul terreno. Uno degli attacchi ha avuto luogo nei pressi di un posto di controllo egiziano.

Paskal Avrahami, 49 anni, ufficiale di un'unità anti-terrorismo della polizia israeliana, è rimasto ucciso giovedì pomeriggio quando dei terroristi da oltre confine hanno aperto il fuoco su agenti e militari impegnati nelle operazioni di pattugliamento nella zona degli attentati avvenuti poche ore prima, nel sud del paese. La sua morte porta a otto il bilancio degli israeliani morti nella serie di attacchi terroristici di giovedì.

(Da: YnetNews, Jerusalem Post, Ha'aretz, 18.8.11)
http://www.israele.net/articolo,3208.htm

martedì 16 agosto 2011

Quarto giorno di fuoco a Latakia Raid notturni, almeno 30 morti

La cittadina costiera ancora sotto assedio. Sale il numero delle vittime. In alcune zone interrotte comunicazioni ed elettricità. Testimoni: "Si sentono esplosioni nei pressi del campo profughi di Raml", da dove sono fuggiti 5mila palestinesi. Duro monito del ministro degli Esteri turco: "E' l'ultimo avvertimento"

AMMAN - Non si ferma l'assedio del regime a Latakia. Il quarto giorno si è illuminato dopo i raid notturni durante i quali, secondo gli attivisti, ci sono state altre vittime e il bilancio è salito così a trenta morti compresi 4 palestinesi uccisi mentre tentavano la fuga dalla zona di Raml al Janubi. Tra questi c'era anche una donna. Secondo testimoni si sentono ancora "colpi di arma pesante e esplosioni nei pressi del campo profughi di Raml", da dove ieri sono fuggiti oltre 5mila palestinesi. In mattinata i tank dell'esercito siriano hanno aperto nuovamente 1il fuoco sulla cittadina del Mediterraneo, ieri pesantemente bombardata anche dal mare.

L'esodo dal campo profughi. Alcuni dei rifugiati di Latakia sono stati costretti dalle bombe ad abbandonare il campo su richiesta dell'esercito siriano, mentre altri se ne sono andati spontaneamente temendo per la propria vita, come ha spiegato il portavoce dell'Unrwa Christopher Gunness alla Cnn. "Stiamo chiedendo al governo siriano di poter incontrare i palestinesi, il loro benessere è una nostra responsabilità - ha detto Gunness -. Dobbiamo essere là per verificare cosa sta accadendo". "La tragedia di Raml al Janubi prosegue da ieri", ha denunciato il Coordinamento locale dei comitati
in Siria in un comunicato diffuso oggi. Secondo il gruppo dell'opposizione siriana dall'inizio della rivolta contro Assad a metà marzo, sono 2.545 le persone uccise, la cui maggior parte è composta da civili, mentre 391 sono agenti della sicurezza.

Vietato l'ingresso a organizzazioni umanitarie.
Le autorità siriane si rifiutano di concedere l'accesso al campo profughi di Latakia alle organizzazioni umanitarie. Lo ha denunciato Yasser Abed Rabbo, membro dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina. "Il campo è sotto pesanti bombardamenti da ieri" e le autorità non consentono all'agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unrwa) di entrare nel campo, ha detto Abed Rabbo che, accusando il governo del presidente siriano Bashar al-Assad di essere "anarchico", ha aggiunto che le forze siriane "uccidono il loro popolo, opprimono e bombardano". Zakareya Al-Agha, responsabile degli affari dei rifugiati all'interno dell'Olp, ha detto che decine di palestinesi nel campo sono stati uccisi o feriti. Non ci sono contatti tra la leadership palestinese e le autorità siriane, ha spiegato Al-Agha alla radio 'Voice of Palestine' senza spiegare i motivi.

Scontri al confine con il Libano
. Attivisti contattati dalla capitale siriana hanno poi raccontato che nella zona di Saliba, a Latakia, sono state interrotte le comunicazioni e l'elettricità. Ma è stata la zona di Simakayeh la più presa di mira durante questa notte quando l'esercito siriano ha intensificato le sue azioni repressive nei confronti dei manifestanti anti regime di Bashar al-Assad. Secondo gli attivisti ci sono esplosioni e scontri a fuoco alla frontiera settentrionale con il Libano. "Si è avvertito un pesante bombardamento dall'altra parte della frontiera perché Simakayeh è molto vicina al Libano", ha detto Omar Idlibi. Una fonte della sicurezza libanese ha poi aggiunto che guardie di frontiera hanno arrestato diverse famiglie a Simakayeh mentre tentavano di entrare nel nord del Libano dopo la mezzanotte. Citando attivisti a Damasco, inoltre, Idilbi ha denunciato che le forze di sicurezza hanno compiuto arresti di massa nel quartiere di Moadamiya, a Damasco.

L'ultimatum turco. Il ministro turco degli affari Esteri, Ahmet Davutoglu, ha esortato la Siria a porre fine "immediatamente e senza condizioni" alle operazioni militari contro i manifestanti. In un'ultima telefonata all'omologo ministro degli Esteri siriano Velid El Muallim, Davutogluha rivolto il suo monito: "Se le operazioni non finiranno - ha dichiarato - non ci sarà null'altro da dire in merito alle misure che potrebbero essere intraprese". Anche l'Anp, autorità palestinese, ha chiesto al governo di Damasco di garantire la sicurezza dei profughi palestinesi. Da Washington il portavoce della Casa Bianca John Carney ha dichiarato che il presidente Bashar Al-Assad deve "interrompere le violenze sistematiche, gli arresti di massa e l'uccisione senza senso e fuori ogni tipo di legge della propria popolazione".

La zona cuscinetto. Secondo quanto riporta la Cnn Turk, la Turchia sarebbe intenzionata a creare una zona cuscinetto al confine con la Siria. A giugno il quotidiano Hurriyet citava una fonte vicina al dossier, secondo la quale l'obiettivo della creazione di una zona cuscinetto in territorio siriano era quello di accogliere le molte persone in fuga dalle violenze in corso in Siria. Ma il numero dei siriani rifugiati in Turchia è calato. All'epoca si parlava di oltre diecimila persone, adesso sarebbero circa settemila.

http://www.repubblica.it/esteri/2011/08/16/news/siria_quarto-giorno_assedio-20493453/

venerdì 5 agosto 2011

Siria, il massacro quotidiano Assad prepotente, Onu impotente

La "Dichiarazione" di condanna e il massimo oggi possibile

Esisteva, ai tempi dell’Unione Sovietica la "solidarietà internazionalista", tante volte abbiamo sentito evocare negli ultimi vent’anni quella tra le democrazie e ancora più abusata è stata la solidarietà araba. Ma tra dittatori l’amicizia e l’appoggio fraterno hanno sempre avuto un corso molto limitato e, soprattutto, una validità che veniva immediatamente meno nei confronti di chi avesse avuto la sventura di cadere in disgrazia. Così non ci ha pensato su due volte, il presidente siriano Bachar el Assad, quando ha contato un po’ ingenuamente sul fatto che l’avvio del processo a Mubarak avrebbe distratto i media dal massacro che le forze armate siriane vanno compiendo per tutto il Paese. Proprio mentre le sue truppe stavano sottoponendo la città di Hama a un durissimo bombardamento, l’Onu pare essersi svegliata e aver adottato una "Dichiarazione" in cui si condannano "la violazione generalizzata dei diritti dell’uomo e l’uso della forza contro i civili da parte delle autorità siriane", ammonendo che "i responsabili delle violenze dovranno rispondere del loro operato".

È forse questa la parte più dura della Dichiarazione (cioè qualcosa di meno di una Risoluzione) che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (CdS) ha con estrema fatica adottato mercoledì scorso, la prima da quando in Siria hanno avuto inizio le proteste tanto sanguinosamente represse dal regime. In altri fondamentali passaggi, la Dichiarazione invita tutte le parti cessare le violenze e ad evitare ogni rappresaglia anche nei confronti delle istituzioni statali (leggasi i funzionari del Baath e gli appartenenti alle forze di sicurezza) e chiarisce che la ricerca della via di uscita ovrà essere politica e tutta interna alla Siria (ovvero esclude che essa possa preludere a una Risoluzione che autorizzi un intervento militare). "La montagna ha partorito il topolino", si potrebbe dire, visto gli oltre 1600 civili ammazzati (cui si aggiungono quasi 400 tra militari e poliziotti) in questi pochi mesi. Ma era impossibile andare realisticamente oltre, considerata l’opposizione ferrea di Cina e Russia (ma anche di Paesi come l’India) a un’ingerenza "eccessiva" negli affari interni di uno Stato sovrano. Comunque un passo che va nella direzione chiesta dagli insorti.

Le Nazioni Unite, una volta di più, si ritrovano ostaggio delle logiche dei "grandi". Quelli tradizionali (i cinque membri permanenti del CdS) e quelli nuovi, come l’India appunto. Per questi e per molti altri Paesi, la protezione dei diritti umani invocata a gran voce dagli occidentali, cozza con la più gelosa tutela della propria indipendenza, spesso riconquistata a durissimo prezzo proprio contro le potenze coloniali occidentali. L’Occidente peraltro non si sta mostrando eccessivamente proclive a mettere più pressione al regime di Assad, nei cui confronti le sanzioni fin qui adottate dalla Ue o dagli Usa sono estremamente blande e, quel che è peggio, "inasprite" con la cautela e la lentezza tipiche dei bradipi. Come abbiamo ricordato tante volte anche in passato, la vera carta che Assad ha in mano è la consapevolezza del ruolo regionale giocato dalla Siria, all’interno del mondo arabo e nel conflitto con Israele.

Tutti temono, in particolare, le conseguenze che un tracollo della Siria, per non parlare di un suo possibile frazionamento, potrebbe avere per gli equilibri del Medio Oriente. Di questi timori si è fatto interprete il governo del piccolo e tormentato Libano (oggi espressione di una coalizione guidata da Hezbollah), che non arrivando a bloccare l’adozione della Dichiarazione del CdS (che richiede un’approvazione all’unanimità) si è però dissociato immediatamente dopo. Nel frattempo Assad ha deciso di porre fine, per decreto, al monopolio quasi cinquantennale del partito Baath. Forse nel suo delirio di onnipotenza il dittatore si crede un novello Harry Potter, capace di mutare la realtà con un colpo della sua bacchetta magica. O forse, la sua era solo una "inaccettabile provocazione", come con il forbito linguaggio diplomatico il ministro degli Esteri francese Alain Juppé, ha dovuto rassegnarsi a chiamare quella che, a tutti gli effetti, è una "presa per i fondelli".

Ne vedremo ancora e non delle belle. Basta che tutti questi minuetti non ci distraggano dal fatto che in Siria alcuni uccidono senza scrupoli e altri muoiono senza colpa, ogni giorno, ormai da mesi.
Vittorio E. Parsi

http://www.avvenire.it/Commenti/Siria+il+massacro+quotidiano_201108050737260930000.htm

lunedì 11 luglio 2011

Perché Israele deve scegliere il negoziato

ABRAHAM B. YEHOSHUA

La campagna condotta da Israele contro l’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento di un proprio Stato all’Assemblea delle Nazioni Unite il prossimo settembre è a mio parere politicamente e moralmente scorretta e connessa alla questione del riconoscimento internazionale dei confini del 1967.

Permettetemi di riassumere brevemente una storia forse poco conosciuta alla maggior parte dei lettori italiani. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina.
E votò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico - Israele -, e uno arabo - la Palestina. L’area assegnata a questi due Paesi era più o meno la stessa. Lo Stato ebraico sarebbe stato costituito da circa 14 mila chilometri quadrati di territorio (per metà desertico) e quello palestinese da più o meno 13 mila.

I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo. Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale e all’interno dei quali il territorio di Israele si estende per 20.000 chilometri quadrati mentre quello della Palestina (Striscia di Gaza e Cisgiordania) per 7.000.

Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi: la Cisgiordania, allora sotto dominio giordano, e la Striscia di Gaza, in mano all’Egitto. Quest’ultima è ora governata dai palestinesi di Hamas mentre la Cisgiordania è ancora in mano israeliana. La decisione dell’Assemblea generale a settembre riguarderà sostanzialmente la questione territoriale del futuro Stato palestinese mentre, a quanto pare, non farà riferimento al ritorno dei profughi, alla smilitarizzazione, a Gerusalemme Est come capitale di tale Stato, e, naturalmente, al futuro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Temi che dovranno essere discussi nel corso di negoziati diretti.

Il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sancirà dunque la decisione presa dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 riguardo alla partizione della regione, sostenuta a suo tempo da Israele e alla base della sua legittimità internazionale. Se quindi il governo di Gerusalemme è sincero nel voler riconoscere uno Stato palestinese - come ha ripetutamente dichiarato - perché si oppone tanto alla prevista risoluzione di settembre? Penso che l’unica ragione sia il riferimento ai confini del 1967.

Il governo israeliano intende annettere parti della Cisgiordania, sia per via degli insediamenti lì presenti che per i vincoli storici con luoghi sacri agli ebrei. Dobbiamo però renderci conto che il territorio del futuro Stato palestinese (soltanto un quarto dell’intera regione) è il minimo di quanto spetta al suo popolo. E la tesi di Israele secondo la quale i confini del 1967 sarebbero indifendibili è problematica. È ovvio che lo Stato ebraico va assolutamente protetto da eventuali aggressioni ma tale protezione non sarà assicurata da insediamenti civili nel cuore della popolazione araba né dall’annessione.

Solo basi militari, israeliane e internazionali, lungo il Giordano, al confine orientale del futuro Stato, potranno fronteggiare eserciti arabi che vogliano introdursi in Palestina per attaccare lo Stato ebraico. E potrebbe anche essere necessario dislocare postazioni di sorveglianza internazionali e israeliane in punti strategici per garantire che le forze armate palestinesi non si armino con artiglieria pesante. Tutte queste misure non intaccherebbero l’identità nazionale palestinese (così come le basi militari straniere in Europa e in altre regioni durante la Guerra Fredda). Una presenza militare è sostanzialmente temporanea e un domani, mutate le circostanze, sarà possibile rimuoverla. Viceversa i civili israeliani in enclave all’interno dello Stato palestinese sarebbero una costante provocazione che rinfocolerebbe odio e dissenso.

L’eventualità di una folla di civili palestinesi, tra cui donne e bambini, che si riversano nelle strade di villaggi e città per manifestare in maniera non violenta (come avviene ultimamente in vari Paesi arabi) contro avamposti e insediamenti israeliani in Cisgiordania dopo la decisione dell’Onu a settembre mi inquieta molto. L’Anp saprebbe tenere a bada tali manifestazioni? E cosa farebbe Israele? Invierebbe l’esercito per reprimerle con la forza? E gli estremisti israeliani come reagirebbero a quelle proteste dinanzi alle loro case?
Un simile scenario potrà essere evitato se il governo di Israele sosterrà a settembre la risoluzione delle Nazioni Unite e avvierà subito negoziati diretti su tutte le questioni controverse, come lo ha esortato a fare il Presidente degli Stati Uniti.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8968&ID_sezione=&sezione=

venerdì 1 luglio 2011

Omicidio Hariri, quattro mandati di cattura I media:"Sono membri di Hezbollah"

La procura ha 30 giorni per eseguire gli arresti. Il movimento sciita, al governo con 19 ministri, è anche maggioranza in Parlamento. Il premier: "Agiremo con responsabilità"

BEIRUT - E' arrivato alla svolta uno dei casi più oscuri della recente storia mediorientale. La procura generale del Libano ha ricevuto dall'Onu l'atto di accusa del tribunale internazionale messo in piedi per trovare i responsabili dell'omicidio di Rafik Hariri, l'ex primo ministro del Paese dei Cedri ucciso in un attentato nel 2005. I mandati, riferiscono fonti giudiziarie libanesi citate dalla TV locale Lbc, sarebbero a carico di Mustafa Badruddin, Salim Ayash, Abdel Majid Ghamlush e Hasan Isa. Secondo i media libanesi, tutti gli indagati sono esponenti del gruppo sciita Hezbollah.

Il contesto. La fase finale dell'inchiesta sull'omicidio Hariri si intreccia con un momento cruciale della politica libanese, che cerca di uscire dallo stallo dopo che Hezbollah ha conquistato la maggioranza parlamentare nelle ultime elezioni. Il movimento sciita -presente con 19 ministri nella squadra del nuovo premier, il miliardario sunnita Najib Mikati- ha chiesto a quest'ultimo di troncare la cooperazione con il Tribunale. La procura ha 30 giorni di tempo per eseguire gli arresti, un arco temporale che si interseca con la scadenza del 13 luglio, data in cui Mikati dovrà presentare il proprio programma al Parlamento altrimenti il governo dovrà dimettersi.

Il premier: "Agiremo con responsabilità". Parlando in conferenza stampa, Mikati ha assicurato che "il governo agirà con responsabilità e seguirà passo passo gli sviluppi che seguiranno alla formalizzazione
odierna delle accuse. La nostra lealtà a Hariri - ha detto - impone di lavorare per il raggiungimento della verità e al tempo stesso per preservare la stabilità del Paese. Ricordiamo però che le accuse non sono condanne e che ogni imputato è innocente fino a prova contraria", ha aggiunto il premier, che ha ricordato: "La pace civile deve essere la priorità su tutto".

Le trattative. Nei giorni scorsi i vertici di Hezbollah avrebbero avuto diversi incontri con il premier per trovare una posizione comune sulla linea da seguire con il Tribunale nel momento in cui saranno rese note le incriminazioni, ma da ambienti governativi non è trapelato alcun dettaglio. In molti però dubitano che i mandati verranno eseguiti, e che materialmente i quattro accusati verranno mai consegnati alla giustizia.

Il figlio: "Momento storico". Molto soddisfatto Saad Hariri, capo dell'opposizione e figlio del premier assassinato. "Dopo anni di pazienza e di lotta - ha annunciato in un comunicato - oggi siamo assistiamo ad un momento storico per il Libano a livello politico, di giustizia e di sicurezza". Se venisse provato il legame diretto tra i responsabili dell'omicidio ed Hezbollah riemergerebbero anche le accuse al regime siriano, molto vicino al movimento sciita. Dal 2005 al 2008, proprio il regime di Damasco, ora scosso da proteste popolari senza precedenti, era stato da più parti indicato come il mandante dell'omicidio Hariri.

http://www.repubblica.it/esteri/2011/06/30/news/omicidio_hariri_quattro_mandati_di_cattura_sono_membri_di_hezbollah-18442211/